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Distanza ideologica e valoriale

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Articolo a cura della dott.ssa Ginevra Bighini, www.negoziazioneinterculturale.wordpress.com; mentoring a cura del dott. Daniele Trevisani, www.studiotrevisani.it

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L’articolo di oggi ruota attorno ad uno dei temi più discussi nel mondo del lavoro, ossia la comunicazione aziendale e la gestione delle risorse umane. 

Come imprenditori, c’è da chiedersi innanzitutto che valore attribuiamo ad entrambe, e quindi: 

  1. quanto contano per me le persone che lavorano nella mia azienda? 
  1. Considero utile la loro formazione? E quanto sono disposto ad investirci? 
  1. Quanto conta per me la comunicazione in azienda? La considero indispensabile per raggiungere il successo come impresa, oppure preferisco non sprecare ore preziose di lavoro per formarmi e formare i miei dipendenti alla comunicazione efficace? 

Ci sono molte altre domande che potrei aggiungere, ma se dovessi elencarle tutte, probabilmente al posto di un articolo produrrei un libro. 

È chiaro che, una volta che ci siamo posti le giuste domande, dobbiamo anche darci le giuste risposte. E proprio a questo punto sarei curiosa di leggere nel pensiero di ogni imprenditore che sta leggendo questo post, per creare una statistica reale della concezione che le aziende italiane hanno del capitale umano e del supporto consulenziale in marketing e comunicazione strategica. 

Potrei sbagliarmi, ma dalle precedenti esperienze lavorative mi sono accorta che, in Italia, la maggior parte delle aziende vede le persone come numeri sostituibili e i corsi di formazione come una spesa inutile.  

Il nostro compito, come consulenti, è quello di sfatare questo mito e di provare in tutti i modi a far aprire gli occhi delle aziende sul futuro del lavoro. 

Il futuro che io vedo, forse ancora nell’utopia della giovinezza, è un futuro dove le aziende valorizzano sé stesse attraverso la cura per il proprio personale, dove ogni dipendente viene posto al centro di ogni discussione, dove le persone riescono a bilanciare con serenità vita privata e lavorativa, ma soprattutto dove la comunicazione sia argomento fondamentale nella formazione di ogni lavoratore. 

Rendiamoci conto che, raggiungere obiettivi all’interno di qualsiasi società comporta il doversi relazionare con colleghi, clienti e fornitori: in altre parole con altri esseri umani che, come noi, hanno sogni, aspirazioni, valori e credenze specifici, con cui dobbiamo fare i conti ogni giorno quando interagiamo. 

Se l’interazione non è fluida si creano ostacoli, spesso insormontabili, al successo e si rischia il fallimento. Per questo motivo lavorare sulle proprie capacità comunicative, e soprattutto su quelle dei nostri dipendenti, è fondamentale per permettere alla propria società di diventare sempre più competitiva sul mercato. 

Saper comunicare bene giova sia al personale interno, che all’immagine stessa dell’azienda nei confronti di clienti e fornitori esterni con cui condurremo negoziazioni positive e svilupperemo rapporti di fiducia duraturi. 

Per concludere vorrei dire due parole a tutti quegli imprenditori che si sono soffermati a leggere queste poche righe: se davvero ci tenete al futuro della vostra impresa osservate il mondo che cambia, poiché se sta cambiando significa che l’essere umano ha raggiunto nuove consapevolezze e vuole vivere la propria vita privata e lavorativa in modo diverso. Le nuove generazioni si sono rese conto che per lavorare bene, bisogna essere felici e anche l’azienda è responsabile della loro felicità. Dipendenti felici significa maggiore produttività, che, unita ad una comunicazione strategica consapevole, può davvero fare la differenza nel mondo che verrà. 

Articolo a cura della dott.ssa Ginevra Bighini, www.negoziazioneinterculturale.wordpress.com; mentoring a cura del dott. Daniele Trevisani, www.studiotrevisani.it

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Articolo estratto dal testo “Parliamoci Chiaro: il modello delle quattro distanze per una comunicazione efficace e costruttiva” copyright Gribaudo Editore e Daniele Trevisani, pubblicato con il permesso dell’autore.

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In questo articolo continueremo a parlare della distanza relazionale concentrandoci sui tre conflitti comunicativi (o incomunicabilità) che possono nascere dalla mancanza di codici comunicativi, sfere ideologico-valoriali e referenti condivisi.

Mancanza di codici comunicativi condivisi

Ogni volta che parliamo, emettiamo messaggi, ma non è detto che al destinatario arrivi esattamente il messaggio che noi stavamo pensando. Quando il codice comunicativo è “rotto” o non condiviso, abbiamo una rottura della comunicazione (es: stile comunicativo altoborghese vs. stile comunicativo diretto e offensivo, oppure stile pessimista vs. stile ottimista, ecc…)

Quando due stili invece sono diversi ma hanno alcuni gradi di similarità, la comunicazione si fa più piacevole, e possibile. È l’esempio di uno stile ottimista che incontra uno stile positivo, oppure di uno stile accademico che incontra uno stile scientifico, e tante altre possibilità. 

La completa rottura di codice, o completo breakdown comunicativo, avviene quando si utilizzano due lingue dalle radici molto diverse (per esempio tedesco vs. coreano) in un canale che non permette la visualizzazione del comportamento non verbale, e senza possibilità di traduzione.  

Utilizzare due lingue completamente diverse (o solo in parte diverse) nel parlato aiuta già a far passare qualche messaggio tramite il canale paralinguistico e le espressioni facciali: per cui, anche se non è possibile entrare nei dati della comunicazione in corso, è possibile coglierne i toni. 

I suggerimenti principali sulla D2 sono di cercare di capire i codici della controparte e fare sforzo di adattamento, accettare anche di negoziare i contenuti della conversazione, e per la parte tecnica della trasmissione, fare messaggi brevi, con pause, per favorire l’elaborazione dei messaggi stessi. 

Mancanza di sfere ideologico-valoriali condivise

Dato che non esistono due visioni del mondo assolutamente uguali, dobbiamo concedere alla comunicazione il suo status vero, di ponte tra realtà diverse, di collegamento tra diversità. 

Quando le diversità si fanno troppo ampie, incompatibili, la rottura della comunicazione diventa un fatto concreto. Spesso sono le sfide, quelle vere, come il far crescere figli, incontrare difficoltà economiche o lutti e malattie, a far venire fuori i valori veri e gli atteggiamenti latenti, che non sarebbero mai emersi senza la crisi. In questa condizione, è possibile che il legame si rafforzi ancora di più, o che invece si vada al breakdown o rottura della comunicazione e della relazione. 

Un suggerimento importante per la D3 è quello di comunicare sapendo in partenza che troveremo differenze valoriali, ideologiche, di atteggiamenti e di credenze, e di non pretendere di trovare nostri cloni, ma accettare di comunicare nelle diversità.

Mancanza di referenti comuni

Facciamo il punto. L’incomunicabilità viene descritta nel modello delle Quattro Distanze come uno stato dovuto alla presenza di una o più “distanze” tra i due comunicatori. 

  • D1 – Prima Distanza: differenze nei ruoli e nelle personalità, tali da rendere impossibile l’accettazione del ruolo e quindi da rompere la comunicazione per non accettazione dei ruoli dell’altro o della relazione” 
  • D2 – Seconda Distanza: differenze sul tema della conversazione oppure incomunicabilità di codice, cioè il fatto di non avere un codice comune e condiviso per poter comunicare, che si tratti di una lingua vera e propria, o di uno stile comunicativo almeno in parte comune. 
  • D3 – Terza Distanza: divergenze nei valori, nelle ideologie, nelle credenze personali di portata tale da rendere totalmente incompatibili tra i due comunicatori e da bloccare la comunicazione o provocare il ritiro di una delle due parti non appena emergono. 

Dopo questo riassunto delle prime tre distanze, passiamo alla D4 (Distanza Referenziale). Il tema della D4, e della rottura della comunicazione sulla D4, riguarda l’incomunicabilità delle esperienze, o il fatto di avere avuto esperienze completamente diverse di una situazione, o di non aver mai condiviso un certo referente, sia esso un oggetto, una situazione, o uno stato emotivo.

Ci sono esperienze che sono difficilmente comunicabili, altre che non sono comunicabili per niente. Lo sforzo della comunicazione empatica, infatti, è comprendere esperienze e stati d’animo che noi non abbiamo potuto vivere, capendoli come se fossimo la persona che parla. Per certi temi, invece, esiste una sostanziale incomunicabilità di fondo, soprattutto per le sensazioni fisiche, viscerali e corporee (bodily-felt sense). 

Se non sono mai stato su un taxi colorato a tre ruote, la mia immagine mentale del taxi sarà quella che si è formata in base alla mia esperienza di vita.  E se due persone interagiscono usando lo stesso termine, per due esperienze di vita o oggetti mentali diversi, abbiamo una rottura comunicativa. 

In altre parole, spesso pensiamo di parlare della stessa cosa, ma non lo stiamo facendo. Parlarsi chiaro vuol quindi dire anche spendere qualche parola in più per “metacomunicare”, per “parlare delle parole”, per spiegare i termini e la nostra immagine mentale collegata.

La D4 ci parla anche delle esperienze intraducibili, quelle che puoi condividere solo ed unicamente con chi ha avuto la stessa, o simile, esperienza (es: partorire). Questo vale per tutte le azioni che l’altro con cui comunichiamo non abbia esperito direttamente. 

Un concetto fondamentale per la comunicazione è quello del felt sense, o “sensazione provata”, sviluppato da Carl Rogers. Questo concetto è importante perché ci avvicina alla vera natura della comunicazione. L’incontro e lo scambio comunicativo sono sempre connotati dai tentativi di espressione di qualche tipo di sensazione difficile da esprimere, un incontro comunicativo tra i felt sense. Il “ponte” che la parola e il messaggio cercano di costruire è tra i felt sense delle persone, per cui non c’è da meravigliarsi di quanto sia difficile comunicare alle persone correttamente come stiamo, ascoltare ed essere chiari quando il tema conversazionale riguarda i sentimenti e le emozioni, gli stati d’animo, e non oggetti fisici. 

In altre parole, stiamo attenti a dare per scontato di essere capiti facilmente, e di capire facilmente i concetti altrui. Teniamo sempre attivo l’allarme che ci segnala quanto sia facile e probabile che avvengano incomprensioni e malintesi, e molto probabilmente avremo ragione. 

libro "Parliamoci Chiaro" di Daniele Trevisani

Per approfondimenti vedi:

Articolo estratto dal testo “Parliamoci Chiaro: il modello delle quattro distanze per una comunicazione efficace e costruttiva” copyright Gribaudo Editore e Daniele Trevisani, pubblicato con il permesso dell’autore.

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Dopo aver terminato, con l’ultimo articolo, la sezione legata alla distanza dei codici comunicativi (D2), proseguo con il 4 Distances Model introducendo qui di seguito la terza distanza, quella legata alle differenze di visione del mondo, di ideologie sottostanti la visione della vita, di valori e di credenze su come funziona il mondo fisico e sociale.

La componente più hard del modello nella D3 riguarda i valori di fondo della persona, quelli talmente interiorizzati che risulta quasi impossibile scalfirli o cambiarli: al solo tentativo di toccarli per metterli in discussione, si ottiene una immediata reazione difensiva o di attacco. 

I lati più soft del modello sono le credenze superficiali e gli atteggiamenti superficiali, quelli che sono più disposto a cambiare: per esempio, cosa penso dei fast-food, della Francia, degli Stati Uniti, ecc. Nessuna credenza e nessun valore però va dato per scontato, pensando che l’altro “per forza la dovrebbe pensare così”.  

La differenza nella visione del mondo è subdolamente impalpabile, tanto permea la vita quotidiana in modo pervasivo, mai dichiarato.  Spesso infatti le distanze su questo piano sono molto forti nonostante le apparenze.  

Un esempio palese è quello degli orari di lavoro. Vi sono persone che vivono in un sistema nel quale è fondamentale dare l’esempio lavorando più dei collaboratori. Altri, al contrario, credono fermamente nel fatto che la presenza costante non serva e che siano utili altri modelli per dare l’esempio: presenze rare ma significative, poche riunioni ma con una scaletta pregnante e temi robusti e scottanti. 

Troviamo differenze molto forti, anche ideologiche, su quale sia lo stile di leadership più efficace, sul grado di delega e responsabilizzazione da attuare, sul modo di controllare e gestire le persone (people management), su quale e quanta formazione fare e così via.

In azienda, le diverse visioni su come l’azienda o la leadership vada gestita, sono vere mine vaganti nel rapporto tra i membri di una direzione aziendale e in una comunicazione di natura aziendale. 

Edgar Schein mette in guardia i consulenti (e più in generale i manager) dal considerare le differenze culturali alla leggera. Nell’identificare le possibili cause di malintesi, Schein include gli assunti culturali indiscussi. come causa di primaria importanza.

Ma cosa sono questi  assunti culturali indiscussi?

Dobbiamo renderci conto che il medesimo comportamento può assumere significati diversi in ambiti culturali differenti.

Per fare un esempio, il grado di disaccordo o accordo può essere dichiarato in modo aperto o nascosto, a seconda delle culture aziendali con cui si tratta. Nei contesti pubblici di comunicazione si assiste spesso alla “difficoltà di dire no” a colleghi o clienti che vengono percepiti come importanti e di status superiore, ma anche a clienti di grandi dimensioni. Liberarsi da questa sindrome è indispensabile per il comunicatore, così come assumere la capacità di farlo nel modo adeguato.  

Una delle principali trappole comunicative è quella di dare per scontato che i dettagli siano così evidenti, così autoesplicativi, da non richiedere lavoro di esplicitazione e comunicazione. 

Questo accade soprattutto quando le differenze culturali vengono minimizzate o non prese in adeguata considerazione, o semplicemente non viste da una o entrambe le parti, esponendoci alla problematica delle micro-culture personali, dei micro-dettagli apparenti, non negoziati, che invece dovevano essere negoziati.

Senza una negoziazione iniziale, che permetta ai due interlocutori di trovare un’intesa, una base comune dalla quale partire, si rischia di sfociare in malintesi e incomprensioni, che portano alla vittoria dell’incomunicabilità sulla comunicazione efficace.

Le interculturalità che si possono presentare sono di diverso tipo: le interculturalità trans-generazionali, per esempio, legate a persone di età diverse, sono forme di “interculturalità debole”. Debole non perché poco incisiva, ma perché scarsamente riconosciuta come comunicazione tra culture diverse. Altre forme di interculturalità “forti” sono invece quelle classiche in cui ci si cimenta tra nazioni diverse, etnie diverse, distanze culturali ampiamente riconosciute.

In questi casi è possibile il ricorso ad esperti della cultura locale che fungano da “interpreti culturali, i quali possono evitarci la caduta in “trappole comunicative”, dalle più banali, come il saluto corretto, alle più complesse, come capire quali argomenti conversazionali evitare in una certa cultura. 

Capire la cultura della persona con cui comunichiamo può facilitare la decodifica del comportamento, la comprensione del messaggio latente. Per esempio, un manager americano che si trovi ad operare in Italia per la prima volta può essere fuorviato da letture sugli stereotipi degli italiani e pensare che un forte ritardo sia caratteristica della cultura italiana. Applicare questa regola con un imprenditore italiano può invece costare caro, poiché nella cultura imprenditoriale italiana la puntualità è sinonimo di cortesia e rispetto, mentre nella cultura amicale è invece concessa una maggiore tolleranza.  

Ogni azione può avere decodifiche diverse e solo il ricorso ad esperti della cultura locale può aiutare a collocare un comportamento entro un range di “normalità culturale” o a definirlo come manifestazione extra-culturale da attribuire più all’individuo che alla sua cultura nazionale o etnica.

Simili occorrenze sono occorse nelle esperienze dello Studio Trevisani in occasione dell’applicazione di tecniche di feedback professionale (360 Survey: valutazioni manageriali a 360 gradi) su richiesta di multinazionali USA per le proprie filiali italiane. Gli esercizi che mettevano in pubblico l’immagine del soggetto, e davano in pubblico una chiara percezione del valore professionale percepito, delle forze e delle lacune, venivano assolutamente rifiutati nonostante le forti pressioni dell’organizzazione nel volerli fare a tutti i costi. I manager italiani si sono semplicemente rifiutati di farlo. 

Questo è accaduto poiché le culture latine sono tendenzialmente private e sospettose e soffrono la critica, soprattutto quella personale, molto più delle culture anglofone. Per questo è bene evitare che le persone parlino di altri presenti in sala in un contesto pubblico, mentre potranno tranquillamente farlo in un contesto privato e interpersonale.

Per concludere, il lavoro comunicativo fatto di attenzione all’ascolto dei valori altrui, a come i valori si concatenano in azioni, comportamenti, scelte, a quanto essi sono diversi dai nostri, e persino al fatto di esplicitare le differenze che troviamo e discuterne, è un elemento fondamentale del comunicare chiaro.

libro "Parliamoci Chiaro" di Daniele Trevisani

Per approfondimenti vedi: