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Articolo estratto con il permesso dell’autore, dott. Daniele Trevisani, dal testo “Team leadership e comunicazione operativa. Principi e pratiche per il miglioramento continuo individuale e di team

Attivare i meccanismi motivazionali

Le comunicazioni che osserviamo tra due persone o in un gruppo sono solo la punta del­l’iceberg di processi relazionali più forti che agiscono tra le persone, i Sistemi Motivazionali Interpersonali (SIM) (Bercelli 2004). Alcuni dei SIM più riconosciuti sono: attaccamento, seduzione, agonismo e cooperazione. Un leader deve essere molto attento a quale SIM si attiva nei suoi collaboratori e nella squadra. Il conflitto e i malfunzionamenti dei gruppi partono dal sistema di comunicazione osservabile nella dinamica del gruppo.

sistemi motivazionali interpersonali

Il principio di cooperazione agisce come collante principale del gruppo, ma anche altri sistemi possono attivarsi per aumentarne il dinamismo. Tra questi:

•     l’agonismo (interno tra i membri del team o tra il team e altri soggetti esterni). L’agonismo può essere positivo quando scatena la ricerca della propria performance, ma deleterio se determina meccanismi di distruzione che vanno a discapito del­l’intero gruppo;

•     la seduzione, un SIM in genere relegato alla vita privata, può agire in background nei meccanismi di sviluppo del carisma del leader;

•     l’attaccamento può essere utile in alcune fasi iniziali del coaching e mentoring che il leader sviluppa per affiancare i nuovi arrivati nel team.

Un principio di base di qualità della leadership è definibile come segue.

Principio 5 – Repertorio del leader come attivatore di Sistemi Motivazionali Interpersonali

La qualità della vita nei gruppi di lavoro e la performance dei gruppi stessi è correlata a:

•     capacità del leader nell’attivare meccanismi cooperativi nei membri del team, ove la cooperazione sia fattore indispensabile per il raggiungimento del goal;

•     ampiezza del repertorio motivazionale e capacità di attingere a sistemi motivazionali diversi (attaccamento, seduzione, competizione).

Comunicazioni amministrative e comunicazioni emozionali nei gruppi

Il leader che si concentra solo sul gruppo e non sui suoi risultati commette un errore.

Un team comprende sia il fattore umano che il risultato atteso. Intrinseci al ruolo di leader vi sono una grande mole di comunicazioni di routine e di scambi di dati prettamente informativi e organizzativi. Dov’è quindi il confine tra capacità manageriali di organizzazione e altre (più emozionali) quali l’ascolto in profondità?

Riportiamo ora una dicotomia tra sistemi comunicazionali di grande rilevanza al fine di sviluppare le competenze comunicazionali nella lead­ership:

•     comunicazioni amministrative;

•     comunicazioni emozionali/esperienziali.

Nelle comunicazioni di natura “amministrativa” lo scambio è simile a quello necessario a un capitano di nave per attraccare: scambi di parole ridotti al minimo, comunicazione essenziale, segnalazione di eventi solo se realmente indispensabili al­l’azione. Ogni parola in più, ogni battuta non necessaria, ruba tempo e risorse mentali. Diviene inutile e controproducente per il risultato (attraccare, per una nave), o peggio portatrice di distrazione e possibili incidenti o disastri (non cogliere una segnalazione di pista occupata per un aereo).

Nelle comunicazioni di natura “emozionale” ed “esperienziale” i soggetti sono invece impegnati a trasferirsi stati d’animo e vissuti. Lo scambio è simile al dialogo profondo tra amici su quale sia lo stato di soddisfazione verso il momento che si sta vivendo, a come si viva il proprio matrimonio o rapporto, o ancora al­l’ascolto profondo che un genitore dedica al proprio figlio, o un terapeuta verso il cliente, o il tentativo di scambiarsi le sensazioni prodotte da un paesaggio mozzafiato.

La confusione presente nel campo della leadership e più in generale nel campo della direzione delle risorse umane è proprio sul tipo di comunicazione da attivare (dare ordini o ascoltare, parlare al cervello o parlare al cuore). Nella leadership sono entrambe necessarie.

Il capitano della nave deve avere grandi doti di comunicazione amministrativa nel momento del­l’attracco, o nella gestione del­l’emergenza in un mare forza sette, ma deve anche sapere parlare al cuore del­l’equipaggio nei momenti in cui questo è importante: motivazione, gratificazioni, analisi di problemi personali e stati di crisi, risoluzione di conflitti interpersonali.

Ogni gruppo e ogni coppia evolvono, nel tempo, verso stati conversazionali diversi dai quali sono partiti. Una coppia (marito e moglie) può avviare il proprio rapporto, durante il fidanzamento, con una forte componente emozionale (in che cosa credo io, in che cosa credi tu, che senso ha per te la vita, che cosa vorresti costruire assieme, che cosa sogniamo di fare assieme), per poi discendere sempre più, a mano a mano che procedono gli anni, verso dialoghi di tipo prettamente amministrativo: “Hai pagato la bolletta? Esco alle 18, riesci a passare tu al­l’asilo? La cucina nuova ti piacerebbe più bianca e nera o gialla con i pallini verdi? Hai visto come era sciupata Carola ieri sera? Volevo mettere su dei cerchi in lega nuovi, da 17 o 18 pollici, che cosa ne pensi? Chi taglia il prato questa volta? Sei passata a prendere il vestito grigio? Oggi sono stata dal parrucchiere e c’era un sacco di gente”.

Ognuno di questi atti comunicativi ha una componente di dati e una di emozioni, oppure può essere spento su entrambi i fronti.

Il fatto che si parli di gusti o preferenze personali non è sufficiente per far divenire un rapporto di tipo emozionale.

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  • Ascolto in profondità
  • Stati conversazionali
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Articolo estratto con il permesso dell’autore, dott. Daniele Trevisani, dal testo “Team leadership e comunicazione operativa. Principi e pratiche per il miglioramento continuo individuale e di team

leadership conversazionale

Competenze comunicative del leader

La leadership conversazionale contiene modalità espressive “dure” e modalità “morbide”. Con un mix situazionale adeguato, è possibile uscire dalla linea da “encefalogramma piatto” che caratterizza troppe conversazioni aziendali e familiari. Se dirigere significa gestire risultati (come spesso accade nelle organizzazioni), appaiono necessari almeno tre comportamenti comunicativi di repertorio del leader:

•     fissare ciò che si desidera e specificare come si desidera che un compito venga svolto;

•     rinforzare in positivo (premiare) i comportamenti positivi;

•     far capire se qualche cosa non va perché non va, e se serve, rinforzare in negativo (sanzionare, punire) i comportamenti negativi.

Avremo quindi un repertorio minimo costituito da fissazione delle attese, rinforzi positivi e rinforzi negativi.

Fissazione delle attese

•     Mi aspetto che…

•     Desidero che…

•     È opportuno che…

•     Voglio che…

•     Il nostro obiettivo è…

•     Vorrei che fosse raggiunto in questo modo…

•     Mi aspetto che vi comportiate così…

•     Voglio essere avvisato quando…

•     Se (x) allora (y)…

Rinforzo positivo

•     Apprezzo…

•     Mi fa piacere…

•     Sei stato bravo nel…

•     Vedo che…

Rinforzo negativo

•     Non mi piace quando…

•     Non mi va bene che…

•     Trovo sbagliato che…

•     Non accetto che…

•     Trovo inopportuno che…

•     Questa cosa fatta così provoca questi risultati che non vogliamo…

Uno dei problemi più forti della leadership è l’abuso del rinforzo e la mancanza della fase di fissazione. Crea problemi gravi anche la mancanza di rinforzo. Vediamo in rapida rassegna le diverse problematiche nello specifico.

Mancanza del rinforzo positivo

È il caso tipico in cui un comportamento positivo, mosso da intenzioni ammirevoli, o condotto con particolare dedizione, non viene riconosciuto. La mancanza di riconoscimento è un dramma sociale odierno: gli individui vengono criticati quando sbagliano ma è raro che siano premiati quando agiscono bene. La mancanza del rinforzo positivo crea demotivazione, riduce il senso di appartenenza alla comunità/organizzazione, e stimola l’abbandono del comportamento positivo.

I programmi di “pride & recognition” (letteralmente “orgoglio e riconoscenza, riconoscimento”) si prefiggono di agire esattamente su questi punti.

Abuso del rinforzo positivo

Il rinforzo positivo deve essere correlato a specifici comportamenti e atteggiamenti target. L’adulazione immotivata, i premi non meritati, le gratificazioni “a pioggia” distruggono il principio base della meritocrazia, in base al quale chi maggiormente crea valore per la propria organizzazione viene maggiormente premiato.

Si potrà certamente valutare se la meritocrazia debba essere praticata in base ai risultati (obiettivi raggiunti) o agli sforzi (impegno personale), o ad altri parametri ancora. È certo comunque che i premi o riconoscimenti non ancorati a obiettivi specifici non portano alcun risultato e non creano leadership, mentre al contrario saper dispensare premi e riconoscimenti in relazione a precisi obiettivi o comportamenti rinforza la leadership.

Mancanza del rinforzo negativo

Uno dei problemi più frequentemente riportati dagli amministratori delegati o presidenti di imprese è che i propri massimi dirigenti non “suonano la campana”, non richiamano al­l’ordine, quando ve ne sarebbe motivata occasione. Non spiegano quando qualche cosa non va, perché non va, e quali conseguenze negative possono derivarne.

Il problema nasce da diverse possibili fonti:

•     uno stile di gestione “buonista” o “paternalista” che tende sempre a ricercare scusanti per la mancanza di rispetto delle regole aziendali o delle attese;

•     il timore di affrontare le persone direttamente, faccia a faccia (incapacità assertiva);

•     il timore di ripercussioni negative sui climi aziendali;

•     la speranza che il problema si risolva da solo o non si ripresenti più per puro caso.

Queste strategie sono tutte fallimentari, poiché:

•     lo stile di gestione “buonista” o “paternalista”, se elimina il rispetto delle regole, produce climi nei quali le persone utilizzeranno gli strumenti aziendali unicamente per i fini personali, si perderà di vista la missione aziendale a vantaggio della ricerca del puro tornaconto personale (potere, denaro) utilizzando unicamente l’azienda come mezzo. È il caso tipico di molte aziende a gestione pubblica, in cui emeriti incompetenti continuano a fare avanzamenti di carriera, completamente scollegati a risultati prodotti, e soprattutto i cui errori, anche gravi, non vengono mai puniti. In questo modo non si produce alcun incentivo al miglioramento;

•     l’incapacità di essere assertivi, il timore di affrontare le persone direttamente, faccia a faccia, è un modo di agire che non si confà al ruolo di un leader. È necessario introdurre questa capacità tramite le tecniche di assimilazione progressiva (uscita dalla comfort zone, incursioni progressive nella zona di cambiamento, e ricerca/azione comportamentale per imparare un’assertività equilibrata);

•     timore di ripercussioni negative sui climi aziendali: in realtà l’unica ripercussione negativa si avrà dalla mancanza di rinforzo. Gli eventuali malumori e passaparola negativi di chi non apprezza i rinforzi negativi sono un risultato desiderato che amplifica il concetto “qui puoi fare quello che ti pare tanto non succede niente” oppure “qui dentro, quando si fa sul serio, non si scherza”;

•     speranza che il problema si risolva da solo o non si ripresenti più: se un comportamento contrario alle regole e alle attese permane, non solo si ripresenterà, ma si allargherà come un cancro ad altre persone, ad altri comportamenti, ad altri reparti, e a tutta la cultura aziendale. I problemi che nascono da atteggiamenti sbagliati non si correggono da soli, occorre intervenire su atteggiamenti, credenze e valori che li determinano, e sulle specifiche persone che li producono.

Abuso del rinforzo negativo o punizione immotivata

Vi sono leader la cui unica arma di controllo è il “bastone”, e il cui unico repertorio comunicazionale è dato dal redarguire, criticare, demolire, avvilire, provocare, aggredire.

Questi comportamenti sono concessi unicamente a fronte di deviazioni dalle regole e dai sistemi di attese, e non possono essere la prassi. Tra l’altro, una buona selezione iniziale e un buon patto d’ingresso dovrebbero eliminarli in larga misura ancora prima che essi si possano presentare.

Il rinforzo negativo (attacco, punizione) quando immotivato è distruttivo per il clima motivazionale, elimina alla radice la volontà di impegnarsi per l’azienda e per le persone che praticano questo comportamento.

La prassi comunicativa adeguata consiste nel capire il motivo del mancato rispetto, del comportamento deviante, e sanzionare solo gli aspetti che realmente denotano la mancanza di volontà nel non rispetto delle regole.

Mancata fissazione del sistema di attese

La problematica di leadership conversazionale più forte in assoluto è la mancata fissazione del sistema di attese, l’apertura del discorso su “co­me vorrei si lavorasse”, del “che cosa mi aspetto da te”, l’esplica­zio­ne dei valori personali e di come questi si traducono in attese verso i membri del team.

Finché il sistema di attese non viene fissato, non è possibile aspettarsi un rispetto delle regole o sperare che queste vengano “immaginate” dai membri del team. Salvo alcuni valori di base quali rispetto personale, dedizione, rispetto degli orari e della parola data, la stragrande maggioranza dei comportamenti ha tassi alti di variabilità operativa e richiede che vengano prese posizioni esplicite, chiarendo i possibili punti di fraintendimento.

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  • Rinforzi positivi
  • Rinforzi negativi
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  • Direzione dei team
  • Clima motivazionale
  • Direzione aziendale

Articolo estratto con il permesso dell’autore, dott. Daniele Trevisani, dal testo “Team leadership e comunicazione operativa. Principi e pratiche per il miglioramento continuo individuale e di team

Riconoscere le emozioni

La leadership emozionale propone di inserire tra i fattori di successo della gestione di un gruppo la capacità del leader nel “leggere le persone” sotto il profilo emozionale, capire i propri stati interiori e quelli altrui.

leadership emozionale

Questo permette di muovere il cursore della comunicazione con consapevolezza tra le polarità (entrambe necessarie) della direttività (fronte hard) e del­l’empatia e della relazione d’aiuto (fronte soft).

Quali le implicazioni pratiche nella direzione dei team? La prima e più forte considerazione viene dalla natura biologica del­l’essere umano che opera in azienda. Le emozioni sono risposte psicobiologiche del­l’organi­smo e non possono essere “spente” a comando.

A un livello “immaturo” di leadership emozionale, possiamo al massimo pensare di attutire e “camuffare” la manifestazione esterna delle emozioni, ma non impedire il loro prodursi. A un livello “intermedio” possiamo affinare le sensibilità propriocettive (la percezione interna) e agire sulle intensità emotive diventando più abili nel gestirle. A un livello “avanzato” possiamo ristrutturare completamente le nostre risposte emotive agli stimoli esterni.

Quando predominano emozioni negative, la produttività scende al di sotto di qualsiasi soglia di accettazione, la leadership stessa viene vissuta come una condizione di frustrazione e la partecipazione al gruppo diventa sempre più un obbligo (dal quale sfuggire prima possibile). Se predominano emozioni positive possiamo invece aspirare alla “condizione di flusso”, uno stato nel quale il lavoro viene vissuto come una gioia – una sensazione piacevole dello scorrere del tempo e dei rapporti con le persone, una condizione esistenziale che trasforma il lavoro: da gabbia a luogo di espressione e autorealizzazione.

Le implicazioni per la produttività sono immediate, enormi, ma questo è nulla a fronte della rivoluzione sociologica che questo passaggio può implicare: il lavoro come liberazione cessa di essere utopia ed entra nella sfera del possibile. Ovviamente, non bastano trucchi e scorciatoie per raggiungere questo stato, e chiunque creda/proponga soluzioni “da un minuto” o altre ricette facili e pronte per l’uso sta compiendo un grave falso e un errore di sottovalutazione.

Le implicazioni pratiche

Rispetto alle possibili interrelazioni tra i diversi temi, il metodo HPM evidenzia come il successo nel gestire un team dipenda largamente dalla capacità di riconoscere e valorizzare le dinamiche conversazionali che avvengono nelle interazioni quotidiane dei gruppi. Allo stesso tempo, viene evidenziata la necessità di sviluppare la componente emotiva che inevitabilmente accompagna le relazioni umane e le comunicazioni interne.

La qualità della vita al­l’interno di un gruppo è fortemente influenzata da due fattori.

•     L’ecologia della comunicazione: l’analisi e gestione del clima psicologico al­l’interno di un gruppo dipende largamente dalla comunicazione e dagli stati conversazionali che intercorrono tra i membri. Non possiamo pensare di “acquistare” climi positivi: si tratta di una merce non in vendita. È invece necessario sforzarsi nella direzione del­l’ampliamento delle competenze comunicative e conversazionali.

•     La leadership emozionale, la capacità di attingere con successo alle risorse emotive della persona e del gruppo per coordinare e dirigere i team e i progetti, richiede competenze comunicative ad hoc. Larga parte del lavoro richiede un dis-apprendimento (unlearning) di schemi mentali assimilati durante la crescita, nei quali è stato creato il “blocco espressivo emozionale” (tappo, o coperchio al­l’espressione delle emozioni) che l’adulto trascina con sé come un fardello per il resto della sua esistenza.

Date queste premesse, è necessario approfondire gli strumenti operativi e pragmatici che permettono di agire su due fronti.

Sul versante aziendale:

•     cambiare la qualità della vita e i risultati aziendali agendo sulle variabili comunicative dei gruppi;

•     produrre climi comunicativi positivi in un gruppo di lavoro intento a raggiungere un obiettivo;

•     migliorare la prontezza di risposta aziendale verso le sfide esterne, agendo sui processi di comunicazione interna e direzione.

Sul piano individuale e della crescita personale:

•     capire i fattori del proprio successo al­l’interno delle dinamiche di gruppo;

•     dotarsi di strumenti operativi nella direzione dei team;

•     crescere sotto il profilo della capacità di creare relazioni profonde, empatiche, emozionalmente ricche, nei rapporti umani, relative ai gruppi personali o familiari di cui si faccia parte.

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© Articolo estratto dal libro di Daniele Trevisani “Negoziazione interculturale. Comunicare oltre le barriere culturali. Dalle relazioni interne sino alle trattative internazionali”. Franco Angeli editore, Milano. Pubblicato con il permesso dell’autore

Il patto psicologico

L’approccio negoziale ALM è caratterizzato da: 

  1. duttilità della linea di azione, strategia negoziale non stereotipata, strategia creativa; 
  2. una forte consapevolezza emozionale del negoziatore;
  3. presenza di forti momenti di preparazione negoziale, communication training e simulazione.

Un approccio olistico che presta attenzione :

  • ai Saperi, 
  • ai Saper Fare, ma soprattutto 
  • al Saper Essere del negoziatore.

Questo approccio privilegia la crescita del comunicatore e negoziatore soprattutto sul piano umano.

Più che identificare una singola strategia negoziale, l’approccio ALM invita a chiedersi quali “costellazioni di strategie” (per usare un termine di Tinsley[1]) siano disponibili, e quali possano risultare più proficue. 

L’approccio ALM invita inoltre a tenere sempre in considerazione la possibilità che avvengano misunderstanding (incomprensioni) portatori di conflitti, e di esaminare il significato realmente compreso (inferred meaning) delle argomentazioni negoziali (negotiation arguments), senza darlo automaticamente per scontato.

In linea di principio il metodo ALM propone una linea comunicativa aperta, trasparente, diretta, ma è necessario ricordare che questa modalità comunicativa non è applicabile automaticamente, non è uno standard nemmeno nelle società occidentali che promuovono di facciata la chiarezza e la immediatezza (come quella Statunitense), e tantomeno lo è nelle società orientali, dove dichiarazioni troppo aperte possono innescare offesa e conflitto.

Per questo, il negoziatore interculturale deve essere consapevole dello “stress o shock da comunicazione diretta” e dei metodi per alleviarlo quando egli sollecita una comunicazione aperta, una critica costruttiva o anche solo nuovi modi di comunicare non usuali per la controparte[2].

Si parla, in questo caso, di patto psicologico tra negoziatori, nel quale i negoziatori, prima ancora di lanciarsi nella negoziazione, cercano di fissare le proprie modalità di comunicazione ottimale e condividere alcune regole negoziali.

Principio – La Negoziazione ed il patto psicologico

Il successo della negoziazione interculturale dipende:

  • dalla capacità di fissare regole comuni da seguire nella negoziazione;
  • dalla coerenza applicativa delle regole;
  • dalla capacità di mutare le regole quando queste non si dimostrino praticabili o efficaci.

Il communication training e le competenze comunicative

Sul piano interculturale è importante lavorare sulle competenze comunicative negoziali (communication skills), e sull’atteggiamento di fondo di consapevolezza interculturale. 

Lavorare sulle skills significa aumentare la consapevolezza degli strumenti comunicativi e la loro capacità di utilizzo. Lavorare sugli atteggiamenti significa eliminare le rigidità culturali, riconoscere gli stereotipi e approcci a senso unico, saper mantenere flessibilità e ampiezza di vedute, che nei contesti internazionali e negoziali permettono di muoversi con consapevolezza.

Il communication training e la simulazione sono indispensabili per passare dalla teoria alla pratica. Nel communication training metodo ALM:

  1. si utilizza l’active training, si pone attenzione prevalentemente all’assimilazione esperienziale, alla partecipazione attiva; i momenti di riflessione concettuale e teorica non servono a nulla se non sperimentati nella pratica.
  2. la teoria viene collegata agli schemi cognitivi personali: ci si prefigge l’ingresso di nuovi concetti e abilità ma soprattutto la modificazione dei sistemi di credenze sottostanti, la pura esposizione accademica a concetti non è sufficiente a creare cambiamento; 
  3. dagli schemi cognitivi viene effettuato un passaggio agli schemi motori comportamentali e agli schemi motori linguistici: concetti, credenze e atteggiamenti devono essere “ready” per l’individuo ed attivarsi senza bisogno di ricorso alla memoria, evitando la necessità di lunghe elaborazioni cognitive. Così come per il calciatore non è necessario pensare a come si muove il femore per tirare un rigore, il comunicatore e negoziatore devono sviluppare automatismi comunicativi collegati ad un Saper Essere comunicativo interiore 

Principio – Prontezza (readiness) nella performance comunicativa

Il successo della comunicazione è correlato positivamente:

  • al repertorio comunicativo disponibile: ampiezza e varietà di risposte comportamentali e comunicative, ampiezza e varietà di repertori stilistici;
  • al grado di “readiness” (facile accessibilità) con cui le competenze comunicative e mosse relazionali possono essere dispiegate, diventando schemi motori e schemi linguistici pronti per l’attivazione e non semplici tracce mentali da dover lungamente rielaborare quando necessario.

Lo scopo finale è ottenere una preparazione elevata sulla comunicazione, che metta il negoziatore pronto a trattare sul campo la maggior parte delle situazioni negoziali che possono accadere.

Il communication training si divide in due aree:

  1. competenza trasversale, area di base (ground-level) dove vengono esaminate le skills principali e necessarie in ogni negoziazione, e 
  2. competenza situazionale, in cui vengono analizzate le necessità dei singoli contesti e degli specifici interlocutori da affrontare.

Principio – Duplice stratificazione delle competenze comunicative

Il successo della comunicazione interculturale dipende dalle competenze comunicative sia di tipo:

  • trasversale alle culture: regole generali di comunicazione efficace che valgono in ogni contesto culturale, fondamenti della competenza comunicativa (ground level);
  • specifico nei riguardi della cultura-target, situazionale: analisi dei tratti culturali e strategia specificamente tarata sulla cultura con la quale si deve interagire.

Le competenze comunicative (ground level)

Le competenze comunicative interpersonali principali (ground level) sono:

  • Code switching: gestire il cambiamento di codice comunicativo, (linguistico e non verbale), per potersi adattare all’interlocutore. Farsi capire richiede uno sforzo attivo di adattamento, una volontà di modificare il proprio repertorio e avvicinarsi all’altro. Chi impone uno sforzo di adattamento unidirezionale all’interlocutore (adattamento a senso unico) e non si pone il problema della comprensione altrui crea automaticamente barriere alla comunicazione.
  • Topic shifting: il cambiamento di argomento. Capire quali tecniche adottare per scivolare da conversazioni improduttive, allontanarsi da argomenti pericolosi o inutili, evitare di toccare i punti critici della cultura altrui, produrre offesa, risentimenti o irrigidimenti. Questo tratto di competenze – così come gli altri – vale in ogni ambito comunicativo, nella comunicazione tra amici, colleghi, aziende, così come nella comunicazione diplomatica.
  • Turn taking: gestire i turni conversazionali. Vi sono culture che accettano l’intromissione nel parlato altrui, e altre in cui il rispetto dei turni di parola è essenziale. Il turn taking comprende competenze sulla gestione dei turni conversazionali, modalità di presa del turno, difesa del turno, cessione del turno, apertura e chiusura di linee di conversazione – tecniche che devono essere raffinate sia per le comunicazioni intra- che inter-culturali.
  • Self-monitoring: capacità di auto-analizzarsi, di comprendere come stiamo comunicando (quale stile stiamo utilizzando), riconoscere gli stati emotivi interiori, la propria stanchezza, o frustrazione, o gioia, l’aspettativa o il disgusto, saper riconoscere le emozioni interne che ci animano durante la conversazione o la negoziazione.
  • Others-monitoring: capacità di analizzare e decodificare gli stati del proprio interlocutore dal punto di vista di quali emozioni lo dominano, riconoscere nell’altro lo stato di stanchezza, di energia, di euforia, di avvilimento, saper percepire le influenze reciproche subite dai partecipanti alla conversazione da parte di altri soggetti presenti, cogliere i rapporti di potere in corso nei gruppi di controparte; capire il grado di interesse verso le nostre proposte e i momenti giusti per la chiusura.
  • Empatia: capacità di comprendere il punto di vista altrui, dall’interno del sistema di valori dell’altro e nel contesto nel quale l’altro è inserito, capire il valore delle mosse comunicative dall’interno della cultura che le produce.
  • Competenza linguistica: capacità nell’utilizzo della lingua, scelta delle parole e repertorio, profondità di conoscenza del linguaggio.
  • Competenza paralinguistica: capacità nell’utilizzo degli elementi non verbali del parlato, toni, pause, silenzi, e loro gestione strategica.
  • Competenza cinesica, capacità di comunicare attraverso i movimenti del corpo (body language). La gestione del movimento può essere una delle trappole più forti nella comunicazione interculturale, dove alcune culture (come quella italiana) utilizzano normalmente ampi movimenti e gesticolazioni, mentre altre (come quelle orientali) utilizzano contegno maggiore e trattengono l’espressione corporea.
  • Competenza prossemica: capacità di comunicare attraverso la gestione dello spazio e delle distanze personali. Ad esempio, le culture latine ed arabe hanno distanze interpersonali molto più strette rispetto alle distanze interpersonali nord europee.
  • Competenza di decodifica socio-ambientale: la capacità di interpretare e capire il “cosa sta accadendo qui” rispetto ai fatti che prendono luogo durante la conversazione o interazione. Saper riconoscere un conflitto all’interno dei membri del gruppo di controparte (conflitto intra-gruppo), saper cogliere le diverse posizioni, le traiettorie di avvicinamento e allentamento, i ruoli diversi assunti e le mosse degli interlocutori.

Per agire su tali competenze è necessario applicare soprattutto le tecniche di active training.

Le tecniche di active training fanno uso prevalentemente dell’azione, della sperimentazione e del laboratorio comportamentale, e comprendono elementi quali:

  • role playing;
  • tecniche di respirazione e uso della voce;
  • tecniche di sblocco dei repertori conversazionali;
  • usi dello spazio scenico e body language;
  • simulazione e business games;
  • improvvisazione teatrale e negoziale;
  • analisi della struttura drammatica del testo, analisi di critical incidents, psicodramma;
  • costruzione del personaggio e giochi di relazione.

Il reality shock

I negoziatori sia intra-culturali che interculturali devono essere preparati al Reality Shock (shock provocato dalla realtà, shock culturale). Il Reality Shock può nascere dalla improvvisa presa di coscienza che:

  • gli altri non seguono le nostre regole;
  • gli altri hanno valori di fondo diversi;
  • gli altri non hanno gli stessi obiettivi che noi abbiamo;
  • gli altri non si comportano come noi, e nemmeno come noi vorremo;
  • alcuni negoziatori sono in malafede e disonesti, non cercano un approccio win-win ma unicamente il vantaggio personale;
  • anche con la più ampia dose di buona volontà, alcune negoziazioni sfuggono dalla comprensibilità e i comportamenti osservabili non rientrano in una logica razionale.

La differenza tra un negoziatore esperto e un negoziatore novizio è il grado di danno che il reality shock procura – basso o nullo per l’esperto, devastante per il novizio.

Lo scontro con la realtà può provocare uno shock al quale segue:

  • Un processo positivo, fatto di analisi delle diversità, di accettazione di quanto può essere accettato (senza incorrere negli estremismi dell’accettazione incondizionata radicale), e una crescita delle proprie conoscenze culturali; oppure…
  • un processo negativo, fatto di caduta dello stato emotivo, rifiuto della realtà e chiusura nella propria arena culturale, il cui esito è spesso il ritiro.

Per attivare un percorso di crescita e non di involuzione, è necessario agire sul Saper Essere del negoziare, attraverso: 

  • Cognitive learning & knowledge acquisition: apprendere i contenuti di ciò che caratterizza la cultura con la quale si vuole interagire.
  • Cognitive restructuring: ristrutturazione cognitiva, trasformazione della percezione dell’atto comunicativo stesso da elemento ansiogeno a fonte di energie positive. Tale pratica richiede l’identificazione dei self-statements negativi (es: “andrà male sicuramente”, “sono inadatto”, “non riuscirò”), e l’apprendimento di self-statements positivi (positive replacements), es: “andiamo tranquillamente a vedere se esistono le condizioni per fare business”, “andiamo a confrontare senza paura le nostre reciproche posizioni”, o ancora “andiamo ad aiutare il cliente a capire come noi ragioniamo” L’analisi dei self-statementsconsiste quindi nel lavorare su come un negoziatore “entra” nella negoziazione, quale spirito lo anima. 
  • Behavioral learning & communication skills acquisition: apprendere le abilità necessarie a “performare” o realizzare un determinato goal comportamentale o comunicativo, utilizzando tecniche drammaturgiche, espressive e dinamiche relazionali.
  • Emotional control skills: sviluppo delle abilità di gestire le emozioni e canalizzare le energie emozionali verso direzioni positive, riconoscere e rimuovere lo stress da negoziazione, “ricaricare le batterie” e gestire i tempi personali, presentarsi in condizioni psicofisiche ottimali alle negoziazioni[3].

La gestione dell’immagine nella negoziazione

In ogni negoziazione diventa inevitabile confrontare i rispettivi status. Gli status tuttavia sono elementi intra-culturali e non cross-culturali. Non possiamo dare per scontato che una persona appartenente ad una cultura “altra” riconosca uno status che proviene da un sistema ad egli sconosciuto.

Una gestione più o meno consapevole della propria “faccia sociale” è presente in ogni negoziazione. Tuttavia, a livello interculturale, è facilissimo lanciare messaggi inconsapevoli e produrre danni negoziali.

Principio – Gestione dello status proprio e dell’interlocutore, giochi di “faccia” e impressions management interculturale

Il successo della negoziazione interculturale dipende:

  • dalla capacità di creare una percezione di status adeguato, all’interno del sistema di giudizio dell’interlocutore;
  • dalla capacità di creare impressioni positive (identity management e impression management);
  • dalla capacità di acquisire status e faccia senza ricorrere a meccanismi di attacco indebito alla faccia altrui (aggressione alla “faccia” o riduzione dell’immagine, evitazione dell’approccio top-down “a priori”);

Tante, troppe volte, i negoziatori non si rendono conto di praticare un abuso di posizione dominante (ostentare una superiorità eccessiva a danno dell’altro) o di praticare una “presunzione di posizione dominante” (pensare di se in termini superiori). 

La comunicazione fa trasparire queste concezioni di sè e della relazione anche senza volerlo.

La cultura del metodo ALM sostiene che deve esistere un certo grado di comunalità di valori affinché un progetto possa prendere piede.

Dobbiamo sempre considerare che la nostra cultura non è automaticamente quella degli altri. La strategia giusta è quindi di evitare di mettere la controparte in condizioni di presunta inferiorità o di assegnarsi automatiche superiorità.

Non dobbiamo stupirci, quindi, se in una negoziazione entrambe le parti cerchino di affermare il proprio status e soffrano di ansia da status. Tuttavia, dobbiamo chiederci quali sono i meccanismi utili alla negoziazione, e quali quelli distruttivi. Dobbiamo chiederci – e saper riconoscere – i meccanismi altrui di scalata allo status e di conquista del potere nella negoziazione, e le contromosse difensive. Dobbiamo evitare – con la consapevolezza di chi sa – di far predominare l’ansia da status e sforzarci di ricercare una soluzione negoziale utile per entrambi.

Le principali domande della negoziazione interculturale sono quindi:

  • Quali sono le affermazioni da evitare, quelle che possono produrre attacco allo status del mio interlocutore, lette dal punto di vista della sua cultura di appartenenza?
  • Come ri-bilanciare le posizioni quando l’interlocutore si mette in posizione di superiorità?
  • Come posso io stesso produrre un’immagine positiva mia e della mia azienda, senza dare la sensazione di superiorità e scatenare risentimenti e meccanismi vendicativi?
  • Come la cultura cui mi rivolgo valuta lo status, cosa conferisce status?
  • Quanta parte della negoziazione dedicare alla negoziazione dello status e quanta alla valutazione delle materie di discussione?
  • Quando si ripresentano le questioni di status nella negoziazione, oltre che nella fase di conoscenza reciproca? Nella negoziazione delle condizioni? Nella fissazione dei prezzi o della logistica, nelle prassi legali, nelle frasi inserite all’interno dei contratti?

La forza e il potere contrattuale

Saper trattare nuovi soggetti, spesso dalle grandi dimensioni ed elevato potere economico e politico, significa saper proporre il proprio valore come partner (vendita dell’immagine globale dell’impresa, piuttosto che la semplice vendita di un prodotto) e questo rappresenta una novità per molte aziende, un difficile orizzonte

Per vendere prodotti di scarso valore (caramelle, cioccolatini..) in un punto vendita – quindi nella vendita distributiva – è sufficiente cortesia ed una minima dose di competenza comunicativa front-line, ma nella creazione di partnership e nella negoziazione avanzata servono forti competenze negoziali e studio della strategia stessa. 

Soprattutto per le PMI, risulta difficile trattare sul piano interculturale. Abituate in passato ad un rapporto con reti distributive frammentate e divise, clienti singoli e poco rilevanti, concorrenza scarsa o debole, in cui la leva di forza era prevalentemente dalla parte del produttore, queste imprese hanno serie difficoltà a passare dalla vendita alla negoziazione. Imprese, oltretutto, abituate a vendere all’estero tramite agenti esteri e a perdere gran parte del margine verso la distribuzione, senza mai addentrarsi realmente nelle negoziazioni interculturali vere.

La negoziazione competitiva richiede la creazione di forza contrattuale.

La forza contrattuale dipende dal livello di unicità dell’offerta (o dalla mancanza di alternative valide o succedanee) e dal livello di bisogno esistente nella controparte, mediati dalle abilità comunicative.

Le competenze negoziali competitive richiedono training alla negoziazione e alla gestione delle mosse strategiche dell’interazione. 

Le tecniche negoziale divengono ancora più complesse quando le trattative avvengono tra gruppi (es.: gruppi di acquisto contro gruppi di vendita) poiché la dimensione comunicativa si allarga, richiedendo competenze nell’affiatamento tra i partner e coordinamento nelle mosse dell’interazione tra i membri dell’equipe[4].

Gestire la trattativa richiede preparazione e role-playing. Una singola parola può rovinare un incontro (Trevisani, 2000)[5].

Per questi motivi riproponiamo qui il principio della leva contrattuale :

Principio – Del potere contrattuale e negoziale

Il vantaggio competitivo dipende dalla forza contrattuale nella trattativa.

Per il venditore o proponente, la forza dipende:

  • Dall’unicità dell’offerta: un’offerta non comparabilità con altre offerte ha più valore;
  • dalla mancanza di alternative prossime: l’impossibilità di trovare con ragionevole sforzo soddisfazione tramite altrove;
  • dalla mancanza di beni succedanei (beni diversi che possono svolgere una funzione simile, es: treno al posto dell’aereo);
  • dall’impellenza del bisogno nel destinatario: un bisogno importante genera minori freni e incertezze;
  • dal prestigio di cui gode il proponente: un proponente credibile e prestigioso crea minori barriere legate alla valutazione a priori del partner;
  • dalla forza dei fattori oggettivi dell’offerta: le caratteristiche della prestazione – la sua tecnologia, il servizio reale.
  • Ciascuna di queste leve anche se presente in misura elevata non si dispiega automaticamente ma richiede abilità di valorizzazione e comunicazione.
  • Il dispiego ottimale della forza contrattuale (per chi offre) si correla positivamente con il livello di competenze comunicative specifiche del negoziatore (abilità negoziale del venditore) e negativamente con le competenze dell’acquirente (abilità del buyer).

[1] Tinsley, C. H. (2001). How negotiators get to yes: predicting the constellation of strategies used across cultures to negotiate conflict. Journal of Applied Psychology, 2001 Aug; 86(4):583-93.

[2], per un esempio di ricerche sugli stress da negoziazione interculturale diretta, vedi Kim Hughes, Wilhelm (1995). Intercultural Communication and the Decision-Making Process: Americans and Malaysians in a Cooperative University Setting. Paper presented at the meeting of the Teachers of English to Speakers of Other Languages (29th, Long Beach, CA, March 28-April 1, 1995) and at an International Conference on “Intercultural Communication: The Last Twenty-Five Years and the Next” (Rochester, New York, July 13-15, 1995).z

[3] Rispetto alle correlazioni tra emozioni, condizioni psicofisiche e performance, si consiglia di visualizzare l’approfondimento nella pubblicazione apposita sul sito www.studiotrevisani.it

[4]  Vedi Goffman, E. (1969) Strategic Interaction. Philadelphia, University of Pennsylvania Press. Trad. it. Modelli di interazione, Bologna, Il Mulino, 1971.

[5] Trevisani, 2000

Altri materiali su Comunicazione, Coaching, Formazione, Potenziale Umano, Crescita Personale e Professionale, disponibili in questi siti e link:

Altre risorse online

Siti in sviluppo

Le parole chiave di questo articolo La formazione dei negoziatori interculturali sono :

  • Active training
  • Approccio ALM
  • Communication training
  • Competenza situazionale
  • Competenza trasversale
  • Competenze comunicative
  • Forza contrattuale
  • Ground-level
  • Leva contrattuale
  • Misunderstanding
  • Patto psicologico
  • Performance comunicativa
  • Reality shock
  • Saper essere
  • Saper fare
  • Saperi
  • Status
  • Vantaggio competitivo

 

© Articolo estratto dal libro di Daniele Trevisani “Strategic selling. Psicologia e comunicazione per la vendita consulenziale e le negoziazioni complesse”. Franco Angeli editore, Milano. Pubblicato con il permesso dell’autore.

Analisi del processo di marketing per la vendita

Possiamo distinguere le fasi principali in tre livelli sequenziali:

  • fase della strategia di marketing;
  • fase della strategia di contatto (personal selling); 
  • fase della strategia di fidelizzazione e sviluppo della relazione.

Le tre fasi sono accompagnate da momenti trasversali quali:

  • attività di fissazione e sviluppo della leadership e people management;
  • attività di training e coaching per lo sviluppo del venditore consulenziale;
  • attività di monitoraggio dei risultati, dei comportamenti ed atteggiamenti.

I punti salienti del piano di sviluppo-cliente sono : 

Fase di pre-contatto – Strategie di Marketing :

  • la segmentazione del mercato (capire gli “strati” e tipologie di clienti esistenti),
  • la scelta dei segmenti di mercato su cui operare,
  • la selezione di specifici prospects (clienti ad alto tasso di interesse),
  • lo scouting di tali clienti (ricercare, identificare),
  • l’analisi del tipo di priorità da dare ai diversi prospects.

Fase di contatto e vendita:

  • i primi contatti personali o mediati, nei quali superare le barriere in ingresso e iniziare a costruire la fiducia, sia interpersonale che aziendale;
  • le fasi empatiche, di analisi e ascolto della situazione del cliente,
  • lo sviluppo di una attività consulenziale e migliorativa dal punto di vista delle forniture di cui dispone,
  • la ricerca di soluzioni (Solutions Selling) su cui chiudere e concludere una trattativa.

Fase di post-vendita – Sviluppo personale :

  • il consolidamento del cliente,
  • il cross-selling (ampliamento del tipo di prodotti),
  • assicurarsi che sia soddisfatto, sino a portarlo ad essere un nostro sostenitore e partner vero.

La vendita consulenziale si differenzia dalla vendita tradizionale per l’alto grado di valore aggiunto generato dal venditore stesso. 

Il valore aggiunto consiste soprattutto:

  • nella localizzazione dei segmenti di mercato su cui agire;
  • nelle scelte di posizionamento: come vogliamo posizionarci e differenziarci rispetto ai tanti competitor?
  • nella capacità di ascolto praticato dal venditore nei riguardi del cliente, 
  • nella ricerca di soluzioni personalizzate, frutto di negoziazione;
  • nella consulenza d’acquisto;
  • nel contributo culturale che si porta al cliente;
  • nel problem-solving e post-vendita, in grado di portare il cliente dallo stato di cliente occasionale a cliente fidelizzato e sostenitore.

Il consulente offre al cliente aiuto con la propria attenzione focalizzata

La vendita consulenziale parte dalla volontà del venditore di divenire partecipe di un processo evolutivo del cliente, configurandosi quindi come una forma di consulenza di processo.

La vendita consulenziale si inserisce all’interno di una filosofia di marketing aziendale “centrata sul cliente”.

Come evidenzia Kotler:

Il concetto di marketing è emerso a metà degli anni ’50 e ha messo a dura prova i concetti precedenti. Invece di adottare una filosofia centrata sul prodotto, “produci-e-vendi”, si adotta una filosofia centrata sul cliente, “ascolta-e-rispondi”.[1]

Per poter dare concretezza a questa filosofia servono però venditori consulenziali all’altezza del compito e leader preparati.

I principi del CVBU : Caratteristiche, Vantaggi, Benefici, Unicità

I principi di marketing per la vendita consulenziale:

  1. dare priorità alla ricerca di una soluzione efficace e positiva per il cliente (vendita consulenziale);
  2. costruire piani di vendita strutturata anziché azioni di vendita “alla giornata”;
  3. agire tramite campagne anziché con azioni spot;
  4. formare i venditori e sviluppare il loro potenziale;
  5. assicurarsi che i venditori dispongano di una conoscenza perfetta delle reali motivazioni di valore su ogni elemento del value mix: quali sono le caratteristiche, i vantaggi, i benefici, le eventuali unicità (CVBU), della nostra offerta e come queste si declinano per il singolo cliente.

L’analisi CVBU si applica non solo al prodotto ma all’intero marketing mix, includendo almeno CVBU del prodotto/servizio, del pricing, della distribuzione e della comunicazione/informazione.

Al centro di ogni analisi CVBU si colloca il potenziale cliente. Nessun ciclo CVBU può svolgersi in astratto: la percezione di valore ha luogo solamente nella mente del cliente.

I cinque punti primari per inquadrare le attività di vendita

Secondo la metodologia dell’Action Line Management (ALM) va posta attenzione:

  1. agli scenari: cosa succede nella domanda, nella concorrenza, nelle tecnologie, in che ambiente mi muovo?
  2. alla missione e alla consapevolezza dei suoi confini (analisi esistenziale, domande esistenziali): a chi diamo risposte, chi siamo, cosa facciamo realmente, cosa un cliente deve sapere di noi, perché non serviamo alcuni clienti, chi serviamo e chi no, dove si collocano esattamente i confini della nostra missione; all’organizzazione: come ci organizziamo per dare corpo alla missione e alla nostra visione/aspirazioni;
  3. al marketing mix / value mix: consapevolezze dei prodotti/servizi, delle loro caratteristiche, e del valore intrinseco posseduto;
  4. alle linee di azione e tattiche personalizzate: come declinare la strategia cliente per cliente, quali “strategie di interazione” adottare;
  5. al front-line, ai momenti di contatto di ogni natura, ogni momento della verità in cui il sistema azienda impatta il cliente (e non solo il cliente, anche fornitori e altri portatori di interessi);

La visita mirata all’interno di un’azione commerciale

Una visita mirata si differenzia da una visita generica in base al grado di preparazione precedente la visita stessa. 

In una visita mirata, sono stati già esplorati a priori i possibili problemi, le possibili obiezioni primarie, gli ostacoli prevalenti alla conclusione di vendita. 

In una visita mirata, il venditore è pienamente consapevole del “cosa sto entrando a fare”, distinguendo tra:

  • valutare se esistono spazi per…
  • valutare se esistono le condizioni per…
  • approfondire la situazione del cliente riguardo ….
  • concludere una negoziazione avviata entro …
  • capire la serietà del cliente e le intenzioni reali di acquisto, offrendo le seguenti alternative e scadenze…

Una visita mirata si prefigge di comprendere lo scenario del cliente aggiungendo dati e informazioni a quelle già disponibili, per poi poter puntare ad una conclusione consulenziale favorevole, che riduca i costi psicologici di acquisto e faccia leva sugli aspetti motivazionali del bisogno sottostante del cliente.

Rendere mirata una visita significa quindi:

  • anticipare gli scenari aziendali e psicologici che possiamo fronteggiare: studiare il sistema-cliente prima di entrare, sulla base dei dati disponibili;
  • chiedersi quali dati servono ancora per poter offrire una soluzione realmente consulenziale (Information Gap Analysis), e preparare una scaletta di informazioni e punti di interesse da approfondire con il cliente stesso;
  • anticipare i livelli di possibile bisogno;
  • posizionare una tipologia di fornitura desiderata (target negoziale strategico): es: distinguere tra diventare fornitori ufficiali, fare un ordinativo di prova, e altri tipi di relazioni commerciali;
  • dare ampio spazio ai momenti di ascolto del cliente;
  • entrare soprattutto per ascoltare, dare enfasi alla fase di analisi ed ascolto.
  • concludere su ipotesi di possibile interesse e soppesare con il cliente valore differenziale di ciascuna;
  • porre il cliente di fronte alla responsabilità di prendere una decisione.

La partnership strategica e il comakership (fare assieme)

Lo sforzo consulenziale viene premiato non tanto da una singola vendita ma soprattutto dalla capacità di ingresso nel sistema cliente.

Una partnership strategica è l’obiettivo sottostante la vendita consulenziale.

La partnership strategica è caratterizzata da:

  • rapporto intenso,
  • co-progettazione,
  • ricerca e sviluppo svolta su ambiti di interesse comune (Joint Research & Development),
  • contatti frequenti,
  • studi congiunti sul mercato di destinazione.

La forza contrattuale e negoziale

La negoziazione competitiva richiede la creazione di forza contrattuale. 

La forza contrattuale dipende dal livello di unicità dell’offerta (o dalla mancanza di alternative valide o succedanee) e dal livello di bisogno esistente nella controparte, mediati dalle abilità comunicative.

Le competenze negoziali competitive richiedono training alla negoziazione e alla gestione delle mosse strategiche dell’interazione. 

In particolare, il training deve focalizzarsi :

  • sulla capacità di analisi dei segnali non verbali,
  • sul controllo dei propri segnali,
  • sugli stili comunicativi verbali,
  • sull’analisi transazionale del dialogo (AT),
  • sulle tecniche di convergenza verso il risultato e di gestione strategica dell’obiezione. 

Le tecniche negoziale divengono ancora più complesse quando le trattative avvengono tra gruppi (es.: gruppi di acquisto contro gruppi di vendita) poiché la dimensione comunicativa si allarga, richiedendo competenze nell’affiatamento tra i partner e coordinamento nelle mosse dell’interazione tra i membri dell’equipe[2]. Gestire la trattativa richiede preparazione e role-playing. Una singola parola può rovinare un incontro.

Principio 2 – Del potere contrattuale e negoziale

Il vantaggio competitivo dipende dalla forza contrattuale nella trattativa.

Per il venditore o proponente, la forza dipende:

  1. dall’unicità dell’offerta: un’offerta non comparabile con altre offerte ha più valore;
  2. dalla mancanza di alternative presenti o creabili : l’impossibilità di trovare con ragionevole sforzo soddisfazione altrove;
  3. dalla mancanza di beni succedanei (beni diversi che possono svolgere una funzione simile, es: treno al posto dell’aereo);
  4. dall’impellenza del bisogno nel destinatario: un bisogno importante genera minori freni e incertezze;
  5. dal prestigio di cui gode il proponente: un proponente credibile e prestigioso crea minori barriere legate alla valutazione a priori del partner;
  6. dalla forza dei fattori oggettivi dell’offerta: le caratteristiche della prestazione – la sua tecnologia, il servizio reale.

Ciascuna di queste leve anche se presente in misura elevata non si dispiega automaticamente ma richiede abilità di valorizzazione e comunicazione.

Il dispiego ottimale della forza contrattuale (per chi offre) si correla positivamente con il livello di competenze comunicative specifiche del negoziatore (abilità negoziale del venditore) e negativamente con le competenze dell’acquirente (abilità del buyer).

Possiamo riassumere i punti salienti di una strategia negoziale individuando tre specifiche Macro-fasi:

Fase di preparazione : Briefing, analisi a priori Role-playing, preparazione delle action lines

Fase di contatto : Ricerca dei canali di ingresso, Face-to-face, Mediato

Fase di debriefing : Debriefing osservazionale (dati+emozioni), Debriefing strategico

Tutte le fasi evidenziate sono critiche, e per ciascuna esistono strumenti e metodologie appropriate. 

La nostra attenzione sarà dedicata alla fase di contatto front-line, utilizzando soprattutto alcuni spunti metodologici offerti dalla Conversation Analysis (CA), o Analisi della conversazione (AC). 

Al centro di tutto, nel contatto umano, si colloca la capacità di ascolto, senza la quali gli sforzi precedenti per “entrare” in un sistema cliente diventerebbero vani.


[1] Kotler. Dal cap. 1 “La comprensione del processo di marketing management”, in “Il marketing secondo Kotler”

[2]  Vedi Goffman (1959) per l’analisi dei comportamenti pubblici delle equipe.

Altri materiali su Comunicazione, Formazione, Potenziale Umano, Crescita Personale e Professionale, disponibili in questi siti e link:

Altre risorse online

© Articolo estratto dal libro di Daniele Trevisani “Strategic selling. Psicologia e comunicazione per la vendita consulenziale e le negoziazioni complesse”. Franco Angeli editore, Milano. Pubblicato con il permesso dell’autore.

Stili di comunicazione e relazione

Ognuno di noi comunica con un certo stile. È importante:

  • riconoscere con quale stile comunichiamo;
  • saper flessibilizzare lo stile per potersi relazionare ad interlocutori diversificati

Esempi di stili comunicativi, con parole tipiche dello stile:

  • Intellettuale – parallelismo, canovaccio, piattaforma progettuale.
  • Dinamico – veloce, rapido, risultato, obiettivi, vincere.
  • Aggressivo – ha capito? Non so se sono stato chiaro? Mi sta seguendo? Qui c’è troppa gente che cazzeggia, non abbiamo tempo da perdere. È ora di concludere, adesso!
  • Sottomesso – se lei vuole, se preferisce, come lei desidera, se non disturbo, facciamo quello che vuole lei, non c’è problema, siamo molto flessibili su tutto.
  • Rustico/volgare – ma và, non rompere i coglioni,  sono tutte seghe, ve la tirate troppo, è ora che ci diamo una mossa.
  • Politicante – bisogna valutare, si tratta di ricercare un compromesso, dobbiamo trovare delle sinergie, serve una piattaforma programmatica, è necessario un confronto di visioni.
  • Anglo-manageriale – il breakeven point, il marketing mix, la supply chain, la customer loyalty, è una questione di customer satisfaction, dobbiamo fare qualcosina sul cross-selling, anche in relazione alla gantizzazione del progetto.
  • Ottimista – è una bella opportunità, ci sono forti possibilità, è un progetto bellissimo, sento che le cose andranno veramente bene, sono sicuro che ce la faremo. 
  • Pessimista – non si può fare, è difficile, non ce la possiamo fare, ci sono troppe incognite, è un mondo difficile, non lo hanno mai fatto altri, è troppo nuovo, non lo conosco, non mi fido.
  • Concreto: scadenze, fissare, concludere, concretizzare, definire, inquadrare, arrivare a stringere, non perdere tempo, non perdiamo tempo, andiamo al sodo, badiamo ai risultati.

…ogni altro stile identificabile nel panorama sociale circostante.

Ognuno di noi comunica con un certo stile. È importante per la vendita consulenziale e la negoziazione saper riconoscere gli stili altrui e capire con quale stile rispondere.

Caratteristiche

Conoscere bene le caratteristiche dei prodotti e dei servizi, conoscerle a fondo e nei dettagli.

La conoscenza delle caratteristiche di prodotto, o delle caratteristiche del progetto che stiamo esaminando, è conseguibile attraverso lo studio, il confronto con esperti, e soprattutto attraverso metodi che permettano di metterla alla prova, come il role-playing.

Sessioni di domanda-risposta possono aiutare molto a mettere alla prova la conoscenza del prodotto.

Per una società di formazione, il direttore potrebbe dire ai propri consulenti: fammi vedere come spieghi ad un cliente la differenza tra coaching, training, counseling, e un workshop. Fammi vedere cosa risponderesti se un cliente ti chiede che differenza c’è.

Vantaggi

Conoscere i vantaggi competitivi significa sapere quali plus abbiamo rispetto alla concorrenza, e come questi vantaggi diventano utili, si trasformano in benefici tangibili o percepibili per un cliente o utilizzatore.

I vantaggi possono essere sia competitivi (riferiti a possibili alternative della concorrenza: in cosa siamo migliori rispetto ad altri) o vantaggi assoluti, riferiti al beneficio che ne può trarre il fruitore (che aiuto e vantaggi hanno le nostre proposte o soluzioni).

Benefici e relazione tra benefici ipotizzati e bisogni reali

Che benefici può trarre un cliente dalle nostre caratteristiche, dai nostri vantaggi competitivi?

I benefici riguardano una molteplice sfera di bisogni, sui quali dovremmo fare grande chiarezza. Spesso i benefici ipotizzati sono altamente distanti dai bisogni reali, che possono riguardare aree come:

  • il bisogno di risparmiare e liberare risorse per altri progetti;
  • il bisogno di sicurezza, garanzie, affidabilità;
  • il bisogno di efficienza, e di strumenti che la rendono possibile;
  • il bisogno di immagine, la necessità di poter esibire qualcosa ai propri interlocutori esterni, clienti o referenti politici;
  • il bisogno di azione, la necessità di poter dire ai propri interlocutori esterni, clienti o referenti politici, che si sta facendo qualcosa;
  • il bisogno autorealizzativo, diventare il massimo di ciò che si può essere, raggiungere il proprio potenziale, o un proprio sogno, sviluppare un proprio ideale.

I benefici non si collegano automaticamente alle caratteristiche dei prodotti, servizi o idee, ma diventano tali solo quando si realizza una connessione mentale tra caratteristica e bisogno.

Unicità e distintività

In quali elementi di prodotto o di servizio riusciamo ad essere unici, ineguagliabili? In quali punti di forza si concentra la nostra unicità? Cosa possiamo fare solo noi così, avere solo noi, o “essere” solo noi?

In cosa si caratterizza la nostra distintività? Nella certezza della parola data? Nei tempi di consegna? In qualche brevetto? Nelle relazioni umane? Nella capacità di analisi? Nella capacità di vendere fiducia? Nell’essere i leader di mercato per ricerca e sviluppo? O nell’essere i leader di costo? O di convenienza? O in quali altri campi? 

In altre parole, in cosa vogliamo essere percepiti come “diversi” per uscire dalla massa indistinta dei possibili fornitori?

Il nostro valore, il valore reale e il valore percettivo

Da dove deriva il nostro valore? Essenzialmente, dalla capacità di offrire benefici, soluzioni, e dare risposte ad esigenze sentite. Il valore può provenire anche dall’insieme delle caratteristiche di credibilità personale, di credibilità aziendale, sommato alle caratteristiche, vantaggi, benefici e unicità del mix di offerta aziendale, dei suoi prodotti/servizi, sistemi di prezzo, logistica, distribuzione, informazione, e customer care

Il valore reale (osservato dal punto di vista del venditore) è spesso diverso dal valore percettivo visto dal cliente. Il cliente può solo intuire e cogliere solo in parte, da pochi elementi di contatto, una realtà complessa. 

Il valore può essere amplificato o invece “ucciso” da poche informazioni o da dettagli apparentemente insignificanti che distruggono la fiducia (distrust signals, segnali di sfiducia). 

Una delle missioni fondamentali del venditore e del negoziatore è far emergere il valore e costruire il clima di fiducia ed emettere i segnali generatori di fiducia (trust signals) che permettono alla relazione di avanzare.

Trasmettere il concetto di cui si è portatori, e interessarsi al processo del cliente

Ogni venditore porta con sè stesso un’immagine di sè (self image) e una immagine della propria azienda (corporate image). Queste realtà percettive emergono in ogni interazione, che egli ne sia consapevole o meno. 

Egli porta con sè anche l’immagine che possiede della propria azienda, i suoi limiti, i suoi punti di forza, ne definisce una immagine mentale: “azienda tradizionalista” “azienda tecnologica” “boutique”, oppure “discount” – non importa di quale settore merceologico si stia parlando.

Vendere i prodotti di un’impresa non significa esporre semplicemente il suo catalogo prodotti. Significa soprattutto vendere il “concetto” che l’azienda rappresenta. 

Ad esempio, un venditore BMW dovrebbe sapere che in qualsiasi trattativa di vendita sta rappresentando non solo un insieme di bulloni, ruote e lamiere, ma soprattutto il concetto di un’auto prestigiosa, tedesca, solida, sportiva, un punto di arrivo

Sulla negoziazione politica o progettuale, troviamo un parallelo. Avere come partner un paese come la Germania in un progetto significa far entrare nel progetto un senso di “ordine” e di “tecnologia”, avere l’Italia può significare far entrare il concetto di “creatività”, ma anche connotazioni negative come “confusione” per l’Italia, o “rigidità” per la Germania.

Ogni negoziatore deve sapere quali immagini mentali porta con sè e quali sono associate al proprio sistema di appartenenza.

Identificarsi come un “punto di arrivo”

Chi entra in negoziazione vedendosi come una “seconda scelta” inevitabilmente trasmette questo concetto alla controparte. 

Identificarsi come un punto di arrivo è importante per creare un senso di autostima e sicurezza che emergerà nella trattativa. Questo è reso possibile solo da un grande lavoro sulla consapevolezza di sè e dei punti di forza aziendali.

Vendere un “punto di arrivo” è ben diverso dal vendere un insieme di parti meccaniche o pezzi di servizio.

La scena si complica se consideriamo che il cliente ha una propria percezione di cosa sia un “punto di arrivo” e questa può essere diversa dalla nostra.

Entra qui in scena la “psicologia della comprensione del cliente”, il desiderio forte di entrare nel suo mondo, alimentato da curiosità, volontà di capire, desiderio di non fermarsi alla superficie.

Per vendere un concetto assimilabile ad un “punto di arrivo” bisogna sapere quale è il punto di partenza, cioè da quale situazione parte il cliente, e perché egli aspira ad un diverso punto di arrivo. 

Dobbiamo chiederci se e perché il cliente è contento della situazione che in quel momento ha o vive, cosa desidera cambiare, in quali termini desidera evolvere, e cosa lo frena. In altre parole, dobbiamo interessarci del processo del cliente (entrare nei processi). Solo in questo modo la vendita potrà diventare consulenziale e trovare le migliori opzioni che permettono di concretizzare un risultato aziendale. 

Fare questo, significa applicare alla vendita i metodi della “Consulenza di Processo”, ovvero far convergere vendita e consulenza in un unico metodo di vendita consulenziale.

Passare dall’interesse generico alle pratiche conversazionali che lo rendono concreto

Tutti condividono a parole e in teoria un generico senso di “attenzione verso il cliente” ma pochi lo sanno tradurre in pratiche conversazionali e azione. 

Nei “momenti della verità”, in una vera negoziazione di vendita con un vero cliente, possiamo osservare e misurare se i concetti diventano realtà conversazionale, se cioè il venditore riesce a tradurre i concetti di “centratura sul cliente” in vere domande, in riformulazioni, in esplorazione, ricentraggio degli argomenti di conversazione. 

Dobbiamo analizzare se egli sa cogliere i depistaggi, o i tentativi di esproprialo del suo ruolo consulenziale. Dobbiamo accorgerci, se siamo Direttori Vendite o coach di vendita, se il venditore ha vere capacità di fare domande centrali e fare analisi – o se invece si disinteressa del processo del cliente, non pone domande, non cerca di capirlo veramente, non esplora il suo “mondo” e le sue evoluzioni, e lascia che sia il cliente a decidere quale ruolo egli deve giocare.

Un altro esempio sul tema del “vendere un concetto” prima ancora di un prodotto. L’esempio questa volta è semi-autobiografico, poiché tratta di un mercato, quello della formazione e del coaching, nel quale viviamo ogni giorno. 

Chi opera con o per il nostro Studio, ad esempio, deve essere ben consapevole del fatto che fare consulenza e formazione significa applicare dei modelli scientifici e non essere dei ciarlatani improvvisati. Un consulente o formatore può essere interprete, anche ottimo, di teorie e modelli elaborati da altri autori, oppure può diventare contemporaneamente autore e ricercatore se ha adeguate capacità. 

Nel nostro studio abbiamo svolto un grande sforzo di ricerca per produrre (generare, creare) numerosi modelli proprietari, prodotti formativi e consulenziali nuovi, integrandoli in paradigmi evoluti per lo sviluppo personale e organizzativo. Tra questi modelli troviamo il Metodo Action Line Management (ALM) ™, le Regie di Cambiamento™ per la formazione avanzata, il Deep Coaching Protocol™ per lo sviluppo personale, e creando inoltre il metodo HPM™ (Human Performance Modeling) per lo sviluppo del potenziale personale.

Chi opera con il nostro Studio deve quindi sapere che per i suoi servizi di formazione il cliente troverà un mondo di unicità, di modelli proprietari che altri non hanno. Questo permette al cliente di ottenere formazione consulenziale con tecniche nuove e proprietarie, anticipare di anni quello che uscirà sul mercato “per tutti” ed avere un vantaggio competitivo, scoprire tecniche uniche create dalla ricerca attuata direttamente dallo Studio, avere a disposizione modelli non reperibili altrove. 

Una consulenza o training centrata sul cliente e sul suo processo deve essere distanziata dal concetto di “corsificio” e questo significa saperlo comunicare, per chi opera dal lato dello Studio. 

Lo stesso problema e obiettivo, capire le unicità, vale per ogni azienda di prodotti o servizi.

La conoscenza che deve possedere chi opera per un’impresa non può essere superficiale. In generale, chi rappresenta una realtà deve essere consapevole di quale realtà rappresenta, quali potenziali porta con se.

Una rappresentazione di sè distorta, o lacunosa, emerge inevitabilmente in ogni “momento della verità” e in ogni vendita che aspira ad essere consulenziale. 

Le tecniche conversazionali

Cosa significa “tecnica conversazionale”? Dobbiamo innanzitutto capire che una interazione di vendita e una negoziazione sono basate – nel face to face – su specifici meccanismi della conversazione. Tra questi:

  • la gestione dei turni di conversazione (turn management)
  • il ricentraggio degli argomenti di conversazione
  • le tecniche di “ammorbidimento” delle relazioni (repair)
  • la produzione di domande (dare ascolto), opposta alla produzione di emissioni persuasive o informative (ottenere ascolto).

Riuscire a bilanciare il flusso che esiste tra dare ascolto e ottenere ascolto (balancing) è una precisa tecnica conversazionale.

Nella vendita classica il conflitto è “per parlare” e lo scopo è parlare più dell’altro o sovrastarlo con le proprie argomentazioni. 

Nella vendita consulenziale troviamo il gioco opposto, il gioco diventa “chi fa parlare di più l’altro”, e lo scopo strategico è indurre il cliente in uno stato di “apertura” per poter ottenere le informazioni indispensabili a costruire un pacchetto consulenziale o di offerta. 

Ottenere uno stato di apertura significa aprire sempre più il “flusso empatico” – il flusso di attenzione verso l’interlocutore che lo porta a fare delle aperture (disclosure), a dischiudere le proprie informazioni o posizioni. Tale tecnica è denominata nel nostro metodo Info-Bleeding (trasudazione informativa) e permette di ottenere informazioni indispensabili a rifinire la strategia e formularla.

Questo risultato richiede precise tecniche conversazionali, che nel nostro metodo assorbiamo dalle scienze di Analisi della Conversazione (Conversation Analysis), dalle tecniche di intervista degli informatori (Humint), dalle tecniche di intervista clinica in psicoterapia, e da altre fonti scientifiche, non ultime le tecniche utilizzate nelle investigazioni, opportunamente adattate al fatto di non volere in nessun modo creare una sensazione di “interrogatorio”.

Dietro ad ogni incontro tra realtà personali (incontro tra persone) e tra realtà aziendali (incontro tra aziende) esistono enormi potenziali da esplorare e questa consapevolezza alimenta chiunque non si accontenta della superficie, in ogni manifestazione dell’essere umano e della conoscenza umana.

La consapevolezza di sè (self-awareness) include il “come io comunico”, l’analisi di “qual è il mio stile conversazionale in una negoziazione”, ed è il tratto più importante della capacità di vendita, poiché in ogni vendita una persona porta con sè “se stesso”, i propri limiti, i propri principi morali e le sue esperienze ed abilità pratiche.

Le caratteristiche dell’azienda cliente e del sistema cliente – in senso più generale – sono estremamente importanti, ma (senza sminuirle) di minore importanza strategica rispetto alla costruzione di una buona conoscenza di sè e della propria azienda, poiché questo “lavoro” viene riutilizzato in ogni relazione di vendita, mentre lo studio di un cliente specifico è un investimento essenziale ma che trova rientro in una sola ed unica relazione di vendita. 

La consapevolezza dell’istituzione che rappresentiamo, delle sue persone, dei suoi confini, delle sue forze e debolezze, è un anello forte della vendita consulenziale che ci accompagna in ogni trattativa, ma esso non verrà mai valorizzato se non è sostenuto dallo sviluppo delle proprie competenze comunicative.


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© Articolo estratto dal libro di Daniele Trevisani “Strategic selling. Psicologia e comunicazione per la vendita consulenziale e le negoziazioni complesse”. Franco Angeli editore, Milano. Pubblicato con il permesso dell’autore.

La capacità comunicativa e l’attività della negoziazione

Comunicazione e negoziazione sono un territorio delicatissimo dell’esistenza umana.

Dalle abilità comunicative dipendono successi e fallimenti, vittorie e cadute, e la possibilità di concretizzare sogni e ideali.

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I desideri, le nostre aspirazioni umane e professionali – le idee che vorremmo concretizzare – i nostri stessi progetti di vita, sono collegati a questa capacità di comunicazione, spesso inespressa, una capacità latente, un fiore da far sbocciare. Una capacità che raramente coltiviamo e studiamo.

Essa rappresenta una delle facoltà più preziose della natura umana: poter esprimere e condividere sentimenti, idee, pensieri, visioni, sogni, progetti. 

Questi temi sono trattati in specifici workshop esperienziali condotti dall’autore, in full immersion, come ad esempio l’evento “Al Rifugio con l’Autore” che si realizza in un rifugio wellness di alta montagna, dedicandosi allo sviluppo delle capacità di comunicazione positiva, di pensiero positivo, di public speaking, di analisi della propria strategia di vita e professionale. 

L’importanza delle capacità di comunicazione può alterare (in meglio o in peggio) anche le traiettorie della propria vita sentimentale; può farci avvicinare alle persone che amiamo, o allontanarci, può generare comprensione o incomprensione, passione o tristezza, gioia o dolore. 

Una buona comunicazione può dare vita ad amicizie e rapporti che durano una vita, una cattiva comunicazione determina invece il malfunzionamento o la rottura irreparabile di relazioni umane e professionali.

Per ogni essere umano, la capacità di comunicare le proprie emozioni ad altri, aprirsi, non lasciare che esse rimangano soffocate in una ruminazione mentale solo interna, è un fattore primario di salute fisica e mentale.

Le capacità comunicative arrivano persino a determinare la vita e morte di persone, come nelle negoziazioni militari o per la liberazione di ostaggi.

In questo ambito, anche i dettagli contano, ad esempio:

  • capire chi sono i decisori veri con cui trattare può cambiare la vita di un’azienda; può farle vincere o meno una gara, un appalto, o conquistare un cliente determinante per molti anni a venire; 
  • un errore di battitura in un punto cruciale dell’offerta può generare senso di pressapochismo e far alzare le barriere valutative, rendendo la vendita più “in salita”; ma ancora…
  • una distrazione in fase di ascolto che ci faccia perdere un “segnale” importante lanciato dall’interlocutore;
  • cogliere o non cogliere un’occhiata o una smorfia di approvazione o disapprovazione che si lanciano due persone nel team con cui trattiamo.
comunicazione
inazione

È un risultato eccezionale, dal punto di vista della negoziazione e della relazione umana, capirsi tra le parti, rompere le barriere di incomunicabilità, trovare modi per avere successo cooperativo, e crescere assieme. 

Di fatto, comunicatori, negoziatori professionisti, venditori, rappresentano una parte attiva della società e “muovono le cose”. Senza di loro, le aziende non potrebbero vivere. 

Un’azienda senza persone in grado di vendere è un’azienda sull’orlo del baratro. Tutti gli stipendi vengono da un’unica fonte: le vendite.

Dobbiamo quindi prepararci, così come un soldato si prepara per una battaglia, un atleta per una gara, un attore per la scena.

La chiave è far crescere le nostre competenze comunicative, supportare la crescita degli altri

Le capacità comunicative devono diventare sempre più un vero e proprio asset (risorsa strategica) e non (quando mancano) un punto di debolezza da coprire a suon di sconti, ribassi, umiliazioni, concessioni e perdite.

Per questo bisogna agire con spirito guerriero e strategico, con una mente pronta e risoluta – una mente da analista – e “gambe” pronte ad incontrare persone in ogni luogo. 

Una frase antica, espressa da un Samurai giapponese, ci offre una bella rappresentazione, che spiega con poche parole questo atteggiamento:

Kenshin disse:  «Il fato è in paradiso, l’armatura è sul torace, il risultato è nei piedi »

Adachi Masahiro, Samurai (scritto risalente al periodo 1780-1800)

In: Cleary, Thomas. La Mente del Samurai[1]

La suggestione del Samurai Masahiro ci aiuta a capire che esistono molte aree della vita che non possiamo dominare, e altre per le quali dobbiamo e possiamo agire, sia in prima persona che in squadra.

Il “paradiso” di Kenshin sono gli scenari globali, le scelte dei competitors, la nostra armatura è la nostra preparazione, i nostri piedi sono le azioni che adottiamo.

Dobbiamo quindi distinguere le aree per le quali non vale nemmeno la pena preoccuparsi troppo, da quelle per le quali possiamo “prepararci” e fare strategia, sia che si tratti di proteggere i nostri interessi vitali (armatura) che di muoversi con scientificità tattica (i “piedi” dello Strategic Selling). 

Nessun altro può farlo per noi. 

Ma, per concretizzare, dobbiamo assimilare lo spirito guerriero proposto da Masahiro e adattarlo ai nostri scopi e alla nostra professione.

È indubbio che operare nella vendita oggi significhi avere coraggio. 

Il coraggio di chi esce con una valigia e va a conquistare un cliente. 

coraggio
coraggio

Il coraggio di chi affronta il mondo, di chi entra in culture diverse, in aziende nuove e sconosciute, di chi lotta contro competitors più forti, più finanziati o potenti, il coraggio di chi si muove in prima linea. 

Ed ancora maggiore coraggio serve per dirigere le persone, stare a fianco degli uomini e delle donne che si muovono in prima linea, stargli vicino anche sul campo, nei momenti di difficoltà e di maggiore bisogno.

Questa è leadership. Questa è una modalità di vita.

È la scelta di chi stabilisce di non stare nelle retrovie ma di stare sul fronte, immergersi nelle tante battaglie umane e sacrifici che la vendita strategica impone a chi decide di giocare questo gioco. E di gioire per i successi.

La negoziazione è certamente un gioco difficile, ma non un gioco d’azzardo. La negoziazione seria non si prefigge mai di produrre danni gratuiti alla controparte, ma – ovunque possibile – porta avanti il principio delle “relazioni d’aiuto” (essere di aiuto agli altri) e costruire relazioni che creano valore per tutti.

Relazioni vincenti che creano benefici ad entrambe le parti.

matrimonio

Questo vale anche in un matrimonio, quando due persone riescono a fissare i propri spazi di libertà per i propri interessi personali (sport, cultura, giardinaggio, viaggi, etc.) senza che il matrimonio stesso divenga una gabbia, ma piuttosto una piattaforma che dia forza ad entrambi.

Vale anche tra due aziende, quando da una buona negoziazione emerge un progetto che nessuna, da sola, sarebbe riuscita a fare.Nessun risultato, tuttavia, avviene per magia. Negoziamo da quando siamo nati, e lo faremo per tutta la vita.

Serve un’attività di negoziazione e lavoro certosino sulla chiarezza dei ruoli, e dei confini dei ruoli.

Le relazioni vanno coltivate, se vogliamo vederne i frutti.

 

curare

La comunicazione parte da un bisogno primario, il bisogno di entrare in relazione, in contatto con qualcuno o con qualcosa e per coloro che operano professionalmente con la negoziazione, prepararsi da professionisti è il minimo che si possa fare. 

Questi bisogni richiedono un lavoro di formazione adeguato.

Prepararsi da professionisti

Esiste una grande confusione in campo aziendale su cosa sia la formazione. Alcuni pretendono di preparare negoziatori e venditori tramite un paio di ore di lezioni teoriche in cui vengono propinate teorie e concetti astratti, affidandosi a professori universitari che non hanno mai venduto niente in vita loro.

Più che una formazione classica, serve una forte “sensibilizzazione”, qualcosa che vada oltre le regole stereotipate. Ad esempio, imparare a vedere come noi reagiamo alle comunicazioni altrui, come funziona il nostro dialogo interno[2]capire come esaminare una conversazione e cogliere le sue mosse strategiche, preparasi ad essere analisti.

training

La formazione seria è una forma di apprendimento molto forte, parte da un’autoanalisi che nessun PowerPoint può sostituire, e ci chiede di fare i conti con chi siamo veramente. 

Al contrario dei seminari tenuti dai “corsifici”, un buon coaching in profondità (coaching personale o team coaching) può aiutare la persona e il team a prestare attenzione a ciò che prima gli sfuggiva, e questo non ha niente a che fare con la formazione classica.

Bisogna aiutare le persone a muoversi da professionisti, a “pensare” come professionisti. La ricerca del Potenziale Umano che si nasconde in ogni persona non è né facile né immediata, lo sappiamo tutti benissimo. Ma, a volte, cerchiamo scorciatoie che non esistono. 

Le situazioni in cui la comunicazione cambia le cose sono tante. 

Possiamo avere un colloquio di lavoro nel quale si decide una svolta nella vita, nel quale far emergere chi siamo e cosa valiamo.

Gli effetti di ogni parola e di ogni gesto saranno sommatori e decisivi.

Lo stesso bisogno di essere comunicatori efficaci tocca il problema di trovare un finanziatore per progetto, o un sogno da concretizzare.

Tante situazioni, un denominatore comune: il risultato delle attività di comunicazione e negoziazione cambia la vita. Affrontare questo mondo intrigante richiede l’esame di molte variabili.

Una prima consapevolezza di fondo è il bisogno di una grande serietà in chi opera nel mondo della comunicazione e della negoziazione complessa: essere coscienti del fatto che dagli esiti di una trattativa strategica dipendono svolte di tipo professionale, effetti che cambiano la vita, propria o altrui. 

Se condotte bene, gettano le basi per un futuro migliore. Se condotte male, producono danni enormi.

Una seconda certezza: per comunicare bene serve formazione specifica, l’abito mentale di chi si prepara alla negoziazione, dedica ad essa risorse mentali, la gestisce come un’attività professionale e strategica (approccio mentale del Get-Ready Mind Set), e non trascura i dettagli[3].

energie

Una terza certezza è il bisogno di curare la “macchina” del venditore, negoziatore o comunicatore, ancora prima di preoccuparci delle sue prestazioni esterne. Una persona che sta bene, piena di energie fisiche e mentali, avrà ottime chance di esprimere anche il suo potenziale comunicativo. Al contrario, una persona fisicamente debilitata o esaurita, e psicologicamente stanca o che si sente fuori ruolo, non farà altro che errori continui.

Come sottolinea un collega e amico, importante psicologo e counselor italiano, allenatore della nazionale italiana di Apnea e di campioni del mondo di apnea, quando ci si “immerge” nelle relazioni e nelle negoziazioni si va incontro, come fa un apneista, anche a se stessi e al proprio inconscio

Possono emergere paure o incongruenze, ansie e timori ragionevoli o irragionevoli, coscienti o subcoscienti. 

Se questi ci bloccano, ci rallentano, ne subiremo gli effetti negativi.

Al contrario una persona che abbia fatto un lavoro profondo su di sé può “immergersi” tranquillamente sia in acqua che nella più difficile trattativa, senza perdere in consapevolezza emotiva e rimanendo sostanzialmente sereno nonostante l’ambiente difficile che lo circonda[4].


[1]

Cleary, Thomas (2008) (a cura di), La Mente del Samurai: Il Codice del Bushido, Mondadori. Scritto di Adachi Masahiro, Samurai (scritto risalente al periodo 1780-1800).

[2] Per il dialogo interiore nelle situazioni di consumo e scelta di acquisto, vedi Bahl, S. e Milne G. R. (2010), Talking to Ourselves: A Dialogical Exploration of Consumption Experiences, in Journal of Consumer Research, Vol. 37, June 2010.

[3] La preparazione mentale a compiti successivi, e l’utilizzo delle risorse mentali, nella Consumer Research, è stata affrontata in un articolo specifico. Vedi Bosmans Anick, Pieters Rik e Baumgartner Hans (2010), The Get Ready Mind-Set: How Gearing Up for Later Impacts Effort Allocation Now, in Journal of Consumer Research, Vol. 37, June 2010.

[4] Manfredini, Lorenzo (2010), Appunti di counseling, materiale didattico riservato, Associazione Olos e Istituto di Dinamica Mentale, Ferrara.

Altri materiali su Comunicazione, Formazione, Potenziale Umano, Crescita Personale e Professionale, disponibili in questi siti e link:

Altre risorse online

96010111capire il buyerwebsite-strategyStrategy© Articolo a cura di: dott. Daniele Trevisani, Studio Trevisani Formazione, Consulenza e Coaching.- Testo estratto dal volume di Daniele Trevisani “Strategic Selling. Psicologia e Comunicazione per la vendita”, Franco Angeli editore, Milano, 2011

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Ogni buyer – soprattutto a livello di multinazionali – è formato costantemente, è un professionista, un atleta aziendale, un agonista della trattativa, allenato sottoposto a “corsi di acquisto e psicologia della negoziazione” molto frequenti e costanti.

I buyer professionali vengono formati per apprende a rompere il potere negoziale del venditore, annullare i margini di manovra altrui.

Farlo diventa un gusto, anche a discapito di ogni teoria win-win..

In specifici corsi, e questo accade soprattutto nelle multinazionali, il buyer apprende strategie per far sentire il venditore inutile o compara­bile con altri, sostituibile, generare la sensazione che l’azienda venditrice sia una tra le tante, una sorta di commodity come il grano, l’acqua o la soia (le tecniche PICOS, o meglio le deformazioni che ne sono seguite, sono un esempio sul quale il nostro lavoro si è concentrato a lungo).

Queste tecniche sono finalizzate a creare ansia nel venditore, senso di insicurezza, sentirsi comparato con altri venditori, fino a portarlo in stato di tensione tale da far “calare le difese” e i prezzi.

Il negomeeting4ziatore o buyer professionale impara strategie per ottenere informazioni dai venditori e dai tecnici, ed utilizzarle contro di loro.

Svolge ricerche per capire chi ha di fronte e che strategie ha usato finora. Usa la Business Intelligence, prepara una strategia.

Capire con chi si ha a che fare, distinguere scenari veri da favole d’azienda è uno dei compiti principali della vendita consulenziale. E farlo dentro un team che conosce le stesse tecniche e parla la stessa lingua, anziché farlo da soli, è enormemente più facile, anche solo per il fatto di sapere di non essere soli.

Capire i motivi delle strategie comportamentali adottate dai buyer o dai decisori richiede sia saggezza che preparazione. Richiede il coraggio del Gladiatore che sa di dover lottare contro un ciclope, ma proprio per questo decidere di usare strategia e non improvvisare.

Capire chi decide, capire chi comanda, capire chi influenza chi, richiede non solo doti comunicative ma doti di analisi, di Business Intelligence.

La raccolta di tante informazioni, il presidio dei contatti, la costruzione delle condizioni atte a generare la chiusura positiva di un progetto, hanno più possibilità di successo se affrontati in team. Un team con una leadership chiara, valori comuni, conoscenze tecniche condivise, e una buona forma­zione che ci aiuti a parlare lo stesso linguaggio e manovrare la nave dav­vero come una squadra affiatata.

Questo è il mondo della vendita consulenziale. Questo è il terreno in cui ci si muove. E in questo scontro si può essere preparati o impreparati, naif o analisti, dilettanti o professionisti. A noi la scelta.

I negoziatori professionali e i venditori consulenziali sono abili comunicatori front-line, ma anche ottimi strateghi, sanno con chi devono passare un’intera giornata, e con chi invece persino un minuto è sprecato.

Sanno riconoscere le strategie dei buyer e rispondere con contro-mosse.

Sanno relazionarsi non solo ai buyer, ma anche con innumerevoli altri soggetti, di cui citiamo solo una lista minimale, rispetto alla enormità di diversi ruoli con cui effettivamente ci si trova a trattare.

Alcune tipologie di soggetti con i quali è importante saper trattare:

 

  • i proprietari, la proprietà aziendale, familiare o finanziaria;
  • persone vicine ai proprietari (familiari, amici, consulenti);
  • membri del Consiglio di Amministrazione;
  • i Direttori Finanziari;
  • i Direttori di Produzione;
  • i politici, sino ai massimi livelli locali, regionali o nazionali;
  • amministratori e dirigenti di enti pubblici e enti locali;
  • partiti politici, sindacati, influenzatori;
  • gatekeepeers (letteramente, “controllori del cancello”): coloro i quali possono bloccare un progetto o idea (potere di veto);
  • componenti tribali di un clan, es. il un capo-tribù di una regione di cui cercare l’appoggio in quanto svolge un ruolo di “gatekeeper”;
  • il “capo tribù organizzativo” di una grande impresa o multinazionale;
  • la segretaria di direzione o segretario particolare di un dirigente.

Ragionano quindi in termini di stakeholders – i “portatori di interessi” – coloro i quali sono in qualche misura coinvolti o da coinvolgere nelle scelte, o sui quali vi saranno ricadute e conseguenze, e di gatekeepers – coloro i quali possono bloccare il fluire di un progetto. Su questi soggetti, sanno attuare strategie di Key Leader Engagement (KLE): coinvolgimento dei decisori chiave, avvicinamento relazionale.

Non seguono solo ed unicamente i canali standard di vendita e i canali ufficiali di acquisto.

Mappano le reti di potere (Power Matrix) dei sistemi che devono penetrare per capire dove sono i bisogni relazionali, i possibili varchi. Sanno capire chi è il leader di una cordata aziendale o di un certo clan aziendale interno.

© Articolo a cura di: dott. Daniele Trevisani, Studio Trevisani Formazione, Consulenza e Coaching.- Testo estratto dal volume di Daniele Trevisani “Strategic Selling. Psicologia e Comunicazione per la vendita”, Franco Angeli editore, Milano, 2011

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