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Articolo a cura della dott.ssa Ginevra Bighini, www.negoziazioneinterculturale.wordpress.com; mentoring a cura del dott. Daniele Trevisani, www.studiotrevisani.it

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Oggi vorrei soffermarmi su un argomento che trovo piuttosto interessante, ossia l’empatia animale.

Come tutti ben sappiamo le specie più evolute hanno la capacità di empatizzare con il resto degli esseri viventi. Attraverso questa empatia è possibile creare una connessione profonda che da vita alla comunicazione.

Partendo quindi dalla concezione di empatia, cercherò di mostrare come l’ascolto in profondità possa permetterci di aprire le strada ad una comunicazione pura e autentica, senza filtri, capace di oltrepassare non solo le barriere linguistiche e culturali, ma addirittura di specie.

Cos’è l’empatia?

L’empatia è la capacità di comprendere lo stato d’animo altrui, ovvero di “mettersi nei panni dell’altro“. (1)

Ma come possiamo metterci nei panni dell’altro, se non siamo in grado di ascoltare? Come possiamo comprendere davvero ciò che prova un altro essere vivente se non lo osserviamo attentamente? Se non lo ascoltiamo attentamente?

L’ascolto è la base per creare un legame empatico. Se non riusciamo, anche solo per un secondo, a recepire il messaggio in maniera profonda, l’empatia non si creerà mai e continueremo a vedere l’altro come un riflesso dei nostri stessi pensieri e comportamenti.

Tornando al mondo animale, sarei curiosa di sapere se qualcuno di voi ha mai messo in “punizione” il proprio animale domestico.

Sapete come mai è così importante capire ciò? Perché gli animali domestici, come cani e gatti, non recepiscono l’idea di “punizione” prettamente umana: per loro essere chiusi dentro una stanza, essere picchiati o legati ad una catena non ha alcun senso di “insegnamento”, anzi, per loro è solo una sofferenza ingiustificata. Non imparano nulla dalla violenza, ma sviluppano soltanto una paura della violenza nei confronti del loro padrone.

Eppure molti sono convinti che picchiare il proprio gatto quando vomita sul divano sia per lui un monito.

Avete mai visto nessuno, che dopo aver tirato una sculacciata al proprio micio se ne è uscito con una frase del tipo: “guarda che se lo rifai ancora, le prendi nuovamente!”

Immagino di sì…

Per il gatto, che vomita il proprio pelo per motivi naturali, quella è solo un’aggressione violenta senza alcun senso. Magari non vomiterà più in quel punto, ma lo farà comunque da qualche altra parte della casa e forse anche in punti nascosti, come sotto il letto o sotto il divano, poiché ha solo paura di subire lo stesso trattamento.

Cosa avrete risolto quindi? Nulla.

Se evitassimo di riflettere le nostre idee e i nostri valori sugli altri, come anche sugli animali, convinti che tutti pensino e si comportino esattamente come noi e che abbiano le stesse reazioni, ma provassimo, per una volta, a fermarci, ascoltare e riflettere, ci renderemmo subito conto che ciò che stiamo facendo o dicendo, spesso per l’altro non ha alcun significato.

Ascoltare serve a questo. Capire serve a questo. Empatizzare serve a questo.

E come dicevo all’inizio, anche gli animali sono in grado di empatizzare: allora perché gli esseri umani evitano di farlo?

Per esempio, secondo uno studio pubblicato sulla rivista “Learning & Behaviour“, i cani sono dotati di forte empatia verso la propria famiglia adottiva e corrono in suo aiuto ogni qualvolta percepiscono nei loro membri un forte stress emozionale. (2)

Anche i gatti sono sensibili ai gesti emotivi umani; infatti diversi esperimenti hanno provato che il gatto reagisce in base all’umore della persona ed è in grado di percepire il suo stato d’animo, di leggerne l’emotività e le espressioni facciali. (3)

Questo perché cani e gatti fanno qualcosa che molti di noi non riusciranno mai a fare: ascoltare ed osservare.

Grazie all’empatia gli animali comunicano con noi, ci inviano segnali, ci stanno vicini quando siamo depressi, gioiscono della nostra felicità e piangono della nostra assenza per solitudine.

Forse, se anche noi fossimo più come i nostri amici animali e provassimo davvero a capire l’altro in profondità, riusciremmo a creare legami forti e indissolubili, fatti di comprensione e non di giudizio.

Nell’azienda del futuro ascoltare, creare empatia e comunicare in modo sano saranno la chiave per oltrepassare qualsiasi barriera e fonderanno nuovi ambienti lavorativi in cui la fiducia e il rispetto reciproco staranno alla base del successo personale e aziendale.

Working on your empathy? Ponder baby animals

(1) https://it.wikipedia.org/wiki/Empatia

(2) https://link.springer.com/article/10.3758%2Fs13420-018-0332-3

(3) https://www.culturafelina.it/gatti-percepiscono-nostro-danimo/

Articolo a cura della dott.ssa Ginevra Bighini, www.negoziazioneinterculturale.wordpress.com; mentoring a cura del dott. Daniele Trevisani, www.studiotrevisani.it

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© Articolo estratto con il permesso dell’autore, Dott. Daniele Trevisani dal libro “Ascolto Attivo ed Empatia. I segreti di una comunicazione efficace. Milano, Franco Angeli

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L’articolo di oggi ruota attorno alle capacità e consapevolezze che tutti dovrebbero possedere per imparare ad ascoltare e vivere meglio. Per poter padroneggiare queste abilità è però necessario dedicarsi dei momenti di rigenerazione, che permettano di ricaricare le batterie e migliorare quindi il livello di attenzione.

Chi vuole praticare un ascolto attivo deve assolutamente imparare a padroneggiare le proprie energie e le proprie risorse, in particolare la propria risorsa più limitata: l’attenzione. 

L’attenzione è un bene rarissimo.  

In un’ora di ascolto, solo pochi minuti sono veramente dedicati ad una profonda connessione neurale. Larga parte del tempo dell’ascolto, infatti, è purtroppo in balia di forze superiori, come i processi interni all’individuo stesso (pensiero, digestione, respirazione, caldo, freddo, fame, sete, bisogno di andare in bagno, bisogno di muoversi), che crescono con il crescere del tempo. Le conversazioni sono dense di emozioni, di espressioni degli stati del corpo (es. stare bene o stare male) e di tutto ciò che frulla per la testa, sia di chi parla, che di chi ascolta. 

L’economia cognitiva si occupa di portare un po’ di ordine nelle conversazioni, e di sfruttare in modo efficiente le risorse mentali. Una riunione pone problemi elevati di utilizzo delle risorse, poiché esse vanno divise ed “assorbite” sia dal dibattito sui contenuti, che dalla difficoltà comunicativa generata dalla differenza di valori e posizioni. 

I problemi di economia cognitiva diventano quindi ancora più pressanti rispetto alle riunioni aziendali comuni, in cui si fa finta che le persone non abbiano un corpo, e la loro attenzione abbia durata infinita. Per questo, si arriva ad abusare delle capacità attentive, e le conversazioni si fanno sempre più improduttive. 

Possiamo quindi indicare che l’utilizzo del tempo comunicativo e delle risorse mentali diventa una meta-competenza dell’ascoltatore e del professionista. Tra le sue doti si collocano quindi le prioritization skills, le capacità di fissare le priorità.

La sfida dell’ascolto è saperlo usare come risorsa scarsa. Saper rispondere alla domanda fondamentale: di cosa è bene parlareCome gestire il tempo scarso e limitato? Come sollevare le curve di attenzione quando tendono a cadere? 

Ogni conversazione ha un costo elevato.  Proviamo semplicemente a calcolare il costo, all’interno di un’azienda, dell’orario di molti dirigenti che impiegano una mattinata, arrivando in aereo da paesi diversi, oppure pensiamo al costo delle sale e dei materiali, o a quello di preparazione, ecc… 

In famiglia, immaginiamo quanto siano rari e quindi preziosi quei minuti in cui si può parlare dopo aver dedicato tempo al lavoro e agli impegni. 

Le conversazioni quotidiane non sembrano costare, per il semplice fatto che nel nostro tempo libero non veniamo pagati. Ma se consideriamo il fatto che il nostro tempo sulla Terra è limitato, allora faremmo bene a spenderlo il più possibile per renderlo piacevole.

L’attenzione è portare il nostro focus sulle parole, sui significati, sui gesti, sugli sguardi, sulle posture, sul rapporto delle persone con gli oggetti circostanti (es. come li usano), ecc… . L’attenzione è un’arte, e forse è per questo che è così rara e preziosa. 

Ogni gruppo che si riunisce per raggiungere uno scopo può o meno darsi una strategia per ottimizzare le risorse messe in campo durante l’incontro

Le prioritization skills prevedono che il comunicatore si impegni attivamente per definire quali priorità trattare, agendo quindi anche sul formato di un incontro, impostando i termini di base da trattare. Questo significa anche fare scelte molto concrete: di cosa parlare e come parlarne.

Altre priorità riguardano la fissazione di un clima conversazionale positivo: senza il clima adeguato ogni discussione sui contenuti diviene più difficile. Per questo è necessario capire che esiste una precisa relazione tra climi emotivi e stili comunicativi.  

Alcuni stili comunicativi, come il darsi delle arie, o lo svilimento altrui, sono deleteri al raggiungimento di un risultato. Essi risultano diseconomici e disfunzionali, e vanno colti negli altri ed evitati per se stessi. 

Il tema dell’economia della comunicazione richiede quindi: 

  1. capacità di riconoscere le risorse attentive (limitate) disponibili per la conversazione (consapevolezza delle risorse); 
  2. capacità di capire i confini di tempo disponibili (consapevolezza dei tempi); 
  3. capacità di muoversi entro tali confini decidendo i contenuti più appropriati e riconoscendo quelli dispersivi (consapevolezza dei contenuti strategici); 
  4. capacità di gestire le fasi e tempi degli incontri (consapevolezza delle sequenze di interazione) 
  5. capacità di agire sugli stili comunicativi adeguati alle diverse fasi, e sugli atteggiamenti sottostanti gli stili di relazione (consapevolezza contestuale degli stili comunicativi). 

Per concludere, la qualità dell’ascolto dipende: 

  • dalla capacità di centrare i contenuti della conversazione; 
  • dalla capacità di gestire le proprie risorse attentive (ricarica e gestione delle energie personali) e cogliere gli stati altrui; 
  • dalla consapevolezza dei limiti di tempo per la conversazione; 
  • dalla capacità di segmentare i tempi conversazionali, distinguendo le fasi e i relativi obiettivi specifici, in particolare separando il tempo dell’ascolto (empatia) e il tempo propositivo dell’affermare; 
  • dalla capacità di modulare i propri stili di comunicazione, rompendo la rigidità comunicativa, sapendo adattare gli stili alle diverse fasi, ad esempio: amicale nelle fasi di warming up e small talk (chiacchiere introduttive), psicanalitico nelle fasi empatiche, assertivo nelle fasi propositive, ecc.
"Ascolto Attivo ed Empatia" di Daniele Trevisani

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© Articolo estratto con il permesso dell’autore, Dott. Daniele Trevisani dal libro “Ascolto Attivo ed Empatia. I segreti di una comunicazione efficace. Milano, Franco Angeli

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Come si può dedurre in maniera limpida dal titolo, l’articolo di oggi sarà un’introduzione agli stati conversazionali, la cui attenta gestione mostra il grado di leadership conversazionale all’interno di uno scambio comunicativo tra due o più interlocutori.

L’Analisi della Conversazione è una vera e propria disciplina scientifica. Nota nel mondo anglosassone delle scienze della Comunicazione come Conversation Analysis (CA), si occupa proprio di esaminare questo fenomeno così quotidiano eppure così complicato.  

Ne abbiamo già parlato, tuttavia servono approfondimenti perché l’ascolto, senza un’analisi del meccanismo in cui è inserito (la conversazione) sarebbe ben poco affrontabile. 

Noteremo subito che l’ascolto è un momento speciale della conversazione, è l’interruzione di un noioso ping-pong dove uno cerca di parlare sull’altro o avere sempre l’ultima parola. È in altre parole, un disintossicante delle conversazioni

L’analisi della Conversazione ci invita innanzitutto a riconoscere il formato di conversazione in corso, il tipo di conversazione che sta accadendo all’interno di un gruppo o tra due persone, attraverso un’attenta lettura dei segnali verbali, paralinguistici e non verbali che scorrono tra le persone. 

Con un adeguato addestramento ed elevata sensibilità naturale, è possibile cogliere in poche battute quali siano gli “stati conversazionali” che predominano in una comunicazione. 

Per “stati conversazionali” intendiamo qui una sequenza di mosse comunicative riconducibile a dei prototipi, ad esempio: 

  1. la confessione, 
  2. la seduzione, 
  3. le stilettate reciproche (conflitto strisciante), 
  4. la “conversazione da spogliatoio”, 
  5. l’autocelebrazione, 
  6. la ricerca di aiuto, 
  7. l’auto vittimizzazione, 
  8. l’offerta di aiuto, 
  9. l’accusa, 
  10. l’analisi scientifica di un problema, 
  11. “proviamo a capire”, 
  12. lo “sparlare degli assenti”, 
  13. lo sfogo, 
  14. il “parlar di guai”, 
  15. il “sogno ad occhi aperti”, 
  16. il litigio, 
  17. l’interrogatorio, 
  18. il giocare assieme, 
  19. il “fare le fusa”, 
  20. il “parlare tra simili”. 

Le conversazioni si spostano continuamente da uno stato all’altro, e possiamo avere conversazioni che partono in termini di “confessione” per poi spostarsi in seduzione, scivolare in autocelebrazione, e poi ancora in accusa. 

Altri formati conversazionali, quali l’analisi scientifica di un problema, o il “parlare tra simili” (es.: confrontarsi tra “padri di famiglia”) possono far emergere differenze culturali, ma con meno margini di errore. 

Ogni conversazione (negoziale e non) procede comunque lungo un format finché un altro e diverso format non prende piede.  

Quando il format cambia, abbiamo un “Cambio di Footing”, un cambio di passo nella conversazione. Può andare verso un’accelerazione, dove i climi e gli scambi si fanno più serrati e rapidi, o verso un rilassamento dove si nota più spaziosità tra i turni di conversazione, più ascolto empatico, più disponibilità e meno fretta. 

Il ruolo della leadership conversazionale è esattamente quello di spostare i format e dirigerli ove sia più produttivo. 

Ciò che risulta utile, per l’ascolto, è la capacità di capire come la conversazione sta evolvendo lungo il tracciato, e l’abilità di spostare le linee entro spazi comunicativi il più possibile produttivi. 

Per concludere, possiamo dire che questi formati conversazionali possono essere considerati come il sale e il sapore della conversazione stessa. 

"Ascolto Attivo ed Empatia" di Daniele Trevisani

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Restando sempre all’interno dell’area tematica dell’ascolto attivo, introduciamo le domande potenti, che possono essere utilizzate per analizzare interiormente l’interlocutore, oltre che noi stessi, e per capire la sua rete relazionale.

Mentre ascoltiamo sappiamo che ogni parola o frase non esiste da sola, ma si inserisce in reti e nodi mentali preesistenti, che vengono toccati (sollecitati) dalla comunicazione. 

  1. Ogni messaggio che tocca un nodo di una rete di significati stimola i significati vicini ad essa
  2. I messaggi che attraversano le reti cognitive e i sistemi di credenze dell’individuo possono modificare la struttura della rete stessa

Le domande potenti, quelle che scavano nel profondo, possono cambiare la mente. Non solo possono dare luce ai mondi interiori delle persone, ma possono cambiarle agendo sull’incremento della consapevolezza del cliente. È sufficiente avere il permesso di farle, o la richiesta, come avviene nelle sessioni di psicoterapia. 

Alcune domande potenti sono qui portate ad esempio, ma vanno usate con intelligenza, con il permesso di farlo e con pratica professionale: 

  1. Da quanto tempo non ti senti felice? 
  2. Che atmosfera si vive a casa tua? 
  3. Cosa credi sia possibile e cosa credi che sia impossibile nella tua vita? 
  4. Che fase è questa, nella tua vita? 
  5. Con cosa non hai ancora fatto i conti nella tua vita? 
  6. Cosa dà senso alla vita per te? 
  7. Tra quanto tempo vorresti sentirti felice? 
  8. Qual è la cosa peggiore che nella tua vita non deve capitare? 
  9. Quali sono stati i momenti peggiori della tua vita?  
  10. Perché siamo arrivati li? 
  11. Da quanto tempo non ti senti spensierato? 
  12. Con chi ti senti bene? 
  13. Quando ti senti bene? 
  14. Quali sono le persone che ti danno energia e quelle che te ne tolgono? 
  15. Ti senti capace nel programmare il tuo futuro?  
  16. In genere programmi qualcosa nella giornata, settimana, mese, anno, più anni, mai? 
  17. Qual è l’offesa più mortale che potrebbero farti? 
  18. Cosa rappresenta per te un rifugio esistenziale, quel posto dove vai a curare te stesso? 
  19. Cosa vorresti fare nella vita prima di morire, cosa non vuoi dire di non aver provato, o fatto? 
  20. Come ti senti in presenza di X? (dove X è una persona significativa) 

Alcune di queste domande possono essere compiute con tecniche speciali di training mentale, ad occhi chiusi, da distesi, ma questo richiede un tipo di formazione speciale, in quanto la profondità nella lettura di sé stessi, in quella condizione, aumenta, e aumentano anche le risposte emotive, incluse emozioni che portano al pianto, alla rabbia, alla sofferenza, alla gioia. 

Per saper gestire queste reazioni occorre un training speciale, come minimo una scuola di counseling o di coaching avanzato. 

Far uscire queste risposte e le emozioni che le accompagnano fa bene, poiché rompe la “Spirale del Silenzio”, che come un morbo attanaglia persone, aziende e organizzazioni, sino ad intere società. 

Il network cognitivo è l’insieme dei concetti, idee e pensieri che portiamo con noi. 

Dietro ad ogni decisione ci sono “suggeritori occulti”, persone la cui reazione viene immaginata e anticipata, per capire se un sì o un no possono urtare gli equilibri relazionali e mentali esistenti. Es. Cosa avrebbe detto mio padre di fronte a questa scelta? (o qualsiasi altro referente mentale attivo nella mente della persona). 

Un ascolto attivo e avanzato cerca quindi di capire quale sia il network umano che sta dietro alla persona, le persone che la influenzano, il quale può emergere sempre attraverso l’uso di domande potenti come:

  • Secondo lei chi dovremmo coinvolgere in questa decisione?
  • Chi può essere dispiaciuto o rallegrarsi di questa decisione o scelta?
  • Di chi ti piacerebbe avere l’approvazione se fosse possibile averla?
  • In caso di bisogno economico, su chi pensi potresti contare per un aiuto? 
  • In una situazione di bisogno materiale, ad esempio rimanere a piedi con l’auto, chi chiameresti per avere un primo aiuto? 
  • Chi sono le persone che vedi di più
  • Di chi ti fidi in questa fase della tua vita? 
  • Chi ha deluso le tue aspettative? 
"Ascolto Attivo ed Empatia" di Daniele Trevisani

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Nell’articolo di oggi parleremo delle “Means-End Chains“, o “catene mezzi-fini“, strategia che ha l’intento di scavare a fondo nel sistema di credenze dell’interlocutore per poter comprendere le motivazioni che si nascondono dietro alle parole, ai comportamenti e agli atteggiamenti.

Le convinzioni sono il motore del comportamento. Le convinzioni, o credenze, possono essere utili (es, se mangio frutta e verdura mi farà bene) o letali (es, vado forte in auto tanto a me non succederà niente). 

Ascoltare le credenze significa setacciare l’ascolto andando alla ricerca delle convinzioni (beliefs, credenze radicate o periferiche) di cui la persona è portatrice. Le credenze sono in parte consce, ma in larga parte inconsce e non espresse, non verbalizzate. 

Come un vento vorticoso, le credenze attorniano le persone e non gli offrono spazio per guardare oltre. Se guardo una persona sollevare un attrezzo (un peso), penso che non abbia altro da fare che farsi del male, o cerco di comprendere e capire perché lo fa. Molto probabilmente quel gesto meccanico, nella sua visione delle cose, ha il fine di stimolare il muscolo, bruciare grassi, ottenere migliore forma fisica e quindi piacere di più, fino ad auto-accettarsi di più. Benvenuti, siamo in una palestra. Adesso quel gesto fisico assume un senso, o almeno una parte del senso totale. Difficilmente, però, se chiediamo a questa persona cosa stia facendo, dirà: “voglio essere più seduttivo e auto-realizzato”. Molto più probabilmente risponderà: “sto facendo palestra, per stare in forma”. Possiamo quindi dire che dietro ad ogni parola (mezzo), o azione che osserviamo, esiste un fine che possiamo scoprire. La Means-End Chain (catena mezzi-finalità) è il meccanismo basilare attraverso il quale si crea un valore. 

Vediamo un’analisi svolta relativamente al prodotto “yoghurt magro”. 

La catena esposta nella figura vede presenti diverse “promesse” (sulla destra), che il cliente percepisce, associate ad altrettanti “stati” del prodotto (sulla sinistra), sino al punto in cui si trasformano in valori. 

Notiamo: 

  1. un attributo concreto (concrete attribute: bassa percentuale di grasso); 
  1. un attributo più intangibile e derivato, ad esso collegato (abstract attribute: meno calorie); 
  1. delle conseguenze funzionali (functional consequences: un dimagrimento); 
  1. conseguenze psicosociali (psychological consequences: superiore accettazione sociale); 
  1. valori strumentali (instrumental value: maggiore fiducia in se stessi – aumento della self confidence o fiducia in sè); 
  1. I valori terminali e più profondi dell’individuo (terminal values): l’incremento del grado di autostima (self-esteem). 

L’analisi delle Means-End Chains ci illumina su un punto critico: ascoltare le parole, di per sé non significa nulla, finché esse rimangono scollegate da sfere semantiche (aree di significato) ed emozioni che vi stanno dietro.  

Servono almeno 5 “Perché?” per arrivare ad un valore terminale. E spesso di più. 

Le catene mezzi-fini sono anche fondamentali per fare domande in profondità, in un approccio di ascolto attivo. 

Il basso contenuto di grasso di uno yoghurt non è positivo o negativo, può essere entrambe le cose: per un muratore cui servono le energie necessarie ad affrontare un lavoro faticoso, il basso potere calorico è assolutamente negativo, mentre per una modella farcita di immagini mentali di magrezza, ossessionata a mantenere la linea, rappresenta un elemento positivo. La catena sopra esposta può essere una delle diverse catene in azione che creano valore semantico del prodotto, ma soprattutto, è soggettiva. Possiamo anche sbagliare nel comprenderla, soprattutto quando cerchiamo di completarne i nodi con le nostre personali credenze. 

Saper ascoltare in profondità significa arrivare a capire il perché le persone fanno ciò che fanno, e quindi arrivare a capire le loro catene mezzi-fini. Finché non capiamo le catene mezzi-fini attive, non riusciremo mai a guidare una persona in un cambiamento, perché siamo come barche che cercano un’isola circondate da una coltre di nebbia. Ascoltare le catene mezzi-fini significa invece fare luce sui motivi dei comportamenti. Questa tecnica è anche fondamentale per “coltivare motivazione” all’interno di sessioni di coaching, e scatenare la motivazione verso obiettivi positivi. Perché le domande, quando sono attive e in profondità, non sono mai neutre verso il destino. Le domande cambiano le persone. 

"Ascolto Attivo ed Empatia" di Daniele Trevisani

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© Articolo estratto con il permesso dell’autore, Dott. Daniele Trevisani dal libro “Ascolto Attivo ed Empatia. I segreti di una comunicazione efficace. Milano, Franco Angeli

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Oggi ci concentreremo sui 3 errori più comuni che di solito vengono fatti durante la fase di ascolto.

Vista la complessità e varietà di casi e situazioni, è normale aspettarsi che quando facciamo una domanda o ascoltiamo, la mente sia aperta a qualsiasi informazione entri. In realtà possono succedere i seguenti errori prevalenti.

Ascoltare solo per avere conferma di avere ragione. Questioni di dissonanza cognitiva in noi e nel cliente

Questo tipo di ascolto è denominato “ascolto confermativo”, poiché l’obiettivo è solo quello di cercare la conferma di avere ragione, di essere nel giusto. 

Questo ascolto fa scartare molte delle informazioni in ingresso, e soprattutto non fa cogliere quei segnali dubitativi che le persone lanciano tramite micro espressioni, gesti corporei e segnali dei muscoli facciali che possono comunicare disapprovazione, disgusto, o sorpresa. 

È confermato che le persone evitino accuratamente di esporsi a fonti informative che possano disturbare i propri equilibri cognitivi, e portare dissonanza cognitiva.  

La dissonanza cognitiva è un concetto introdotto da Leon Festinger e usato prevalentemente in psicologia sociale per descrivere la situazione di elaborazione mentale in cui credenze, nozioni e opinioni su un certo tema entrano in contrasto tra loro. 

Certe volte preferiamo letteralmente non venire a conoscenza di qualcosa che andrebbe ad alterare ciò che pensiamo sia vero e giusto. 

Ascoltare le persone e le loro dissonanze cognitive è un esercizio fondamentale. 

Naturalmente, lo stesso vale per noi. Quando scopriamo una dissonanza cognitiva in noi, faremo bene ad esaminarla con un supporto professionale di coaching, counseling o terapia, perché “tenersi dentro” delle dissonanze è “tenersi dentro” confusione mentale, e anche dolore. 

Ascoltare utilizzando solo il proprio filtro di opinioni e valori senza accettare che ve ne possano essere altri  

Ascoltare con pregiudizio è un passo di partenza sbagliato. Io chiamo questo tipo di ascolto “ascolto filtrato” ed è normale che accada: quando sentiamo una notizia, la valutiamo in base ai nostri filtri valoriali.  

Quello che è sbagliato, nell’ascolto attivo, è pensare che la persona che stiamo ascoltando abbia esattamente i nostri filtri valoriali, e le stesse nostre mappe mentali, dando per scontate le sue risposte, e adombrandoci quando non assomigliano per niente a quelle che avremmo dato noi. L’ascolto attivo deve essere neutro. 

Nel flusso di comunicazione che stiamo ascoltando, inevitabilmente qualcosa che la persona dirà va contro alcune delle nostre opinioni, persino contro alcuni dei nostri valori, o addirittura è contrario a qualcuno dei nostri principi più solidi.  

Appena questo “contrasto” emerge, rischiamo di irrigidirci e smettere di ascoltare. È fondamentale invece per un ascoltatore avanzato, saper “sospendere il giudizio”, ascoltando tutto il flusso comunicativo.

Ascolto in Cloud 

Partecipare all’ascolto significa sospendere la nostra ruminazione mentale e praticare la presenza mentale, portare la nostra mente “li”, nell’ascolto. Significa ascoltare e basta, spegnendo ogni altro pensiero. 

L’ascolto nella nuvola mentale o ascolto “in Cloud” è invece un ascolto che si pratica mentre la mente si perde in altri pensieri e si deconcentra.  

Consiste in sostanza nel lasciare che l’ascolto rimbombi nella propria testa. È normale che mentre ascoltiamo si aprano pensieri, ricordi, riflessioni. Altrettanto normale è che si creino riverberi interni su quanto ascoltiamo, e altri pensieri.  

Tutti questi pensieri possono formare una “nube” che arriva ad assorbire completamente la nostra attenzione. In questo modo la nostra attenzione diventa auto-centrata, cioè diretta solamente verso noi stessi, perciò, anche se l’altro “emette” parole, queste non entrano realmente nella nostra mente, diventando puro rumore di fondo.  

Questo “ascolto in cloud” o ascolto nella nuvola, può e deve essere spezzato: 

  • da momenti di breve riformulazione (quindi eri a Roma, giusto?);  
  • da domande (in che zona di Roma?);  
  • da momenti di ricapitolazione (Se ho capito bene la storia è andata così…);  
  • da gesti non verbali del capo (come, per esempio, cenni che facciano intendere all’interlocutore che abbiamo capito);
  • da brevi punteggiature para verbali (es, ah, uhm, ok).

Fondamentale è l’assenza di rumori di fondo, di distrattori come televisione, telefoni, chat, e altri elementi di disturbo. È anche possibile dire apertamente “mi sto perdendo, hai parlato di Davide, e poi?” 

Possiamo dire senza ombra di dubbio che la base di una comunicazione in stato di cloud sia il caos, il non capirsi, il disordine mentale, lo stato di entropia comunicativa.

Da questa base di partenza, l’ascolto attivo agisce per inserire maggiore ordine informativo, estrarre informazioni, dati, segnali, emozioni, e coordinarle per trarvi significato. Un lavoro non da poco.

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© Articolo estratto con il permesso dell’autore, Dott. Daniele Trevisani dal libro “Ascolto Attivo ed Empatia. I segreti di una comunicazione efficace. Milano, Franco Angeli

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L’articolo di oggi, così come quelli a seguire, si concentreranno sull’importanza dell’empatia e dell’ascolto attivo nella comunicazione e nelle negoziazioni. Ciò che leggerete qui di seguito è un’introduzione all’ascolto dei sistemi di credenze del nostro interlocutore. Comprendere le mappe mentali di chi ci circonda, infatti, ci permette di scegliere con cura le parole da utilizzare e apre le strade ad una comunicazione strategica ed efficace.

Le credenze o beliefs sono qualcosa che la persona possiede, e sente propria ben più di un bene materiale. 

Immaginiamo di chiedere ad una persona “cosa ne pensi dello yoghurt al naturale”? E di non sapere veramente niente di quella persona, non averla mai incontrata prima.  

Potrebbe rispondere “buono”, ma in realtà quello che evoca il concetto “yoghurt al naturale” è qualcosa di estremamente più complesso.

Quanta di questa complessità sapremo cogliere? Dipende dalla nostra abilità di ascolto. Questo esempio serve per capire che dietro alle parole si nascondono “mondi semantici”, “mondi di significati“. Lo yoghurt, è solo una scusa per capire come funziona il meccanismo.  

Le mappe mentali che si nascondono dietro alle parole sono il nostro interesse, la nostra ricerca. Le infinità di sfumature e interi universi di significato che si nascondono tra le pieghe delle parole. 

E ci interessa davvero coglierle? Dipende, a volte può non interessarci, a volte, soprattutto nel lavoro d’azienda, può essere ciò che fa la differenza tra il capire un cliente e vendere, e non capirlo e non vendere. La differenza tra fallimento e successo. 

Nell’esempio illustrato qui di seguito si evidenzia la rete semantica che si associa ad uno specifico prodotto: lo yoghurt intero, non scremato. 

Questo è letteralmente “ciò che ha in testa” quella persona, la sua “rete semantica”. Ed è questo il concetto che ci interessa, oltre lo yogurt. 

Una convinzione è un’idea su “come funzionano le cose” che viene accettata come se fosse vera o reale. 

Le reti semantiche toccate dal “prodotto tradizionale non scremato” sono ben lontane dalla valutazione puramente alimentare. Esse infatti vanno dal “ricordo dei vecchi tempi”, al senso di fiducia, dalla possibilità di avere più energia per lavorare sodo, sino al senso di felicità ed armonia interna. 

Se compariamo la mappa precedente con quella di un prodotto molto più “problematico” (yoghurt modificato geneticamente) capiamo come le mappe percettive consentano di far emergere le percezioni di prodotto e le barriere semantiche

Il prodotto geneticamente modificato si carica di paure, sfiducia, senso di immoralità. Vengono alla luce componenti valutative “organiche”, psicologiche (dissonanza tra innaturalità biologica e armonia interna) e valutazioni sociali e culturali, sino alle responsabilità per il benessere dell’umanità: a cosa contribuisco con questo acquisto? Che valori supporto?  

La scelta smette di aver a che fare unicamente con il prodotto come “cibo” ma assume una connotazione densa di valenze culturali, etiche e sociali (cosa faccio mentre acquisto, chi finanzio, che distanza di valori c’è tra me e loro). Il percorso valutativo agisce indipendentemente dal valore economico del bene, e si correla altamente al valore simbolico assunto dall’atto d’acquisto. La consapevolezza di quali siano le reti semantiche “attive” nel cliente è un tema centrale dell’ascolto delle credenze. Ascoltare le credenze e convinzioni è fondamentale anche per capire cosa motiva le persone. Sia gente comune che grandi campioni formulano credenze, che si ripetono come paradigmi di verità, e nel corso del tempo diventano la loro realtà. 

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Articolo a cura della dott.ssa Ginevra Bighini, www.negoziazioneinterculturale.wordpress.com; mentoring a cura del dott. Daniele Trevisani, www.studiotrevisani.it

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Oggi ci addentreremo in uno degli argomenti più dibattuti legati alla comunicazione interculturale, ossia la traduzione.

Fino a qualche decennio fa, tradurre significava trasferire un testo da un’altra lingua alla propria e viceversa.

Ma, se doveste tradurre una frase del tipo “tanto va la gatta al lardo, che ci lascia lo zampino” in inglese, come fareste? Tradurreste parola per parola a discapito del significato, oppure cerchereste di trasmettere il concetto chiave, lasciando da parte la traduzione letterale? E cosa ne rimane del proverbio? Riuscireste a farlo trapelare anche in un’altra lingua?

La traduzione, così come la comunicazione, ha come compito quello di far comprendere all’altro, inteso come rappresentante di una cultura differente, ciò che non possiamo esprimere con la nostra lingua. Nel caso della comunicazione in senso generale, la nostra lingua è rappresentata dal nostro mondo interiore (emozioni, pensieri, stati mentali, ecc…), che va portato all’esterno con l’uso del linguaggio verbale e non verbale.

Come sappiamo, qualsiasi lingua non è abbastanza ricca per poter esprimere la complessità di ciò che ci accade dentro, così come una lingua legata ad una cultura diversa può non presentare parole in grado di esprimere gli stessi concetti.

Come ci muoviamo in questi casi?

La soluzione non è mai univoca, ma partiamo dalla comunicazione prima di passare alla traduzione.

Quando dobbiamo comunicare uno particolare stato d’animo alla persona che ci sta di fronte, lo facciamo cercando di attingere non soltanto al vocabolario comune, utilizzando parole come triste, arrabbiato, felice, addolorato, ecc…, ma anche attraverso analogie e similitudini astratte o referenziali, come per esempio: “Ti ricordi quella volta che sei caduto dalla bicicletta in pieno centro e tutti ti guardavano? Ecco, io mi sento così.”

In questo modo facciamo riferimento ad un’esperienza specifica vissuta dall’altro. L’altro a sua volta, attingendo dai propri ricordi legati a quella stessa esperienza, riuscirà a comprendere molto più da vicino le sensazioni che il comunicatore sta provando in quello stesso istante.

La traduzione deve funzionare allo stesso modo: abbiamo due lingue diverse, che rappresentano due culture diverse, ognuna portatrice di valori, credenze, immagini mentali, visioni del mondo divergenti. L’unico modo per permettere a due entità così lontane di comunicare è cercare di creare un ponte che unisca le diversità che le rappresentano. Per farlo è necessario prima di tutto aprirsi alla cultura dell’interlocutore, capirne i meccanismi intrinsechi e non soltanto le sue forme di espressione verbale.

Una volta fatto ciò, è possibile passare alla seconda fase, in cui cercheremo di trasporre il concetto. Ritorniamo al proverbio italiano citato all’inizio.

Molti dizionari indicano come questi corrisponda a quello inglese “curiosity killed the cat”. Il significato e l’uso nelle due lingue non si possono considerare però equivalenti: la frase italiana è un ammonimento e si rivolge a coloro che commettono azioni disoneste, i quali, prima o poi, lasceranno un traccia, verranno scoperti e puniti (1). Il modo di dire inglese, invece, è di uso molto comune e può essere tradotto con “La curiosità uccise il gatto”, cioè “chi cerca di farsi gli affari altrui potrebbe subire conseguenze indesiderate”.

Vi è un’altra traduzione del proverbio sopracitato, a mio parere più azzeccata, anche se non del tutto di significato identico: “the pitcher goes so often to the well that it leaves its handle“. Letteralmente si può tradurre con: “la caraffa va così spesso al pozzo che ci lascia il manico”, ma il suo messaggio è: “continuare ad effettuare un’azione, in genere disonesta, alla fine porta al fallimento, poiché per quante volte un truffatore, un imbroglione o un ladro riescano a cavarsela, alla fine verranno scoperti”.

Adottando, quindi, questa seconda traduzione, ci accorgiamo di come, nonostante non ci sia completa sovrapposizione di significato, il senso passi in modo più diretto, riuscendo al contempo a mantenere quell’ammonimento proverbiale.

Il segreto di un’accurata traduzione infatti, è, a mio parere, quello di trasmettere il concetto con successo, traslandolo, però, non solo letteralmente, ma anche culturalmente. Se si utilizza infatti il secondo proverbio inglese per far recepire quello italiano, otterremo una traduzione non letterale, ma culturale, senza allontanarci dal cuore del messaggio.

Molti traduttori non sarebbero probabilmente d’accordo con la mia idea. Esistono infatti ancora molte scuole di pensiero che prediligono la traduzione letterale per esaltare la cultura di provenienza: il che può essere un bene, se non fosse che la cultura di destino, spesso, non recepisca chiaramente il messaggio, scontrandosi così con l’idea stessa di traduzione.

La traduzione è nata per permettere a tutti di comprendersi, nonostante le ampie differenze linguistico-culturali che ci appartengono. Riuscire in questa impresa è molto difficile, ma non impossibile, e, anche se a volte qualche piccola sfumatura di significato si perde, la cosa importante è che il concetto fondamentale arrivi a destinazione e venga compreso e assimilato.

Questo significa concentrare tutti i propri sforzi sull’altro, inteso come fruitore del messaggio, cercando di sviluppare una mediazione efficace, capace di aprire le porte ad una comunicazione interculturale e non solo ad una mera traslazione di vocabolario.

Dire ad un inglese “the cat goes to the lard so often that it leaves its paw“, potrebbe non avere senso per lui/lei, mentre se utilizziamo un proverbio proprio della sua cultura, il messaggio verrà recepito immediatamente e con la stessa intensità.

Non dimentichiamoci che tradurre e comunicare sono due facce della stessa medaglia con un unico scopo: farsi capire.

(1) https://www.comitatolinguistico.com/modi-di-dire-italiani-e-inglesi-tanto-va-la-gatta-al-lardo/

Articolo a cura della dott.ssa Ginevra Bighini, www.negoziazioneinterculturale.wordpress.com; mentoring a cura del dott. Daniele Trevisani, www.studiotrevisani.it

Articolo a cura della dott.ssa Ginevra Bighini, www.negoziazioneinterculturale.wordpress.com; mentoring a cura del dott. Daniele Trevisani, www.studiotrevisani.it

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Come si può dedurre dal titolo, il tema di oggi ruota attorno al global marketing e, in particolare, alle sue sfaccettature interculturali. Cerchiamo quindi di capire cosa si intende per marketing internazionale, di spiegarne le strategie più diffuse e di addentrarci nel training interculturale che ogni specialista della materia dovrebbe sostenere.

L’argomento è davvero molto ampio, perciò mi è impossibile seguirne ogni dettaglio, ma cercherò in ogni caso di essere il più esaustiva possibile.

In un mercato che, giorno dopo giorno, si fa sempre più internazionalizzato è impossibile limitare le proprie strategie ad un area prescritta. Le imprese quindi, se vogliono sopravvivere, devono adattarsi, evolversi ed ampliarsi verso nuove aree di mercato, sviluppando un piano marketing con un obiettivo che sia internazionale, non più locale.

Marketing interculturale. Una definizione

Di seguito è riportata la definizione di global marketing, perfettamente sintetizzata dal sito web www.socialwebconsulting.it:

“Il global marketing (in italiano, marketing globale) è  il “marketing”, su scala mondiale, tramite il quale poter trarre vantaggi, solitamente di natura economico-commerciale, dalle differenze operative globali, dalle somiglianze e dalle opportunità. Il fine è quello di raggiungere obiettivi di caratura internazionale“. (1)

Ma quali sono le tattiche da utilizzare se si vogliono raggiungere traguardi globali?

Per raggiungere traguardi globali, il marketing contemporaneo ha sviluppato numerose tecniche innovative, grazie anche alle nuove tecnologie, che hanno permesso una diffusione sempre maggiore non solo di prodotti, ma anche di servizi e, soprattutto, di informazioni. Esempi sono il web marketing e il social media marketing che sfruttano rispettivamente le potenzialità del web e dei social media, traendo beneficio dall’enorme fetta di popolazione mondiale che li utilizza.

Ma oltre alle tecniche specifiche, che sono innumerevoli, è necessario introdurre quelle che possono definirsi come le due politiche principali del marketing internazionale:

  1. Standardizzazione
  2. Localizzazione e adattamento

La prima cerca di fare leva su ciò che le persone nel mondo hanno in comune, dai bisogni, agli interessi, ecc…, mentre la seconda applica strategie mirate alla cultura locale, cercando di beneficiare delle differenze di abitudini, di consumi, di costumi, ecc…

Chiaramente non è sempre possibile standardizzare le strategie, poiché le differenze culturali, anche minime, possono influenzare la buona riuscita del piano marketing. Allo stesso modo, non possiamo negare che tutto sommato gli esseri umani siano esseri umani e abbiano quindi determinate necessità che li accomunano.

Marketing interculturale. La strategia aziendale

La corretta politica da adottare è quindi quella di far conciliare entrambe, sviluppando tattiche commerciali, che prevendano una parziale standardizzazione, abbinata ad un certo grado di localizzazione.

In altre parole dobbiamo essere in grado di capire cosa le persone possono avere in comune e cosa no, cercando di sfruttare in egual misura somiglianze e differenze.

L’ostacolo maggiore però non sono mai le uguaglianze, ma le diversità culturali. Sono proprio queste ultime infatti che possono metterci in seria difficoltà nella stesura di un piano marketing e su cui moltissime aziende hanno commesso errori.

Vediamo alcuni esempi presi dal sito www.0ptim1ze.com/it:

“In occasione della Coppa del Mondo del 1994, Heineken ha avuto la bella idea di mostrare le bandiere dei paesi partecipanti all’interno dei tappi delle bottiglie. Questo ha prodotto rumorose proteste da parte dell’Arabia Saudita. La loro bandiera contiene un verso religioso e l’associazione a una bevanda alcolica è contraria ai principi della loro religione. Questo è un esempio di cattiva pubblicità per il proprio brand”.

E ancora:

“Nella cultura Giapponese, a differenza di quella europea, i neonati vengono trasportati da grandi pesche, ma la Pampers ha pensato bene di inserire una cicogna nel proprio spot.” (2)

Questo è ciò che può capitare se non si pone attenzione alle differenze culturali, o peggio, se si danno addirittura per scontate.

Detto ciò, è sempre meglio assumere uno o più membri della cultura locale, su cui si è deciso di improntare il piano marketing, per avere una visione chiara e completa delle differenze culturali e delle similitudini. In assenza di un esperto o di un rappresentante culturale, è fondamentale che ogni specialista di questa disciplina segua un training interculturale, facendo ricerche approfondite sulla cultura destinataria della propria strategia, in modo da assorbire le competenze necessarie per comprendere e agire consapevolmente nel rispetto di quella stessa cultura.

Solo così possiamo parlare di marketing interculturale.

 

(1) http://www.socialwebconsulting.it/global-marketing-globalizzazione/#:~:text=Il%20global%20marketing%20(in%20italiano,raggiungere%20obiettivi%20di%20caratura%20internazionale.

(2) https://www.0ptim1ze.com/it/le-gaffe-del-marketing-internazionale/

Articolo a cura della dott.ssa Ginevra Bighini, www.negoziazioneinterculturale.wordpress.com; mentoring a cura del dott. Daniele Trevisani, www.studiotrevisani.it

Articolo a cura della dott.ssa Ginevra Bighini, www.negoziazioneinterculturale.wordpress.com; mentoring a cura del dott. Daniele Trevisani, www.studiotrevisani.it

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Quante volte, mentre ero all’università, mi è capitato che amici e parenti non comprendessero le differenze tra Cina, Giappone e Corea del Sud. Ricordo che, quando raccontavo di essere impegnata nello studio della lingua e della cultura giapponese, la maggior parte dei miei interlocutori se ne usciva con frasi del tipo: ” Ah… che bello il Giappone! Ma cosa cambia dalla Cina, o dalla Corea? A me sembra tutto uguale….”

Non sto neanche a spiegare il motivo della mia profonda irritazione, ma la realtà è che fino a qualche anno fa, e ancora oggi purtroppo, le informazioni legate ai paesi dell’estremo oriente che circolano sul territorio italiano sono scarse e spesso legate a stereotipi difficili a morire.

In questo articolo quindi inizierò con lo spiegare, seppur in maniera superficiale, alcune delle similitudini e delle differenze tra il Giappone e la Corea del Sud, due paesi molto vicini e al contempo molto lontani tra loro. Voglio ribadire che di seguito non troverete la verità assoluta, ma solo una parte di ciò che ho potuto constatare nelle varie esperienze di vita svolte, sia in prima persona, che da racconti assimilati passivamente.

Innanzitutto è bene partire dalla storia che lega indissolubilmente questi due paesi. Per semplificare riporterò qui di seguito una sintesi estrapolata dalla pagina di riferimento di Wikipedia:

“Nel 1905 la Corea divenne un protettorato giapponese e successivamente, nel 1910, fu completamente annessa come colonia nell’Impero giapponese con il nome di Chōsen. Il dominio coloniale finì ufficialmente con la resa del Giappone nella seconda guerra mondiale il 15 agosto 1945, ma terminò completamente di fatto solo con la destituzione del governatore generale giapponese il 12 settembre 1945 e di diritto con l’entrata in vigore del trattato di pace di San Francisco il 28 aprile 1952.” (1)

La conclusione della guerra in realtà non mise mai fine ad alcune delle rivendicazioni politiche da parte di entrambi gli stati: da una parte abbiamo la contesa territoriale delle isole Dokdo/Takeshima, ora di proprietà della Corea del Sud, ma reclamate dal Giappone; dall’altra abbiamo il grave crimine di guerra compiuto dall’impero del Giappone durante la Seconda guerra mondiale ai danni di un numero incalcolabile di donne provenienti in larga parte dalla Corea, costrette contro la propria volontà a servire come schiave sessuali per l’Esercito Imperiale. (2)

Gli scontri politici tra le due nazioni quindi non sono ancora terminati, ma nonostante ciò, è impossibile per entrambe non cooperare. Sia il Giappone che la Corea del Sud infatti sono considerati ormai due potenze economiche mondiali che hanno bisogno l’una dell’altra per non soccombere all’immensa crescita economica della Cina.

Come potete immaginare le costanti relazioni passate e presenti, così come le influenze derivate dagli scambi inevitabili con la Cina, li hanno resi in qualche modo simili. Basti pensare per esempio all’impostazione sociale di derivazione confuciana:

  1. forte stratificazione gerarchica;
  2. rispetto assoluto per il prossimo, in particolare per i più anziani e per i superiori;
  3. rispetto delle distanze;
  4. impegno, estrema serietà e dedizione nel lavoro, spesso a discapito della vita privata, ecc…

Esistono poi anche similitudini nel sistema scolastico molto competitivo, oppure nella struttura linguistica a livello grammaticale e di vocabolario (alcune parole coreane per esempio assomigliano molto a quelle della controparte giapponese), ecc…

Oltre alle similitudini troviamo anche delle disuguaglianze, che hanno origine nella componente geografica e storica dei due paesi:

La Corea del Sud ha subito in maniera molto più significativa le influenze cinesi, al contrario del Giappone, che ha potuto condurre uno sviluppo culturale solitario in quanto isola. La prima inoltre, proprio a causa della sua posizione geografica, ha sofferto soprusi costanti da entrambi i suoi vicini, rimanendo però forte nella sua identità culturale.

Queste differenze le possiamo notare per esempio nei comportamenti tipici delle due popolazioni: il rispetto profondo per le gerarchie e la tendenza al quieto vivere fa sì che sia coreani, che giapponesi mantengano correttamente le distanze e cerchino di evitare il conflitto quanto più possibile. Questa cosa però riesce più facile ai giapponesi, di temperamento più cauto e silenzioso. Il popolo nipponico infatti tende a mantenere sempre la calma, anche nelle situazioni più complicate, per evitare di turbare l’armonia collettiva. Questo significa però che il giapponese medio non esprimerà mai in maniera diretta la propria opinione sincera.

I coreani invece, nonostante attribuiscano la stessa importanza alle apparenze, sia estetiche che sociali, sono molto più spontanei ed espliciti e non hanno paura di esprimere ciò che pensano. Sono inoltre generosi e passionali e questo li rende un pochino più simili agli italiani, poiché non si tirano indietro quando c’è da litigare o da fare un po’ di sano chiasso per la città, cosa invece impossibile da trovare in Giappone.

Tutto ciò si rispecchia anche nel mondo del business e in particolare nelle negoziazioni interculturali, più fredde e diplomatiche con i giapponesi, più calde ed amichevoli con i coreani. Attenzione però a non pensare che l’una sia meglio dell’altra, poiché nonostante i giapponesi appaiano più distanti e le negoziazioni siano solitamente lunghe e tortuose, questo popolo, una volta preso fiducia nella vostra azienda, continuerà il rapporto con voi in maniera solida e duratura. I coreani invece, nonostante siano più accoglienti per certi versi, sono abili e astuti negoziatori da non sottovalutare.

Bisogna ricordare infine che, in entrambi i casi, è sempre cosa buona e giusta arrivare alla negoziazione preparati, avendo a propria disposizione un professionista della cultura con cui si va a negoziare che ci aiuti a capire cosa si cela dietro ogni parola, il detto e il non detto, in modo da evitare spiacevoli inconvenienti e risolvere positivamente qualsiasi problema di natura negoziale e/o culturale.

a sinistra il leader della corea del sud Moon Jae-in e a destra l'ex primo ministro giapponese Shinzo Abe
a sinistra il leader della corea del sud Moon Jae-in e a destra l’ex primo ministro giapponese Shinzo Abe

(1) https://it.wikipedia.org/wiki/Corea_sotto_il_dominio_giapponese

(2) https://ilcaffegeopolitico.net/52548/giappone-corea-sud-rapporto-complicato

Articolo a cura della dott.ssa Ginevra Bighini, www.negoziazioneinterculturale.wordpress.com; mentoring a cura del dott. Daniele Trevisani, www.studiotrevisani.it