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© Fonte: estratto dal libro Psicologia di Marketing e Comunicazione.

Il costo psicologico latente

Acquistare non richiede unicamente un esborso in denaro. Spesso un acquisto si carica di costi psicologici nascosti che ne aumentano il gravame.

Ad esempio, ipotizziamo che un’azienda riceva una proposta di passaggio ad un nuovo sistema operativo per i propri PC. Se essa ha appena terminato un costoso programma di formazione per il personale sul vecchio sistema operativo, il costo di acquisto si caricherà di ansie e preoccupazioni non monetarie (costi psicologici). Ad esempio, può nascere la percezione che l’investimento precedente in formazione diventerebbe immediatamente inutile.

Un secondo costo psicologico può essere di natura relazionale e d’immagine. Il buyer che decide di passare al nuovo sistema operativo potrebbe venire giudicato dai dipendenti come incapace di programmare (Perché mi avete fatto fare un corso su questo sistema operativo, se poi appena appreso non lo devo utilizzare, e devo iniziare da capo? – potrebbe chiedersi il dipendente). Di questa reazione negativa attesa il buyer può sentire con forza il peso, e decidere di non acquistare, soprattutto temendo le ripercussioni nell’ambiente circostante, anche se la valutazione del prodotto è buona.

Un altro esempio di costo psicologico nascosto è connesso al costo valoriale di una scelta. Una scelta di acquisto viene soppesata anche alla luce dei valori sottostanti. Ad esempio, per un ecologista/animalista convinto, acquistare un hamburger non significa unicamente sborsare alcuni dollari, ma rifiutare a tutti i valori in cui crede. Il costo psicologico in questo caso è enormemente superiore al costo monetario. Lo stesso vale (nell’ecologista) per l’acquisto di una pelliccia, o di un’auto che consuma molto.

I costi psicologici si dividono quindi, nella nostra prima categorizzazione, in costi psicologici personali (effetti indesiderati dell’acquisto legati ai propri valori o credenze) e in costi sociali o normativi (determinano un non-acquisto causato delle possibili reazioni negative degli altri: colleghi, amici, parenti, superiori, ecc.).

Tra i costi psicologici rientrano possibili perdite di immagine, di valori, cambiamenti di abitudini consolidate, diminuzioni di sicurezza, calo di approvazione sociale, riduzioni di qualità della vita, aumento di ansie e tensioni, e altre preoccupazioni legate in qualche modo (nella mente del cliente) all’atto di acquisto. Esse incidono sul comportamento di acquisto anche se frutto di immaginazione o basate su dati in realtà non fondati.

Analizziamo un caso ulteriore di acquisto di innovazione: l’implementazione di un sistema di e-commerce aziendale, proposto ad un imprenditore. Potremmo scoprire ad esempio che il costo di separazione sottostante non riguarda il solo denaro necessario (il costo del sistema), ma include anche l’anticipazione di una perdita di controllo. L’imprenditore sente che altri in azienda (es: gli informatici, o i nuovi esperti di internet marketing) e non più lui, capiranno cosa sta accadendo e come gestire l’impresa. Questo provoca riduzione del senso di autostima e caduta del ruolo.

Questi costi psicologici nascosti possono essere il fuoco che alimenta le obiezioni di superficie. Capirli, per poi gestirli, è assolutamente necessario.

Il rientro psicologico latente

Così come il costo totale si carica di costi psicologici latenti, il rientro totale si può caricare di rientri psicologici addizionali. I rientri possono infatti essere sia funzionali (utilizzo il prodotto che mi mancava e mi serviva), che psicologici (l’atto di acquisto in se apre orizzonti psicologici positivi).

Ipotizziamo un buyer di fronte ad un acquisto di un nuovo sistema operativo per i PC aziendali (costo: 100.000 dollari iniziali), con prove che esso consenta di risparmiare 100.000 dollari annui in costi di manutenzione, per una durata del sistema di 5 anni, producendo inoltre una maggiore affidabilità complessiva. In totale, l’operazione diviene a costo 0 per il primo anno, e consente un guadagno di 100.000 dollari per i restanti 4 anni. Ma fino a questo punto saremmo all’interno dei rientri funzionali.

Il rientro psicologico è dato dal fatto che a quel punto il buyer sarà diventato improvvisamente colui il quale ha saputo reperire importanti risorse addizionali per l’azienda, denaro fresco da investire in nuovi progetti.

Questo può costituire un motivo di vanto e una spinta addizionale ad un ambito passaggio di grado, che la persona attende da anni. In altre parole, l’acquisto non viene più valutato puramente in termini di rientri fisici o funzionali, ma viene valorizzato da rientri psicologici (potere, carriera, immagine personale in azienda), e questo ne aumenta il valore. Il flusso di rientro si carica di orizzonti psicologici positivi, personali o legati alla reazione attesa dei gruppi di riferimento (sociali/normativi).

Il vero problema nasce quando il buyer diventa sensibile unicamente al fattore risparmio e non ai flussi di valore addizionali che una proposta può apportare (innovazione, skills, know-how). Questa focalizzazione sui soli costi rappresenta una vera patologia cognitiva del buyer, che danneggia l’impresa per la quale lavora, anche se a volte è l’impresa stessa ad infondere nel buyer tale cultura.

Esaminiamo un caso diverso, l’imprenditore che acquista il sistema di e-commerce evoluto. In questo caso l’acquisto rappresenta non solo un salto di qualità nel management commerciale, ma un motivo di vanto presso il gruppo di imprenditori e colleghi che lo circondano. Sostanzialmente, diventa fonte di orgoglio e autorealizzazione, facendo sentire l’imprenditore come colui che ha saputo portare l’innovazione nell’azienda. In questo secondo caso avremo un carico addizionale di self-image che aumenta il peso del rientro psicologico totale.

L’atto di acquisto va gestito, da parte dell’operatore di marketing, ponendo attenzione sia ai costi psicologici latenti che ai rientri psicologici potenziali.

La scelta di acquistare o meno emerge da un insieme di ponderazioni relative al costo totale e al rientro totale dell’operazione di acquisto.

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© Copyright dott. Daniele Trevisani, Studio Trevisani Consulting, dal libro Psicologia di Marketing e Comunicazione.

© Dal libro Il Potenziale Umano, Franco Angeli editore, autore Daniele Trevisani

Le tre grandi forze che agiscono sull’individuo vanno chiarite e distinte:

  1. genetica;
  2. apprendimento ambientale;
  3. apprendimento intenzionale.

Sulla prima non abbiamo ancora possibilità di intervento, per ora.

Sulla seconda, larga parte di quello che ci ha plasmato inizialmente è accaduto quando eravamo troppo piccoli per farci qualcosa, i modelli sociali e culturali dei nostri primi anni di vita, e i genitori, non li abbiamo scelti noi.

L’operazione più utile da compiere, come detto, è guardarvi dentro e decidere autonomamente cosa sia risorsa, cosa invece sia freno, e cosa manchi.

Sulla terza, gli spazi sono aperti.

Dall’adolescenza in avanti inizia la vera forza da coltivare nell’individuo, la coscienza della possibilità di scegliere: ad esempio, è possibile emanciparsi e decidere di smettere di guardare la televisione commerciale, e leggere qualche libro in cui si possa imparare qualcosa. Aiutare gli altri a farlo è altrettanto essenziale.

È possibile decidere di fare sport, fosse anche solo correre, o se il nostro corpo non ce lo permette ora, possiamo cercare altri spazi di espressione fisica, leggera o pesante, agonistica o meno. O muoverci sul fronte intellettuale.

Nelle relazioni, è possibile iniziare a scegliere le persone con cui passare il tempo libero. Sul lavoro, sullo studio, possiamo iniziare a fare scelte. La coscienza della possibilità di fare scelte è una conquista.

E non è detto che se una certa strada sia chiusa non ve ne siano altre, o che se ci si sente stanchi e demotivati non si possa cercare un modo diverso per esprimersi. La ricerca di un campo di espressione è lavoro allenante in sé.

È possibile iniziare a lottare contro le forze avverse, i sistemi clientelari, arretrati, corrotti e arroganti, le strutture ingessate, le culture amputanti.

Esiste chi non vuole che lo facciamo, chi teme che smettiamo di respirare a forza le regole del sistema che ci soffocano. I pensatori autonomi fanno paura. Non a caso, sono i primi che i regimi cercano di sopprimere.

Possiamo invece crearci un nuovo insieme di regole e spazi di espressione, che rispetti gli altri, ma anche se stessi. Questo significa esprimersi: andare oltre i vincoli esistenti, usare la ragione e procedere verso ciò che per noi sia una luce, una visione positiva, una forma di libertà.

Fai Focusing. Prova a focalizzare quali sono gli apprendimenti volontari che vuoi fare, quelli che l’ambiente non ti ha ancora offerto, quelli che la genetica non ti può avere regalato, e fatti un bellissimo regalo: decidi di apprendere per tutta la vita, volontariamente, coscientemente, da uomo libero (Daniele Trevisani).

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Deficiency love

La locuzione Deficiency love (abbreviata comunemente in D-Love) è stata coniata da Abraham Maslow nell’ambito dei suoi studi di psicologia umanistica. Si definisce Deficiency love, secondo Maslow, una relazione in cui ciascun partner dipende dall’altro per l’appagamento dei propri bisogni[1].

Approfondimento

Si tratta un tipo di amore che è orientato all’appagamento (sulla base di un bisogno di appartenenza, di stima di sé, di sicurezza, o di potenza) ed è caratterizzato da dipendenza, possessività, mancanza di reciprocità e poca preoccupazione per il vero benessere dell’altro[2].

In italiano si trova anche citato come amore da carenza.

D-Love e B-Love

Partendo dagli studi di Erich Fromm[3], Maslow contrappone il D-Love al B-Love (Being-Love), l’amore libero e non egoistico. Il D-Love diventa quindi la rappresentazione dell’ansia del possesso e dell’avere. Da questa distinzione nascono quindi due cognizioni, che dai punti di partenza traggono la definizione: cognizione B e cognizione D. La cognizione D che nasce dal D-Love è quella che chiude l’individuo in se stesso e lo lega ai propri bisogni.

I fondamenti del Metodo

  1. Una persona senza corpo non può fare niente. Ma anche senza motivazione, non potrà fare niente.
  2. Se anche hai un corpo che funziona perfettamente e la voglia di fare cose incredibili, devi avere un “saper fare”. In caso contrario, i tuoi sogni rimarranno sempre nel cassetto.
  3. E se non hai sogni, ideali, volontà di lasciare un contributo al mondo, nemmeno la tua vita ha alcun valore.
  4. Tutte le tue energie sono collegate tra di loro.
  5. La tua capacità di arrivare al tuo pieno potenziale, dipende da come riesci a capire la connessione tra tutti questi strati del tuo essere e come funzionano in te, come creatura specifica che ha dinamiche uniche, irripetibili, diversa dalle altre nel come attiva la connessione tra queste celle di energia interna.

Le nostre energie umane sono in realtà racchiuse “Celle Energetiche”
Sono strati e sistemi enormemente diversi. Iniziano dal corpo fisico, dalle energie di ogni singola cellula, e arrivano agli ideali astratti e più elevati.
Tutta questa complessità è un dono immenso se lo saprai cogliere, ti serve solo di voler veramente lavorare su te stesso, sulle tue capacità.

  • L’efficienza non è un concetto astratto. Si tratta di pura energia in azione. Si tratta di pura focalizzazione del pensiero sulle priorità.
  • Ma efficienza e performance, senza benessere, non valgono a nulla.

A cosa serve vincere una gara per morire appena tagliato il traguardo. A cosa serve per una azienda essere “profitabile”, generare profitti, se semina dolore? A cosa serve una grande carriera se i tuoi rapporti umani sono inesistenti o miserabili? A cosa serve un bel corpo in una mente stupida o priva di valori? A cosa serve avere grandissimi ideali e valori se poi non sappiamo trasformarne almeno una piccola, piccola parte, in qualcosa di concreto che lasci un segno nel mondo?

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  • dal volume Self Power, di Daniele Trevisani (Copyright)

Lo schema a sei celle del metodo HPM espone un possibile schema di riferimento. Il lavoro sulle sei variabili primarie permette di amplificare il potenziale personale, conseguire performance, ricercare un funzionamento ottimale (Optimal Functioning), stimolare un ricentraggio delle proprie attività, degli stili di vita e di relazione, dello stile di pensiero e di azione.

metodo HPM Dr. Daniele Trevisani

Ciascuno di questi macrouniversi contiene intere costellazioni, sistemi e mondi da esplorare.

Trovando i giusti livelli di attenzione, sapendo dove è possibile intervenire, lo sviluppo personale diventa un fatto perseguibile, non più solo un sogno o un desiderio.

Si è trattato e ancora si tratta di un “viaggio” di scoperta ed analisi, in un campo di studi sterminato.

Trattando un tema di frontiera, ampio, multidisciplinare, le fonti devono necessariamente essere altrettanto variegate. Ogni singola esperienza, di ogni uomo, è fonte di conoscenza.

Ogni pensatore del passato o del presente può darci un contributo. Ogni singola anima può contenere spirito vitale, e portare contributi.

 

Sei miliardi di persone al mondo, 6 miliardi di anime, ma a volte ne basta 1 sola.

Dal film: “One tree hill”

 

Un viaggio che riguarda anche te

Man mano che gli studi aumentano e l’analisi di casi concreti sul tema delle performance avanza, si fa più forte l’evidenza che il “viaggio” nella psicologia delle performance non riguarda solo le élite, i campioni, le aziende leader, i manager di alto livello, ma ha implicazioni in ogni processo di crescita della persona, in ogni attività umana. La performance comprende una sfida piccola o grande, sia sportiva che manageriale, o di vita, e in ogni forma di scoperta o avventura umana. Per cui, che tu sia un campione o ti stia addentrando in un nuovo ramo della vita, ti riguarda.

I suggerimenti degli esperti e dei praticanti, in ogni campo, se osservati bene e ripresi nella vita quotidiana, possono insegnare molto anche fuori dalle competizioni. Ci insegnano un approccio che va ben fuori dalle gare o degli impegni massimali e tocca la vita stessa.

È utile saper “estrarre” le conoscenze, farne un distillato, ed utilizzare queste pozioni alchemiche ovunque siano utili e produttive. Le indicazioni che arrivano da una certa disciplina possono andare ben oltre la fonte originaria, e dobbiamo chiederci come renderle utili e produttive anche in altri campi.

Ad esempio, se prendiamo lo sport della corsa di resistenza, e riusciamo a chiarirne alcune dinamiche psicologiche, possiamo applicarne il distillato anche ad altre aree che richiedono resistenza, come il lavoro manageriale, o l’essere genitori.

In campo atletico, Massini, ad esempio, osserva come nella preparazione dei corridori esista un training psicologico, un allenamento che aiuti a saper perseverare, tenere il ritmo e non mollare durante la propria preparazione[1]. La dottrina militare, similmente parla del Battle Rythm come una cadenza di attività indispensabili per tenere sotto pressione il nemico.

In sostanza, saper gestire una fase di stress anziché venirne schiacciati.

Per l’atleta vengono predisposte fasi di allenamento che cercano di far crescere le persone su questo piano.

Se prendiamo altre discipline, come le arti marziali, possiamo ricavarne molto: la sacralità di un allenamento al di la del fattore fisico, il bisogno di condurre uno stile di vita coerente con i propri obiettivi, la necessità di avere test di realtà (combattimenti realistici), sapere affrontare la propria preparazione con un lavoro variegato, variarne le modalità e le intensità, ma soprattutto trovare una soddisfazione intrinseca in ogni allenamento.

Viene da chiedersi quanta utilità potrebbe esserci nell’applicare queste ed altre tecniche di coaching anche nelle aziende. E non solo, quanto sia veramente indispensabile allenare e coltivare le capacità di apprendere, in ogni persona, anche e soprattutto fuori dallo sport, dalla tenera età in avanti.

Tra le diverse discipline che si occupano di crescita e sviluppo, le contaminazioni possibili sono molte, e non vanno solo dallo sport verso le imprese, ma possono anche compiere il viaggio inverso. Ad esempio, le tecniche proposte dalla formazione di tipo esperienziale (Experiential Learning) offrono eccezionali strumenti per rendere un allenamento sportivo più coinvolgente e produttivo, e per creare atleti e praticanti più consapevoli e motivati.

Una delle tecniche di base dell’Experiential Learning aziendale (la formazione aziendale di tipo attivo ed esperienziale) è data dal ciclo briefing-attività-debriefing, il che significa:

Spiego cosa andremo a fare e perché, su quali aree di capacità andremo a lavorare oggi.

Lavoriamo e ci alleniamo.

Dopo aver lavorato, riflettiamo sull’esperienza appena svolta, sulle difficoltà incontrate, sugli insegnamenti che ho tratto oggi, su quello che non è andato bene, su cosa invece ha funzionato ed è stato utile.

Si tratta di un ciclo basilare in tre fasi, che potrebbe essere utilizzato in numerosissime attività sportive, soprattutto nei settori giovanili, con un enorme beneficio. Purtroppo, questo succede molto raramente.

I diversi mondi delle performance – sport, management, scuola/università, forze di sicurezza, ricerca – raramente dialogano tra loro e si scambiano esperienze di successo.

Quando il dialogo si interrompe, quando si crea stasi, vi sono solo due possibilità: una positiva, la meditazione o riflessione positiva, ed una negativa, la depressione. In questo senso dobbiamo ricordare che il semplice fatto di essere impegnati in un percorso di miglioramento è di valore in quanto azione positiva.

 

L’uomo è nato per l’azione,

come il fuoco tende verso l’alto e la pietra verso il basso.

Non essere occupato e non esistere è per l’uomo la stessa cosa.

Voltaire

 

La forza della preparazione

Mick, in campo aziendale, osserva il bisogno di coltivare maggiormente le doti di saggezza manageriale, anziché riempire i manager di skills e concetti che poi verrebbero applicati male o senza coscienza[2]. Anche questo contributo va ben oltre l’azienda e si estende alla vita di ogni organizzazione o team.

La cultura in se non serve a niente se non viene messa al servizio di qualcosa di importante.

Come si osserva in questo dialogo di Thomas Henry Huxley, siamo sempre al servizio di qualcosa, per cui è bene decidere cosa merita e cosa no:

 

– Vescovo anglicano di Oxford: Ma è da parte di padre o di madre che voi discendete dalla scimmia?

– Huxley: Preferisco discendere da una scimmia che da un uomo di cultura che ha prostituito il sapere al servizio del pregiudizio e della falsità.

[1] Massini, Fulvio (2008). Hard Run. I suggerimenti del coach per atleti d’alto livello. In: Runner’s World, gennaio 2008, p. 32.

[2] Mick, David & Thomas Bateman (2006), The Ultimate Virtue. Article Proposal for the Harvard Business Review, Version: 15 February 2006. McIntire School of Commerce, University of Virginia.

Per chi vuole approfondire, la bibiliografia fondamentale è la seguente:

Daniele Trevisani’s Books

Corporate Competitiveness Corporate, Personal and Organizational Competitiveness  Tools for the Development and Creation of Value

Franco Angeli Publisher, Milan, 2000.

Psychology of Marketing and Communication

Psychology of Marketing & Communication Buyer’s Impulses, Persuasion Tools, New Strategies for Communication and Management

Franco Angeli Publisher, Milan, 2002.

Buying Behavior & Strategic Communication From the Analysis of Consumer Behavior to Communication Management  

Franco Angeli Publisher, Milan, 2003.

Intercultural Negotiation: Communication beyond cultural barriersFrom internal relations to international negotiations

Franco Angeli Publisher, Milan. 2005.

Link ai contenuti del volume Regie di Cambiamento. Approcci integrati alle risorse umane, allo sviluppo personale e organizzativo, e al coaching The Change Director Integrated approaches to human resources, personal and organizational development, and coaching

Franco Angeli Publisher, Milan, 2007. (240 pages.)

Daniele Trevisani - Human Potential - Book Human Potential  Methods and techniques for human performance coaching and training

Franco Angeli Publisher, Milan, 2009. (240 pages).

Strategic Selling
Psychology and Communication for Consultative Selling and Complex Negotiations
Franco Angeli Publisher, Milano, 2011. (280 pages)
Personal Energy A map for the Empowerment of Mental Energies

Franco Angeli Publisher, Milano, 2013. (100 pages)

Self-Power Psychologies of motivation and performance

Franco Angeli Publisher, Milano, 2014. (176 pages)

The Courage of Emotions Energies for Life, Communication and Personal Growth

Franco Angeli Publisher, Milano, 2015. (135 pages)

Fear and other demons

Credit NASA

(Interview to Luca Parmitano). One of the questions I am often asked is: “Are you astronauts ever afraid?” It is a question that always surprises me and I find it difficult to answer the question in just a few words.

The temptation to answer simply “no” is great, everyone would breathe a sigh of relief and go on knowing that there are out of the ordinary men and women in the world who work without fear: astronauts. But super humans do not exist – and it is better this way.

My humble opinion is that only fools say they are never afraid – and they are lying when they say it. Fear is a series of sensations, a primordial mechanism that has developed over millennia of evolution to preserve our lives. It would be a waste not to use such a tool. But like any tool, it can be used well or badly: a scalpel, in the expert hands of a surgeon, can save a life while the same scalpel can be lethal when used without skill and knowledge.

Similarly, fear has a physiological effect that can be used to respond better in critical situations. Our heart rate increases, bringing more blood flow to the muscles, making them ready to react. The adrenaline released makes us stronger and less sensitive to pain and fatigue. Fear is a form of stress that can be channelled to bring our performance to its peak, a form of positive stress called ‘eustress’. The important thing is not to enter distress or panic, which immobilizes people and makes us unable to respond in critical situations.

Credit Aeronautica Militare

The best way to learn how to manage fear is preparation, training and study. In the end, it is what we do not know that scares us. On an orbital or suborbital flight the best way to eliminate fear is to know your aircraft and procedures the best you can. Gaining experience is the indispensable and irreplaceable way to handle situations for which we are not trained. It is impossible, and not always useful, to anticipate all scenarios.

A military or civilian pilot knows that flying is risky. The probability of something serious happening is very low, but the consequences can be disastrous. The pilots’ task and the teams working behind them is to minimize this risk. The same applies to any other working environment, including in aerospace. If I think back to some of the riskiest moments in my life, I realise that fear is a feeling that lies quietly without disturbing me: during my launch, my concentration was focused on the procedures and tools. During my spacewalks, my attention was absorbed by the experience itself. In both cases everything was enhanced by the trust I have in science and the engineers that build the machines we use and the teams of men and women who, from afar, support us to form a formidable ‘tetragon team’.

Luca familyOther questions I am asked that require complex answers concern my family. More importantly to being an astronaut and an officer in the air force, I am a son, a husband and a father. Somewhere on Earth flowing below us at 28 000km/h, there is a mother whose heart throbbed with each take-off and landing and a father with stoic strength whose smile hides his concern. My wife did not choose my job but deals with the daily issues of life and always appears with a serene face with two girls who still cannot understand why their daddy does not come home every night like their friends’ dads. I am aware of that. Thinking of my fellow pilots in the air force, everyday heroes running missions all over the world, puts myself in perspective and I realise how privileged I am. Compared to their sacrifice, my efforts are insignificant but necessary. It is my tribute to those pilots, working away from home and family, carry out their duty, in foreign countries under many horrors and other demons, without asking for anything in return, not even gratitude from their country.

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Note of the blogger. Very few people know that the Astronaut Luca Parmitano faced death during a Space-Walk (Extra vehicular activity) in which water filled his helmet at the point of not being able to breathe anymore. He nearly drowned in space!

Her are some videos that show what happened

https://www.youtube.com/watch?v=MXunHkZHu1o&feature=youtu.be

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Dalla fogna in su, dalla fogna in giu. Dallo spiccare il volo, all’uscire dalla cloaca.

Il Concetto di autorealizzazione sta cambiando. Negli anni 50 riguardava la ricerca del proprio pieno potenziale partendo da una situazione di “normalità” dove te la potevi giocare, e se ti impegnavi ogni cosa era possibile. Oggi è diventata riuscire almeno a vivere e sopravvivere. Riuscire a tirare fuori la testa dalla fogna e potere almeno vedere una luce, e non, come in passato, spiccare un salto dalla strada al cielo. Triste no? Ma non finisce qui. Non può finire qui. E qui non finirà.

In corsa verso il lavoro, in corsa scappando dal lavoro, in cerca disperata di lavoro, in stati di apatia da mancanza di lavoro, in stress da iperlavoro. Non esiste più il concetto di equilibrio. O si lavora 10-12-14 ore al giorno, o si è quasi disoccupati. Parlo degli artigiani e delle partite iva. Parlo di chi la crisi la vive.

Altri a distanza di pochi metri non conoscono nemmeno il senso della parola Crisi. Non la vivono, lo stipendio arriva ogni mese, paga lo Stato, ma si dimentica che lo Stato prende ogni Euro che paga dalle attività produttive, inclusi gli euro che formano una partita di giro (le tasse sugli stipendi pubblici, soldi che entrano da una parte ed entrano dall’altra). In Grecia anche i dipendenti pubblici hanno avuto a che fare con la Crisi e hanno capito che la Crisi butta in strada anche loro.

Per cui, l’autorealizzazione vista come “IL POSTO FISSO” è una pura illusione. Nessun posto è fisso. L’unica certezza è quello che sai e sai fare, quello nessuno te lo può togliere. Il resto si. Su quale dei due lati ci concentriamo? Tutto è studiato per farti paura e tenerti zitto, farti tacere, non farti parlare. Tutto deve essere appiattito come nei regimi comunisti e nazisti, vietato emergere, vietato essere. Vietato vivere.

Scatta quindi l’ansia. In ansia per l’Agenzia delle Entrate che ti chiede di giustificarti per come fai a sopravvivere se hai la partita iva, trattando chi lavora da una vita come il peggiore dei disonesti. Alcuni non reggono, chiudono, altri – i più deboli – si suicidano. Suicidio di Stato, un reato grave se realizziamo che non esiste alcuna forma di empatia per chi è in crisi e prova a risollevarsi, e più è in crisi più gli viene chiesto di dare ancora ed ancora fino ad annullarsi. Altri, i più giovani, in cerca di fuga all’estero, alla ricerca del mito, in volo con una laurea o tanta voglia di essere, di esprimersi, in un paese più accogliente, e se sei un giovane pieno di voglia e di ideali, sarebbe bello poterlo fare nel tuo paese. Altri che lavorano già, in attesa disperata della pensione per poter smettere di obbedire ad ordini, a leader insediati da una politica che non capiscono, stanche di vivere in istituzioni piene di parole sensa senso, stanchi di vivere in un Ente Pubblico se cerchi meritocrazia.

Non riesci più a fidarti del tuo Stato e del tuo Paese, e se guardi fuori è peggio. Appena accendi il telegiornale, impaurito dal terrorismo islamico, capisci che questo non si fermerà, diventa paura di transitare in una stazione, paura di salire in autobus o in treno, di salire in aereo, di essere derubato da un Rom, e questo diventa paura del futuro se hai un bambino o dei figli, la paura che esca di casa e qualche immigrato impazzito dalla differenza tra le aspettative e la realtà che trova, gli tagli la gola, o qualche giovane ubriaco e fatto di droghe sintetiche lo stenda senza neanche accorgersene. Potrei continuare per pagine e pagine a descrivere la situazione contemporanea dell’adulto.

Credo che l’autorealizzazione vera sia cercare di esprimere se stessi nonostante tutto questo,  vivere momenti di gioia nonostante tutto questo, andare avanti nella ricerca di un contributo all’umanità nonostante tutto questo. Non parlo di nascondersi dalla verità e dalla realtà. Parlo di guardarla in faccia come si guarda in faccia un avversario sul ring. E stare sul ring senza paura.

Cercare lo stato di flusso o flow nonostante tutto questo scenario di rabbia e di ansia è assolutamente eroico. E’ eroico alzarsi e lottare per ciò in cui si crede anzichè lasciarsi avviluppare dalla paura.

Essere se stessi oggi significa non arrendersi all’apatia e alla paura.

In “Verso una psicologia dell’essere” Maslow (1968, p. 105) ci descrive il concetto di Flusso: “…un episodio o un’improvvisa ondata, in cui tutte le potenzialità di una persona scorrono insieme in modo particolare, orientato all’obiettivo ed intensamente gratificante, nel quale la persona è più integrata e meno scissa, più aperta all’esperienza, maggiormente mossa dalla sua specifica natura o disposizione, più spontanea ed espressiva, più pienamente funzionante, più creativa, umoristica, ego-trascendente, meno dipendente dai suoi istinti più bassi, ecc. In questi momenti l’individuo diventa più pienamente se stesso, più forte nella realizzazione delle sue capacità, più vicino all’essenza del suo essere, più pienamente umano…

Un augurio sincero perchè ognuno di noi possa vivere la vita, possa lottare per i propri valori e ideali sul ring della vita vissuta, con forza e coraggio, sempre.

Daniele Trevisani, Formatore, Scrittore, Ricercatore sul Fattore Umano, Mentor www.danieletrevisani.com

copertina Libro Il Coraggio delle EmozioniAnteprima dal volume “Il Coraggio delle Emozioni” di Daniele Trevisani www.danieletrevisani.com/emotions

Copyright

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Personalità, Umore, Emozioni, Credenze. Capire
gli stadi su cui possiamo intervenire per migliorare
noi stessi
Quando non c’è energia non c’è colore, non c’è forma, non c’è
vita.
Caravaggio
Ognuno di noi nasce all’interno di un “sistema”, una cultura
familiare, in una certa nazione e regione, in un momento
della storia ben delimitato. E ogni epoca ha un certo livello di
energie, che tu voglia o meno.

Per quanto tu faccia, non puoi nascere né prima né dopo.
Non puoi decidere dove nascere e in che famiglia, in
che Nazione, in che strato sociale, o che lingua apprendere
dalla nascita.
Gli stimoli che ricevi sin dalla venuta al mondo, generano
una certa personalità (carattere), determinano come vivi i periodi
della vita, persino lo stato di umore.

Questo patrimonio genetico è la tua base di partenza. Ciò
che farai nella tua vita però può essere modificato, in misura
sempre crescente, quanto più diventi padrone di nuove abilità:
• abile nel decodificare che cosa ti hanno insegnato,
• abile nel valutarlo con criteri tuoi e nuovi,
• abile nel ristrutturare tutto quando hai appreso e decidere
di apprendere qualcosa di nuovo.

Molto spesso siamo talmente ignari persino del nostro
comportamento, di come comunichiamo o di come appaiamo
all’esterno, che rimaniamo stupiti nel vedere noi stessi quando
siamo ripresi da un video, o non ci riconosciamo nemmeno
nella voce, in una registrazione.

Ci sembra che la nostra voce sia diversa o non ci riconosciamo
per come vorremmo essere in una foto. Lo stesso, più
subdolamente, accade per i nostri pensieri.
Se solo qualcuno riuscisse a tirare fuori i nostri pensieri,
le credenze, le convinzioni attive, le regole assimilate inconsciamente,
e ce le mettesse su un tavolo dicendo “questo sei
tu”, saremmo dieci volte più sorpresi che nel sentire la nostra
voce registrata.

Se questo “autoconoscersi” è difficile per i comportamenti
e le comunicazioni osservabili, figuriamo quanto sia
difficile per gli strati sempre più interni, a partire da quelli
più fisiologico come le emozioni che viviamo, sino a quelli
più intangibili e sottili, come la cultura nella quale siamo stati
immersi dalla nascita in avanti.
La cultura ci ha forgiato che lo volessimo o meno, da essa
abbiamo assorbito le credenze che abbiamo dentro, valori, e
modi di essere (memetica).

Memetica e genetica, combinati, fanno di noi quello che
siamo oggi.

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Anteprima dal volume “Il Coraggio delle Emozioni” di Daniele Trevisani www.danieletrevisani.com/emotions

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ghost-whisperer-the-second-season-20071025023221026-000su Rai 2 un programma satanista nell’orario dei bambini???? bambine cui diventano gli occhi rossi come in un film del terrore di Dario Argento??? Persone che vanno in pezzi??? Nell’orario dei bambini? VERGOGNA E ANCORA VERGOGNA – 16:15 GHOST WHISPERER SERIE TV e e poi il rassicurante concetto delle “presenze” sempre in orario per bambini – qui dal sito RAI del programma:
La capacità di unire la mitologia al soprannaturale ha consacrato il creatore della serie, John Gray, come l’autore delle serie paranormali per eccellenza.

La serie, trasmessa negli USA dal network CBS, è basata sulle vere esperienze del medium James Van Praagh – autore di molti best seller sul mondo del paranormale e delle “presenze” – e produttore esecutivo dello show. Van Praagh continua a occuparsi degli “spiriti intrappolati” e cura un frequentatissimo blog dove da consigli su come comunicare con gli spiriti dei defunti. Consulente della serie è un’altra famosa ghost buster, Hannah Storm.

e ALLORA DOCUMENTATEVI …STUDIATE! https://lnkd.in/esG_2HS

…. E’ ormai assodato che l’esposizione a modelli violenti accresce la possibilità che vengano emessi analoghi comportamenti aggressivi da parte dell’osservatore. D’altro canto, altrettanto condivisa è la tesi secondo cui il legame fra violenza televisiva e comportamento aggressivo non sia un legame di causa diretta. Per fortuna. Nella riproduzione di comportamenti aggressivi visti in tv, come anticipato poco fa, entrano in gioco numerosi fattori. L’apprendimento imitativo del comportamento violento è sostenuto da predisposizioni genetiche dell’individuo, fattori legati contesto socio-culturale di appartenenza e componenti di natura psicologica, come il livello di sviluppo cognitivo, affettivo e socio-relazionale raggiunto dallo spettatore.

Fatta salva questa necessaria considerazione, passiamo in rassegna le principali teorie che spiegano gli effetti dei contenuti violenti dei media.

  1. A) Teoria della Catarsi: gli spettatori si identificano con i protagonisti delle scene violente per la necessità di scaricare attraverso di essi le proprie tendenze aggressive. (Inizialmente riscosse molti consensi, in seguito non trovò sufficienti conferme).
  2. B) Teoria del Modellamento sociale (Bandura, Ross, Ross 1963): le persone imparano non solo per effetto di ciò che sperimentano direttamente ma anche attraverso l’osservazione e l’imitazione di modelli, ossia di rappresentazioni semplificate della realtà che suscitano l’emulazione. Tutto ciò avviene anche in assenza di rinforzi, ovvero di gratificazioni che seguono l’emissione del comportamento e che spingono e reiterarlo. Si tratta di una teoria che viene spesso chiamata in causa per spiegare l’apprendimento di comportamenti violenti visti in tv.
  3. C) Teoria del Transfer di Eccitazione (Zillmann e coll.1972): l’esposizione a scene di violenza in tv produce uno stato di attivazione fisiologica (Arousal) identificabile come Eccitazione. Una volta spenta la tv lo stato di eccitazione innescato permane e si riversa nelle situazioni di vita reale: l’individuo reagisce con maggiore aggressività verso gli altri e/o verso se stesso.

Secondo questa teoria i bambini e gli adolescenti tendono a reagire agli episodi violenti orientando verso se stessi la carica distruttiva accumulata, oppure, all’estremo opposto, sviluppando una sorta di insensibilità alla sofferenza, ovvero un abbassamento della sensibilità emotiva alla violenza. Non di rado questa insensibilità si accompagna ad uno stato di “Impotenza appresa” rispetto al sopruso e all’esibizione della forza.

  1. D) Gerbner, 1972. I risultati di una sua ricerca mostrano come l’esposizione a scene di violenza modifica in senso negativo la percezione della realtà, favorisce un’interpretazione del reale in chiave pessimistica.

La variabilità delle risposte alla violenza televisiva dipende dal grado e dal tipo di elaborazione mentale che le persone vi dedicano. Nel sistema cognitivo i contenuti mediali violenti innescano due tipi di meccanismo: in alcuni individui attivano risposte razionali tese ad elaborare modelli di comportamento idonei a fronteggiare analoghe situazioni di pericolo (“…nella stessa situazione io farei così…”); in altri stimolano fantasie e pensieri ossessivi che creano un clima psicologico di paura o preoccupazione. E’ a questo secondo gruppo di individui che Gerbner fa riferimento teorizzando l’influenza della tv sul modellamento delle aspettative esperenziali.In uno studio dal titolo “Dimensioni della Violenza nella rappresentazione televisiva”, 1972, G. osserva che chi vive in quartieri tranquilli, al riparo dal rischio di atti criminali, ma assiste frequentemente a spettacoli televisivi violenti, ritiene di poter subire atti di violenza con una probabilità più alta di coloro che vivono in quartieri degradati e sono effettivamente più esposti al rischio. Ciò dimostra che talvolta le opinioni e le aspettative degli individui non derivano dall’esperienza concreta/diretta ma sono frutto delle suggestioni esercitate dalla tv.

  1. E) Teoria della Coltivazione”, Gerbner 1976. Considerare l’influenza della tv in relazione a determinati programmi, scene, situazioni, è riduttivo: essa risiede nel prodursi di un fenomeno di portata ben più grande. Oggi la tv è diventata una delle maggiori agenzie di socializzazione in quanto veicola modelli e valori, fornisce informazioni e produce cultura, propone interpretazioni/letture della realtà sociale, influenza scale di valori e schemi di vita, rivoluziona la gerarchia dei bisogni. La tv costruisce immagini e rappresentazioni mentali della realtà.

Il bambino che cresce assorbendo i messaggi veicolati dalla tv e vive fin da piccolo in un rapporto di alta fruizione col mezzo non può non subirne l’influenza.

  1. Studi e ricerche.

A dimostrazione degli effetti che la violenza televisiva esercita sul comportamento dei minori, riportiamo ora alcuni fra i più importanti studi scientifici, americani e inglesi, che hanno indagato il problema.

Il disegno sperimentale tipico degli studi che indagano gli effetti della violenza dei mass media prevede che i soggetti siano suddivisi in due gruppi. Il gruppo sperimentale assisterà a stimoli violenti di vario genere, mentre il gruppo di controllo sarà esposto a stimoli non violenti. In un secondo momento si registrerà la frequenza con cui vengono emessi comportamenti di tipo aggressivo da entrambi i gruppi. L’obiettivo è di valutare l’esistenza di differenze fra i gruppi per dimostrare che l’esposizione alla violenza facilita l’emissione successiva di comportamenti similari.

1) “Violenza Televisiva: una rassegna degli effetti su Bambini di Età Diverse”

Apriamo la nostra rassegna con uno studio che raccoglie i contributi di molte ricerche e che fornisce una visione d’insieme degli effetti della violenza televisiva sui minori. Il lavoro si fonda su una premessa importante, secondo cui nelle diverse età i bambini guardano e capiscono la tv in modo diverso, a causa del diverso livello di attenzione, del modo di cogliere le informazioni, dell’entità dello sforzo mentale che investono e delle proprie esperienze di vita. Variabili che è necessario prendere in considerazione se si vuole comprendere pienamente gli effetti della violenza televisiva sui bambini. Per queste ragioni lo studio distingue gli effetti della violenza televisiva in funzione dell’età, specificando per ciascuna fascia lo stile di fruizione tipico e la capacità di comprensione dei contenuti mediali. Un’ulteriore distinzione è fatta all’interno di ciascuna fascia fra gli effetti comportamentali e quelli emotivi. Fra i primi si osservano l’imitazione degli atti violenti, la riduzione delle inibizioni nei confronti del comportamento aggressivo, il lasciarsi andare ad atti aggressivi impulsivi, il trascurare attività come l’interazione coi coetanei o con gli adulti che insegnerebbero modalità non violente di risolvere i conflitti. Fra i secondi si registrano invece la desensibilizzazione alla violenza nella vita reale, l’elaborazione di una percezione pessimistica del mondo, visto come un luogo pericoloso che fa paura, lo sviluppo di aspettative di violenza come soluzione alla ricomposizione dei conflitti.

Le fasce individuate sono 5:

1) Bambini fino ai 18 mesi

2) Bambini dai 18 mesi ai 3 anni.

3) Bambini in età prescolare, dai 3 ai 5 anni.

4) Bambini in età da scuola elementare, dai 6 agli 11 anni

5) Adolescenti dai 12 ai 17 anni.

  1. Bambini fino ai 18 mesi.

– Livello di attenzione nel guardare la tv:

I bambini di questa fascia riescono a prestare attenzione alla tv sono per brevi periodi, poiché tale attività richiede loro un grande sforzo ed infatti solitamente sono più interessati alle proprie attività quotidiane.

–  Uno studio effettuato su bambini di circa di tre mesi ha mostrato che la maggior parte dei soggetti che aveva osservato la presentazione di un cartone animato della durata di 6minuti per  almeno la metà del tempo totale (dunque per almeno 3minuti) in seguito mostrava segni di stanchezza come il pianto e la richiesta di attenzioni.

–  Un altro studio ha mostrato invece che i bambini di 6 mesi possono mantenere un buon livello di attenzione verso la tv fino ad un massimo di 16 minuti, ma solo se non hanno attività più interessanti da fare, come mangiare, arrampicarsi sui mobili di casa, cambiare il pannolino. Messi di fronte alla tv per un periodo di 2ore questi bambini mantengono l’attenzione per soli 12 minuti, ovvero per il 10% della durata totale dell’esposizione.

–  Un interessante studio giapponese mostra inoltre che mentre i bambini che guardano la tv da soli faticano a mantenere l’attenzione sui programmi, quelli che vedono la tv insieme ai propri genitori non solo riescono a conservare più a lungo un buon livello di attenzione ma riescono a riconoscere il programma già visto e si mostrano coinvolti dalle rappresentazioni dello schermo, manifestando tale coinvolgimento con semplici movimenti imitativi o con l’applauso.

Ciò suggerisce che tali bambini potranno imitare i personaggi dei programmi televisivi non appena saranno capaci di distinguerli dallo sfondo. (E’ bene considerare tuttavia che poiché al momento dell’esposizione i bambini si trovavano coi propri familiari, l’atteggiamento imitativo potrebbe avere per oggetto il comportamento dei familiari e non quello della tv).  

– Comprensione dei contenuti:

Tuttavia a questa età i bambini, anche quando dirigono l’attenzione verso la tv, probabilmente non colgono ciò che la maggior parte degli adulti considera essere il contenuto di un programma, bensì percepiscono principalmente frammenti di luce e suoni che sporadicamente riescono a ricomporre in combinazioni significative, come una creatura umana o un animale. Alcune osservazioni mostrano che i bambini di 1anno si soffermano in genere sulla musica di un programma o sui veloci cambi di scena o di personaggio, trascurando gli intervalli narrativi del programma che ne rappresentano invece il contenuto. Solo raggiunti i tre anni i bambini mostrano di ricercare informazioni sul contenuto del programma negli intervalli narrativi.

– Effetti potenziali della violenza televisiva:

Ad oggi non si conoscono ricerche che abbiano studiato l’effetto della violenza televisiva sui bambini così piccoli, tuttavia esiste evidenza del fatto che tali bambini possano imitare i comportamenti visti in tv se presentati in maniera molto semplice e chiaramente percepibile, e se non distratti da altre attività. Caratteristiche queste che non si osservano nelle scene violente della tv.

I bambini così piccoli hanno scarsa capacità di discriminare oggetti, personaggi e contenuti, e dunque con minor probabilità saprebbero replicare ciò che vedono. Il pericolo non riguarda l’oggi,  investe il futuro: se ora imitano movimenti semplici, domani possono imitare comportamenti più complessi, magari violenti. La prevenzione sta nel non abituare i bambini a vedere troppa tv e nell’accompagnarli nella fruizione del mezzo.

  1. Bambini dai 18 mesi ai 3 anni.

– L’avvicinamento alla tv.

E’ solo verso i 2 anni, 2 anni e mezzo che i bambini cambiano il loro atteggiamento verso la tv. Anche se trascorrono davanti allo schermo lo stesso tempo dei bambini più piccoli, tuttavia conservano un livello di attenzione 3 o 4 volte superiore. A questa età sono più facilmente attratti dalla tv anche se stanno facendo altre attività. Questo cambiamento è dovuto ad uno sviluppo delle capacità cognitive del bambino (sviluppo della Funzione Simbolica) che comincia a rappresentare nella propria mente oggetti, avvenimenti, pensieri, ricordi: un’abilità che gli permette di estrapolare, seppur ancora in forma molto ingenua, il contenuto dei programmi tv.

A differenza dei precedenti questi bambini possono dirsi “osservatori”, guardano la tv in media per 2 ore al giorno e più si avvicinano alla soglia dei 3anni più frequentemente individuano i loro programmi preferiti tra quelli educativi, le commedie, i cartoni e i giochi.  Ricerche finalizzate a sostenere l’industria televisiva hanno evidenziato che se da un lato è relativamente facile attrarre l’attenzione dei bambini di questa fascia d’età, dall’altro solo il 20% di loro riesce a comprendere il contenuto dei programmi. Conquistare questa fascia di spettatori è sul momento poco utile; può diventarlo in seguito quando ormai affezionati a quei programmi i bambini cominceranno a coglierne il significato.

Si è visto comunque che gli elementi che attraggono l’attenzione sono l’animazione, l’uso di personaggi e animali grandi, la voce di bambini, l’uso di movimenti sul posto.

Facilita la comprensione invece l’uso di sfondi semplificati, la ripetizione di oggetti e contenuti, una rappresentazione che veda i personaggi principali fisicamente più grandi di quelli secondari.

– Effetti potenziali della violenza televisiva:

Nonostante la mancanza di studi sugli effetti della violenza televisiva sui bambini di questa età, l’esperienza ci insegna che sono capaci di apprendere comportamenti verbali e non verbali dalla tv. Il fatto che sappiano imparare a memoria intere frasi degli spot pubblicitari è indice di questa capacità di apprendimento.

A questa età, i bambini possono instaurare modalità di osservazione della tv che li esporranno ad alti livelli di contenuti violenti per tutto il resto dell’infanzia. Si è visto inoltre che il ricordo di modelli osservati nella prima infanzia persiste nell’età prescolare, come lo stesso ricordo dei modelli osservati nell’età prescolare si conserva nell’età della scuola elementare.

–  Poiché questi bambini imitano quello che vedono e sentono in tv, è bene evitare che assistano a programmi violenti. Inoltre, poiché tendono ad imitare le condotte dei genitori è bene che gli stessi riflettano sul proprio stile di fruizione della tv per fornire ai figli modelli adeguati. 

  1. Prima infanzia o Età Prescolare (dai 3 ai 5 anni)

La maggior parte della ricerca tesa ad indagare gli effetti della violenza televisiva sui minori ha coinvolto bambini in età prescolare. Molti studi hanno mostrato che la violenza televisiva produce su questi bambini effetti relativamente forti: diverse sono le ragioni che spiegano la loro maggiore vulnerabilità.

– L’approccio all’elaborazione delle informazioni e all’osservazione della tv

In questa fase l’ulteriore sviluppo della capacità di usare processi simbolici (ovvero di rappresentarsi immagini, avvenimenti, pensieri) consente al bambino di sviluppare delle aspettative organizzate in schemi di azione (SCRIPT). Il bambino si aspetta, ad esempio, che un dato comportamento sia il risultato della somma di azioni minori organizzate in una rigida sequenza gerarchica. Comincia a cogliere il significato del legame causale fra gli eventi e dunque a sviluppare aspettative. Allo stesso modo impara a distinguere all’interno di una sequenza di azioni gli atti importanti da quelli secondari, quelli che individuano il contenuto dell’azione da quelli che sono soltanto accessori. E’ questa abilità che avvicina il bambino alla comprensione del filo narrativo delle storie, della trama di un film o di un cartone animato, a capire che gli oggetti, gli eventi e i personaggi che vede ritratti in tv non sono fra loro indipendenti ma legati, in rapporto fra loro.

E’ lo sviluppo della capacità simbolica che consente al bambino in età prescolare di approcciare alla tv in maniera più analitica: comincia a sviluppare gli strumenti che gli permettono di comprenderla, usa i suoi schemi per esplorare il mezzo, per interpretarne i contenuti. Tuttavia, poiché tali schemi (SCRIPT) sono ancora molto semplici e incompleti, i bambini si mostrano ancora attratti in modo particolare dalle caratteristiche vivide delle immagini, come i movimenti rapidi o i veloci cambi di scena, panorami suggestivi, effetti sonori forti o melodie inaspettate, dunque caratteristiche formali che non hanno un rimando diretto al contenuto.

Più difficile è per loro cogliere le motivazioni dei personaggi e le loro reazioni emotive, soprattutto se si tratta di cartoni animati o di pupazzi. Nonostante questo però riescono a distinguere i personaggi buoni da quelli cattivi sulla base del loro aspetto. Definiscono cattivi o paurosi i personaggi particolarmente brutti, che hanno ad esempio la pelle verde o il corpo sfigurato, anche se si comportano da buoni, sono gentili e hanno buone intenzioni.

La letteratura riporta il caso di una bambina in età prescolare che all’improvviso sviluppò una fobia nei confronti degli uomini di colore. Si comprese in seguito che la paura era nata dopo aver visto con la propria famiglia il film “Radici” dove uno schiavo nero veniva ripetutamente frustato. La bambina dedusse che un uomo che riceveva tale punizione doveva essere molto cattivo. Questo pensiero, probabilmente, produsse in lei l‘aspettativa che tutti gli uomini neri fossero cattivi e dunque la paura.

In realtà, tuttavia, non c’è evidenza che la paura sia stata direttamente provocata dalla visione  del film, ma nonostante questo l’episodio è emblematico perché mostra il tipo di elaborazione che i bambini fanno a questa età. L’elemento formale che la bambina aveva colto era la rappresentazione di una violenta e crudele fustigazione. Alla sua comprensione sfuggì completamente che si trattasse di un’aggressione ingiusta e immotivata dal momento che l’aggressore era sempre stato un personaggio immorale e la vittima una persona dal passato ammirevole. Le sfuggì anche che altri personaggi visti in altre scene del film erano gli stessi uomini coinvolti nell’aggressione, ma con un abbigliamento e un atteggiamento diversi.

Altri studi mostrano addirittura che questi bambini ricordano i programmi tv solo se sono colpiti da elementi formali particolarmente vividi. Se questi mancano, poiché i bambini non sanno cogliere il contenuto delle sequenze, non c’è ricordo.

Poiché la violenza televisiva si caratterizza per elementi vivaci, percettivamente intensi, i bambini prescolari si rivelano particolarmente attratti dai contenuti violenti della tv. Non è la violenza in se che è attraente ma le sue caratteristiche vivide e di forte impatto percettivo.

La preferenza dei bambini verso i cartoni animati, ricchi di scene vivide e violente, li espone ad un numero elevato di modelli aggressivi. Per di più a questa età essi non sono in grado di contestualizzare la violenza cogliendone le motivazioni e le conseguenze. Accade così frequentemente che dopo l’esposizione a contenuti televisivi violenti i bambini prescolari si comportino in maniera più aggressiva verso gli altri. 

– Abilità a distinguere fra realtà e fantasia

Alcuni studi mostrano che i bambini prescolari sanno distinguere i personaggi reali da quelli di fantasia, ma non sanno spiegare il significato dei concetti di “Vero” e “Falso” e probabilmente utilizzano questi due termini con un significato diverso da quello che generalmente hanno. Ciò significa che a questa età i bambini fanno ancora difficoltà a distinguere fra finzione e realtà.

– I contenuti che fanno paura.

Circa il 50% dei bambini prescolari è stato spaventato da qualcosa visto in tv. In genere le rappresentazioni che suscitano uno stato di paura più intenso sono quelle reali trasmesse dai tg o quelle verosimili dei film, dove i protagonisti dell’azione sono delle persone. Meno intense, ma non meno frequenti, le reazioni di paura suscitate dai cartoni animati o dalle figura di fantasia come ad esempio l’Incredibile Hulk, il gigante verde che nasce dalla trasformazione di un uomo, David Banner. I bambini sono spaventati da quella figura dall’aspetto ostile e pericoloso, che ha la pelle verde, i vestiti a brandelli e lo sguardo sempre arrabbiato, perché non riescono a capire che si tratta della persona buona e inoffensiva che hanno visto poco prima e che ha mutato aspetto.

Parlare con i propri figli del programma o spiegare loro che le scene paurose non sono reali è ciò che i genitori fanno per aiutare i propri figli ad affrontare la paura suscitata da scene violente alla tv. Tuttavia queste strategie non sono efficaci con i bambini prescolari ma solo con quelli  più grandi. I prescolari infatti fanno ancora difficoltà a distinguere fra finzione e realtà, e probabilmente alle parole “Reale”e“Finto” danno un significato diverso da quello che ad esse attribuiscono gli adulti. Nel resoconto di un bambino circa i propri sogni si legge:”Gli ho detto che erano un sogno, ma non volevano andarsene!”.

Ciò significa che le argomentazioni logiche e razionali e le spiegazioni puntuali non riescono a confortare i bimbi prescolari spaventati. In questi casi è meglio distrarli proponendo loro altre attività (mangiare, giocare) o coccolarli stabilendo con loro un contatto fisico rassicurante.

Diverse ricerche mostrano come la mediazione genitoriale nel contesto della fruizione della tv  riduca nei bambini il livello di paura e la possibilità che essi adottino comportamenti imitativi aggressivi. Mediazione che si sostanzia nel limitare l’esposizione dei bambini alla tv, guardare i programmi insieme a loro incoraggiando alcuni comportamenti e disapprovandone altri, proporre la visione di programmi educativi o prosociali.  

  1. Media Infanzia, età della Scuola Elementare (6-11 anni).

Lo sviluppo cognitivo ed emotivo che ha luogo a questa età, in particolare intorno agli 8 anni, rende particolarmente critico il rapporto fra l’esposizione alla violenza televisiva e lo sviluppo di comportamenti imitativi aggressivi. Forse l’aspetto determinante di questo cambiamento è il passaggio dal fare affidamento sui dati percettivi, formali, per capire il mondo al fare affidamento sulle informazioni concettuali.

Anche l’età intorno agli 10-12 anni si rivela particolarmente critica perché è in questo momento che cominciano a formarsi gli interessi a lungo termine del bambino e che cominciano ad emergere i modelli di comportamento.

– Stile di fruizione

L’inizio della scuola elementare coincide con una minore fruizione della tv, dal momento che ora i bambini hanno meno tempo libero. Ma già dalla 2^ e 3^classe il numero di ore che i bambini passano davanti alla tv ricomincia a crescere perché ora riescono a stare svegli più a lungo la sera. Da questo momento in poi le ore di fruizione continueranno a crescere fino al periodo dell’adolescenza.

Si è osservato che a questa età i bambini sono più spesso soli davanti alla tv di quanto non lo fossero prima, e che cala la preferenza per i programmi educativi in favore dei cartoni animati, delle commedie e dei programmi di avventura.

–  L’approccio all’Elaborazione delle informazioni e all’osservazione della tv

Fra i 6 e 7 anni i bambini diventano più efficienti nel processare le informazioni di una storia (e dunque anche di una trama televisiva) perché acquistano la capacità di concentrarsi sui contenuti importanti del racconto, di immagazzinare le informazioni a seconda della loro importanza e di confrontare le informazioni presentate con le loro aspettative in merito all’evoluzione della storia.

Dall’età di 7 anni cresce la capacità di protrarre a lungo l’attenzione e, sebbene questi bambini siano ancora attratti dalle caratteristiche formali delle scene, essi riescono più facilmente ad ignorarle concentrandosi sugli elementi che rimandano al contenuto della storia e che sono importanti per comprenderne la trama e dunque il significato.

A 8 anni i bambini possono comprendere caratteristiche formali più complesse come tagli e dissolvenze usate per denotare salti nel tempo, retrospettive e sogni, e sanno identificare quelle caratteristiche formali che distinguono i contenuti reali da quelli fantastici. Ad esempio, in uno studio alcuni bambini dissero che secondo loro la notizia data dalla tv circa l’esplosione della navicella spaziale Challenger era vera perché la qualità del video trasmesso era bassa, il discorso degli annunciatori era frammentato, non organico, e mancavano primi piani.

A questa età i bambini sviluppano la capacità di riconoscere delle proprietà/caratteristiche/tratti che rimangono stabili nel tempo, non variano, in oggetti e personaggi che cambiano, si trasformano, evolvono, e imparano ad utilizzare più complessi sistemi di classificazione di oggetti ed eventi. Questo consente loro di comprendere contenuti e caratteristiche formali più sofisticati, e di fare inferenze affidabili in assenza di oggetti ed eventi concreti. In questo modo possono comprendere meglio le trame degli eventi, interpretarle alla luce delle emozioni e delle motivazioni dei personaggi, utilizzare stereotipi per classificarli come buoni o cattivi in assenza di informazioni rilevanti sul loro comportamento passato. Qualora queste informazioni ci fossero sarebbero capaci di inserirle ed organizzarle all’interno dell’idea che si sono costruiti del personaggio.

La capacità di cogliere la trama del racconto consente loro di cogliere anche le conseguenze degli atti violenti, le sofferenze inflitte, le punizioni, la disapprovazione degli altri, e dunque di comprendere che la violenza è qualcosa di cattivo.

Anche se a questa età i bambini hanno una grande capacità di estrarre significati da ciò che vedono in tv, è l’entità dello sforzo mentale che investono a determinare se useranno le loro abilità cognitive e la capacità di critica per processare in modo approfondito le informazioni televisive, oppure se si limiteranno a reagire alle stesse in maniera superficiale. I bambini che guardano la tv ricercando in essa informazioni operano uno sforzo maggiore e imparano di più. Tuttavia a questa età i bambini in genere guardano la tv per rilassarsi, divertirsi o solo per passare il tempo e per questo processano le informazioni in modo superficiale e acritico.

– La particolare sensibilità alla violenza televisiva 

Questa fascia d’età è considerata particolarmente sensibile alla violenza televisiva. L’età di 8anni rappresenta uno spartiacque rispetto agli effetti che la  violenza in tv può esercitare sui bambini. Le ragioni sono le seguenti:

1) Difficoltà nel discriminare gli eventi reali da quelli che non lo sono. Dopo gli 8 anni con maggior probabilità i bambini diventano più aggressivi dopo aver visto programmi violenti alla tv se credono che i comportamenti osservati siano reali. A parte i supereroi che compiono azioni impossibili agli uomini normali, e di questo i bambini sono consapevoli, tutto ciò che è pressoché verosimile per loro diventa “reale”. A differenza di superman che è un eroe dei fumetti/cartoni, le avventure di un poliziotto ad esempio sono reali perché il poliziotto esiste nella realtà. Anche se i bambini sanno che il poliziotto del film è un attore che recita, essi pensano che ciò che gli succede è reale nel senso che “può succedere nella realtà”.

Alcuni bambini dissero che il telefilm sui poliziotti era reale perché parlava di ladri, di pattuglie e di sangue, associando dunque la violenza alla realtà, come a dire “Ciò che è violento è reale”. Ciò significa considerare tutti i comportamenti violenti come reali, e dunque come dei modelli di risoluzione del conflitto da poter applicare nella vita vera. Fortunatamente questa convinzione non è diffusa tra i bambini ma si osserva che quando è presente essa persiste oltre la media infanzia.

2) Tendenza all’identificazione con eroi aggressivi e allo sviluppo di fantasie violente alle quali essi stessi prendono parte. Generalmente i bambini di questa età si identificano con personaggi fantastici perché rispetto alle persone reali sono più forti, potenti e ammirati. I temi del potere e della forza esercitano grande suggestione su questi bambini, probabilmente perché in questa fase della vita essi lottano per conquistare competenza e indipendenza, sia a livello personale che nei rapporti sociali.

Sfortunatamente i personaggi forti e potenti spesso sono anche i più violenti e aggressivi. Se poi la violenza dell’eroe è usata per “fare giustizia”, sconfiggere i cattivi e i criminali allora è ancora più accettabile. Paradossalmente ai loro occhi diventa più violento un cartone animato come la Pantera Rosa perché lì la violenza, pur comica, è ingiustificata.

Si è osservato inoltre che l’esposizione alla violenza in tv aumenta la probabilità che in seguito i bambini elaborino fantasie violente, e in misura maggiore se si identificano con un eroe forte e aggressivo. Il dato è rilevante perché tali fantasie sono considerate un fattore predittivo delle condotte aggressive. I bambini che non elaborano fantasie violente con minore probabilità produrranno comportamenti violenti.

3) aspettative circa le reazioni alla violenza collegate al genere. perche’ la violenza televisiva ha più effetto sui maschi che sulle femmine: le bambine di questa età si rendono conto che il comportamento violento non è appropriato a loro, per questo probabilmente sono meno attratte dalla violenza rappresentata in tv e nei fumetti, raramente si identificano con personaggi violenti e manifestano comportamenti violenti in misura minore rispetto ai maschi. Inoltre, ancora in virtù di questa convinzione, le bambine si aspettano che il comportamento aggressivo di una donna susciti maggior disapprovazione rispetto a quello di un uomo, si aspettano di sentirsi più colpevoli degli uomini dopo essersi comportate in maniera violenta e di provocare maggiore sofferenza alle proprie vittime. Anche i bambini che non sono molto aggressivi si sentono in colpa per la propria aggressività e sentono empatia per la sofferenza degli altri.

I bambini di questa età sanno riconoscere i programmi destinati ai maschi e quelli destinati alle femmine sulla base delle caratteristiche formali degli stessi: rumori forti e narratori maschi per i primi, musiche, dissolvenze e narratrici per i secondi.
– L’osservazione della tv influenza la Percezione del mondo

Fin dagli anni ’70 si è visto che, come accade per gli adulti, anche i bambini che vedono molta tv hanno una percezione negativa del mondo, lo vedono come un luogo violento, pericoloso che suscita paura. Al riguardo in molti si chiedono se questa percezione sia frutto della rappresentazione che del mondo da la tv, o se in realtà siano i soggetti più violenti, magari asociali e disadattati, a rifugiarsi nella tv per evitare di affrontare il mondo che tanto temono.

Il fatto che gli individui che vivono nei luoghi più violenti e pericolosi passino molto tempo davanti alla tv è un dato che diversi studi hanno accertato. Tuttavia ugualmente evidente è il fatto che l’esposizione a programmi particolarmente violenti e paurosi suscita paure tali nei bambini da portarli a vedere il mondo come un luogo pericoloso.

Nei programmi tv i bambini sono ritratti con maggior probabilità degli adulti come vittime di violenza o di qualche malattia, oppure, quando si tratta di adolescenti, come vittime del proprio comportamento autodistruttivo (Fumare, bere, drogarsi). Alcuni studi mostrarono che i bambini di 10-11 anni riportavano sentimenti di paura superiori a quelli dei bambini più piccoli dopo la visione del film “The Day After”che raccontava della devastazione di una città dopo l’esplosione di una bomba nucleare. Nella stessa occasione si osservò anche che le femmine reagirono al film in maniera più intensa ed emotiva, sperimentarono una paura più profonda rispetto ai maschi.

La visione del film spaventò particolarmente i bambini perché le scene ritraevano altri bambini morti, feriti o sofferenti. Si  è visto infatti che i bambini si spaventano soprattutto quando si identificano con le vittime, come in questo caso, e quando l’azione si svolge in luoghi a loro familiari, come l’interno di una casa o di una scuola, ovvero quando il contesto della violenza somiglia ai contesti in cui il bambino vive abitualmente. Se la vittima della violenza è un adulto o una persona lontana dalla sua esperienza, o se la violenza ha luogo in contesti lontani da quelli abituali, il bambino sperimenta livelli di paura meno intensi.

  1. Adolescenza (12-17)

Poiché trascorrono meno tempo in casa gli adolescenti guardano meno la tv rispetto ai bambini più piccoli. Quando sono in casa in genere la vedono insieme agli membri della famiglia.

A questa età i ragazzi sono capaci di ragionamento astratto di alto livello, ma nonostante abbiano acquisito una buona capacità cognitiva ed empatica, raramente usano queste abilità mentre guardano la tv. Per loro si tratta di un’attività passiva, rilassante, che richiede poca concentrazione, e che svolgono quando sono annoiati o soli investendo poco sforzo mentale.

Dalla prima adolescenza cominciano a concettualizzare molteplici significati per la parola “Reale”, come “possibile” o “plausibile”, e hanno ormai acquisito la capacità di distinguere fra realtà e finzione nel contesto dei programmi televisivi.

Quelli che ancora credono nel fatto che la tv sia reale anche quando non lo è, che continuano ad identificarsi con modelli violenti e a coltivare fantasie eroiche e aggressive sono i soggetti maggiormente vulnerabili agli effetti della violenza televisiva. Questo, unito alla tendenza, tipicamente adolescenziale, a sfidare l’autorità convenzionale, aumenta le probabilità che questi giovani riproducano nella vita reale i comportamenti aggressivi visti in tv.

Il fatto che questi ragazzi abbiano alla loro età sviluppato abilità cognitive ed empatiche nuove può avere infatti un duplice effetto: se da un lato possono usare queste abilità per osservare in maniera critica quanto viene proposto, distinguendo ad esempio la realtà dalla fantasia, i modelli positivi da quelli negativi, dall’altro possono utilizzare le stesse capacità per derivare dalla tv modelli violenti da replicare nella vita reale. I programmi che con maggior probabilità possono essere imitati sono quelli che descrivono nel dettaglio gli omicidi, i suicidi (gli adolescenti più degli altri minori sono vulnerabili a questo tema) o altri comportamenti violenti. Con l’intenzione di replicarli in seguito alcuni ragazzi li studiano con attenzione, cercando di “correggerne il tiro” in caso di fallimento.

Appartengono a questa fascia d’età i giovani che mostrano la più alta tendenza ad ammirare i criminali e i malfattori.

Come succede ai bambini in età da scuola elementare, anche gli adolescenti che vedono molta tv sviluppano una concezione pessimistica del mondo, come luogo cattivo e pieno di insidie. Si tratta tuttavia di una percezione meno assoluta perché a differenza dei bambini più piccoli gli adolescenti sanno che buona parte della violenza che vedono in tv non è reale. 

Tipico dell’adolescenza è l’interesse verso la pornografia. Un settore di questo genere si caratterizza come pornografia violenta: gli effetti che essa produce sugli adolescenti possono essere preoccupanti perché incoraggiano alla violenza contro le donne o operata dalla donna sull’uomo. In alcuni ragazzi possono addirittura suscitare la convinzione che certe donne vogliano realmente farsi vittima di violenza sessuale (mito dello stupro). Nelle ragazze invece l’esposizione a pornografia violenta suscita sentimenti di paura e riduce l’autostima.

 2)  Bandura Ross, Ross. “L’imitazione di modelli aggressivi veicolati dai film”

Lo studio di Bandura e coll. è  considerato una delle prime dimostrazioni dell’influenza della violenza televisiva sul comportamento aggressivo dei bambini. Uno studio precedente a quello che approfondiremo oggi, condotto dallo stesso Bandura, mostrò che i bambini imitavano facilmente il comportamento aggressivo esibito da un modello quando si trovavano in presenza di quel modello. Una ricerca successiva dello stesso autore dimostrò che i bambini esposti a modelli aggressivi generalizzano le risposte aggressive e le ripropongono in contesti diversi dove quei modelli sono assenti.

(Dimostrata coi lavori precedenti l’influenza dei modelli televisivi sul comportamento dei bambini) Con il presente lavoro gli autori intendono determinare in che misura i modelli aggressivi veicolati dalla tv possono comportarsi come una importante fonte di comportamento imitativo. In particolare essi intendono verificare se l’esposizione a modelli aggressivi televisivi aumenta la probabilità che il bambino reagisca in maniera aggressiva ad una successiva frustrazione.

Il modello teorico su cui si fonda questa ricerca è quello dell’Apprendimento imitativo”(o Modellamento sociale), secondo cui  l’apprendimento si verifica anche in assenza di una esperienza diretta, e dunque per mera osservazione di modelli.

Un corollario di questa teoria è la “Teoria del feed-back positivo di imitazione”secondo cui se un comportamento è ripetutamente seguito da un feed-back positivo il feed-back acquista la caratteristica di “rinforzo” che facilita la produzione di quel comportamento. Al contrario, se il comportamento ha ricevuto un feed-back negativo, il feed-back acquista la capacità di suscitare uno stato di ansia che, a sua volta, inibisce la produzione del comportamento a valenza negativa.

Nella misura in cui l’osservazione di adulti che manifestano comportamenti aggressivi comunica un cero grado di permissività nei confronti dell’aggressività, si può affermare che questa esposizione non solo facilita l’apprendimento di nuove risposte aggressive, ma indebolisce anche le risposte inibitorie competitive, e comunque accresce la probabilità che vengano messi in atto modelli di aggressività precedentemente appresi.

Ipotesi di ricerca.

1) La violenza televisiva sollecita nei bambini l’apprendimento imitativo di comportamenti aggressivi.

2) I soggetti che manifestano una forte ansia legata a comportamenti aggressivi, adottano tali comportamenti, imitativi e non, con frequenza significativamente più bassa dei soggetti in cui il comportamento aggressivo è accompagnato da lievi stati d’ansia.

3) Poiché l’aggressività è generalmente considerato un comportamento inappropriato per le donne, e poiché probabilmente sarebbe seguito per loro da un rinforzo negativo, si è ipotizzato che i maschi imitano il modello aggressivo più delle femmine.

4) Inoltre si è ipotizzano che i soggetti esposti a modelli aggressivi mostrano maggior aggressività di fronte a successive frustrazioni, rispetto ai soggetti ugualmente frustrati ma che non sono stati esposti a modelli aggressivi.

Metodo

Lo studio ha coinvolto 96 bambini dai 3 ai 5anni, equamente distribuiti fra maschi e femmine. I soggetti sono stati divisi in 4 gruppi: 3 destinati alle condizioni sperimentali, il quarto utilizzato come gruppo di controllo.

Il primo gruppo sperimentale ha osservato modelli aggressivi dal vero. Ciascun bambino, condotto in una stanza di giochi dallo sperimentatore e poi lasciato solo, ha visto un terzo soggetto adulto prima giocare e poi aggredire una bambola dalle sembianze umane, colpirla in testa con un martello, scaraventarla in aria e prenderla a calci, pronunciando frasi come “Colpiscilo”, “Annientalo”, “Scaraventalo in aria”.

Il secondo gruppo ha osservato le stesse scene in un film;

Il terzo ha visto un film che ritraeva un personaggio dei cartoni animati aggressivo. Un gatto nero che aggrediva la solita bambola, compiendo con mosse feline le stesse azioni degli uomini nel film e nella realtà.

Il quarto non ha visto modelli.

Gli adulti che hanno recitato come modelli aggressivi sono 2, un uomo e una donna. I gruppi sperimentali sono stai poi divisi equamente in maschi e femmine in modo tale che in ogni gruppo esposto a modelli umani, la metà dei soggetti vedeva un modello aggressivo del proprio sesso e l’altra metà lo vedeva del sesso opposto. Dopo l’esposizione fu osservato il comportamento aggressivo dei bambini in una diversa condizione sperimentale e in assenza dei modelli.

I comportamenti successivi all’esposizione furono confrontati con quelli rilevati precedentemente nel contesto dell’interazione sociale a scuola e valutati su una scala a 4 punti, che indicava se i soggetti avevano manifestato aggressività fisica, verbale, contro oggetti inanimati o inibizione dell’aggressività. Un’altra scala che indicava la tendenza dei soggetti ad inibire il comportamento aggressivo di fronte ad una forte provocazione forniva la misura dell’ansia legata all’aggressività.

Dopo l’esposizione, il grado in cui il bambino aveva appreso i modelli di comportamento aggressivo attraverso l’imitazione divenne più evidente quando lo stesso fu istigato all’aggressività. Prima di venire condotti nella stanza del test tutti i bambini furono infatti sottoposti ad una lieve frustrazione: lo sperimentatore li portò in una anticamera che conteneva giochi attraenti e preziosi, spiegando però che non poteva lasciali giocare con essi e che aveva deciso di riservarli ad altri bambini. I bambini potevano comunque giocare con i giochi di una stanza accanto, quella del Test.

La stanza del test conteneva giocattoli che potevano essere usati per comportamenti aggressivi (la stessa bambola che tutti avevano visto subire aggressioni, un martello e altro) e giocattoli che generalmente suscitano comportamenti non aggressivi (un servizio per da the, matite colorate, carta, un pallone, orsacchiotti, animali di plastica). I bambini trascorsero nella stanza 20 minuti durante i quali il loro comportamento fu valutato sulla base di categorie di risposta predeterminate:

1) Queste individuavano fra i comportamenti aggressivi imitativi il picchiare con il martello la bambola, prenderla a calci, gettarla in aria, pronunciare le stesse frasi usate dai modelli.

2) Risposte parzialmente imitative erano considerate invece quelle condotte che si ispiravano in linea generale al comportamento dei modelli ma che non ne riproducevano nei particolari gli atti (alcuni bimbi ad esempio si sedettero sulla bambola come aveva fatto il modello ma non l’aggredirono, altri usarono il martello per colpire oggetti diversi dalla bambola).

3) Risposte aggressive non-imitative, rappresentano comportamenti aggressivi diversi da quelli messi in atto dai modelli, e magari orientati verso altri oggetti. Come pure frasi aggressive diverse da quelle pronunciate dai modelli.

RISULTATI

– Il risultato dell’analisi sui punteggi raggiunti dai soggetti dei 4 gruppi mostra che l’effetto dei tre trattamenti è significativo: i soggetti esposti a modelli aggressivi, dal vero, attraverso un film o un cartone animato, mostrano comportamenti aggressivi, sia fisici che verbali, in misura significativamente maggiore (quasi doppia) rispetto ai soggetti del gruppo di controllo. Tale risultato conferma l’ipotesi che l’esposizione dei soggetti a modelli aggressivi accresce la probabilità che gli stessi risponderanno in maniera aggressiva se istigati in occasioni successive.

– Tuttavia l’ipotesi che l’imitazione sia positivamente correlata con la rappresentazione reale, dal vivo, del comportamento aggressivo non trova un riscontro significativo. Infatti, pur rilevando che i soggetti del primo e del secondo gruppo, esposti a modelli umani, mostrano maggiore aggressività rispetto a quelli esposti ai cartoni animati, si registra una maggiore frequenza delle risposte aggressive imitative nei soggetti esposti ai modelli televisivi. Rispetto al gruppo di controllo, i soggetti esposti a filmati violenti manifestano la maggior aggressività totale, la maggior aggressività imitativa e parzialmente imitativa, e più  frequentemente fanno un uso aggressivo di armi giocattolo. Un dato questo, che contraddice le ipotesi di partenza e che rappresenta un’oggettiva dimostrazione dell’influenza che la tv esercita sulle condotte aggressive dei bambini.  Un’influenza che è addirittura superiore a quella esercitata dai modelli della vita reale. In altre parole la violenza televisiva suscita nei bambini comportamenti aggressivi imitativi quanto e più di quella reale.

–  Inoltre lo studio dimostra che l’esposizione a modelli aggressivi, reali o filmati, non solo facilita la riproduzione dei comportamenti violenti nella realtà, ma influenza anche la tipologia del gesto prodotto, la forma data al comportamento, che spesso ricalca quella del modello. (vedi episodi citati all’inizio dell’intervento).

–  Ancora lo studio dimostra che l’apprendimento imitativo di modelli può avvenire anche in assenza di rinforzo, feed-back positivo diretto al modello o all’osservatore.

Ulteriori analisi sono state condotte in merito all’influenza del genere sessuale dei modelli e  dei bambini. Si è osservato innanzitutto che i maschi mostrano livelli significativamente maggiori nell’aggressività imitativa e non imitativa, e nel gioco violento delle armi. Le bambine, d’altro canto, rispetto ai maschi tendono più frequentemente a sedersi sulla bambola ma rinunciano a colpirla. Inoltre i soggetti esposti a modelli maschili mostrano livelli di aggressività maggiori rispetto a quelli esposti a modelli femminili. Le differenze maggiori nei livelli di aggressività si riscontrano fra bambine esposte a modelli femminili(che in tali condizioni riproducono con maggior frequenza risposte parzialmente imitative) e bambini esposti a modelli maschili (che in queste condizioni mostrano con maggior frequenza risposte imitative).

Ciò significa che:

– le femmine sono tendenzialmente meno aggressive

– i modelli aggressivi femminili suscitano risposte imitative di minor aggressività e con minor frequenza. Parimenti, i modelli maschili sono quelli che suscitano maggiore aggressività (più intensa e più frequentemente).

In merito all’ipotesi dell’influenza degli stati di ansia sulla produzione di comportamenti aggressivi, non è stata osservata nessuna relazione significativa fra i livelli di ansia osservati e la frequenza di comportamenti aggressivi. Nessun effetto di inibizione o facilitazione del comportamento aggressivo ha trovato evidenza.

Il fatto che dopo l’esposizione ai modelli aggressivi i soggetti vengano sottoposti a condizioni leggermente frustranti, e solo dopo venga testata la loro aggressività, dimostra che è possibile cogliere pienamente gli effetti dei modelli violenti, umani (reali o televisivi) e non, solo in seguito, quando di fronte ad una frustrazione il bambino può replicare o meno i comportamenti osservati ed eventualmente appresi.

Inoltre il disegno sperimentale scelto consente di osservare anche la persistenza a medio termine dell’influenza dei modelli aggressivi.

Un’ultima osservazione: nella vita reale, necessariamente diversa da una situazione di laboratorio, la produzione di comportamenti aggressivi in risposta a modelli veicolati dalla tv è scoraggiata dall’intervento dei genitori che mostrano di disapprovare tali comportamenti e proibiscono la visione dei programmi considerati inappropriati.

3) Steuer, Applefield, Smith. “Aggressività televisiva e aggressività interpersonale nei bambini in età scolare”

Se lo studio di Bandura e colleghi ha dimostrato che il comportamento aggressivo dei bambini verso oggetti inanimati aumenta dopo l’esposizione a programmi televisivi aggressivi, lo studio di Steuer, Applefield e Smith si propone di indagare le conseguenze di tali programmi nel contesto del gioco interpersonale. L’ottica si sposta dunque dal gioco in solitudine ad una situazione di gruppo.

In questo studio due gruppi composti ciascuno di 5 bambini in età prescolare (dai 3 anni e mezzo ai 5), equamente distribuiti fra maschi e femmine e misti per razza ed estrazione socio-economica, sono stati esposti uno a  programmi televisivi aggressivi, l’altro a programmi non aggressivi per la durata di 110 minuti, distribuiti in 11 sessioni giornaliere di 10minuti ciascuna e dunque per la durata di 11 giorni. I materiali televisivi furono selezionati da programmi per bambini. Essi avevano come protagonisti personaggi umani e cartoni animati, con la preponderanza di cartoni animati. I programmi furono videoregistrati in bianco e nero con sonoro e a ciascuno furono assegnati dei punteggi in funzione del livello di aggressività mostrato dai personaggi.

Dopo l’esposizione ai programmi il comportamento dei bambini nel contesto del gioco di gruppo è stato osservato e confrontato con altre osservazioni effettuate in un periodo precedente l’esperimento. Il confronto ha permesso di osservare un aumento del comportamento aggressivo interpersonale nei bambini sottoposti alla visione di programmi aggressivi, ma non nel gruppo di controllo dei bambini esposti a programmi non aggressivi.

Nello specifico, dopo ogni visione i bambini erano chiamati a giocare fra loro liberamente, il gruppo sperimentale in una stanza, quello di controllo in un’altra. Nascosti dietro grandi specchi gli osservatori potevano seguire l’andamento del gioco. Le stanze, del tutto identiche, contenevano giocattoli vari: una bambola gonfiabile di plastica da poter prendere a pugni, un cappello da cowboy, 2 puzzle in legno, 6 cubi di cartone, 2 camion giocattolo, piatti, piattini, tazze, cucchiai e un coltello di gomma, un fucile di plastica, una scatola di cartone, animali di plastica, un secchiello con paletta e 2 cuscini da letto. Durante le sessioni di gioco un adulto era presente nella stanza: seduto su una sedia con le spalle al muro e dunque rivolto verso i bambini, l’adulto non interveniva nel gioco ma si limitava ad osservare.

Quattro tipologie di comportamento furono identificate come espressione di aggressività fisica interpersonale: colpire o spintonare un altro bambino con le mani, le braccia o con un oggetto tenuto in mano; prendere a calci un altro bambino; contatto manuale o corporale grossolano che include stringere, soffocare o tenere a terra con forza; lancio di un oggetto verso un altro bambino da una distanza di almeno 30 cm.

Ciascun bambino fu osservato per 2 minuti. Periodo diviso dagli osservatori in 24 intervalli di 5 secondi ciascuno. La presenza di uno o più di questi comportamenti all’interno di un intervallo di tempo aggiungeva al punteggio di aggressività del bambino 1 punto.

Il confronto finale fra le risposte comportamentali dei due gruppi fu eseguito per coppie. Ciascuna coppia era formata da due bambini simili (per caratteristiche di personalità), uno appartenente al gruppo sperimentale, l’altro al gruppo di controllo. L’entità delle risposte comportamentali dopo l’esposizione fu confrontata con quella degli stessi comportamenti osservati prima dell’esposizione: le osservazioni precedenti l’esperimento hanno consentito di individuare una misura di base dell’aggressività fisica interpersonale che è stata usata in seguito come punto di riferimento per valutare le eventuali variazioni del comportamento dei bambini. Il confronto ha mostrato che durante le sessioni di base la differenza massima nella frequenza dei comportamenti aggressivi fra i bambini del gruppo di controllo e quelli del gruppo sperimentale era di soli 3 punti (la differenza media era dunque ancora più bassa), mentre la stessa differenza osservata dopo l’esposizione alle 11 sessioni di trattamento (in cui, ricordiamo, i bambini del gruppo di controllo hanno visto filmati non aggressivi mentre quelli del gruppo sperimentale ne hanno visti di aggressivi) raggiungeva gli 11 punti.

Tali risultati mostrarono dunque un incremento notevole della produzione di comportamenti aggressivi nei bambini del gruppo sperimentale. Ciò suggerisce che il trattamento televisivo abbia influenzato il cambiamento.

Questo studio consente dunque di estendere i risultai del precedente dal comportamento in solitudine a quello di gruppo, dimostrando che la violenza televisiva determina un aumento dell’aggressività non solo verso oggetti inanimati, come fantocci o pupazzi, ma anche verso altre persone. 

4) Effetti dell’esposizione ad un modello aggressivo e ad una frustrazione sul comportamento aggressivo dei bambini”, Khun, Madsen, Becker 

La ricerca ha coinvolto 80 bambini prescolari dell’età media di 4 anni e 2 mesi, equamente suddivisi fra maschi e femmine. I bambini sono stati destinati a 4 condizioni sperimentali:

Gruppo1.I soggetti furono esposti ad una frustrazione: i bambini furono condotti uno alla volta nel laboratorio dove fu detto loro che in una stanza vicina avrebbero visto un film e poi ricevuto delle caramelle. Dopo il film, a contenuto neutro, questi bambini non ricevettero le caramelle attese (il ricercatore disse loro che non le meritavano perché non avevano prestato sufficiente attenzione al film) e furono riportati in laboratorio e osservati giocare per 5 minuti con dei giocattoli.

Gruppo2. I soggetti videro un filmato con modelli aggressivi. Ai bambini fu detto che avrebbero fatto qualcosa con un ricercatore e poi ricevuto delle caramelle. Furono condotti dal laboratorio alla sala di proiezione dove videro il film contenente modelli aggressivi (un adulto ritratto in atteggiamenti aggressivi verso una bambola) e quindi ricevettero le caramelle promesse. Tornati in laboratorio anche questi furono osservati giocare per 5 minuti.

Gruppo3. I soggetti furono esposti prima al filmato violento poi alla frustrazione:come i bambini del gruppo precedente anche questi videro il filmato violento ma a differenza dei precedenti non ricevettero le caramelle. Ricondotti in laboratorio giocarono 5 minuti sotto lo sguardo attento, ma nascosto, dei ricercatori.

Gruppo4. I soggetti del gruppo di controllo non furono esposti a modelli aggressivi né subirono frustrazioni. I bambini videro un film a contenuto neutro e poi ricevettero le caramelle. Una volta ricondotti in laboratorio anche questi furono osservati durante il gioco.

I risultati dello studio sono stati confrontati con i dati desunti dalle osservazioni del pre-test, con cui i ricercatori misurarono il livello di aggressività di base dei bambini.

Ipotesi di ricerca:

1) L’esposizione ad un modello aggressivo determina nei soggetti esposti l’aumento dell’aggressività verso oggetti inanimati (giocattoli).

2) L’esposizione ad un filmato aggressivo seguito da una frustrazione intensifica la risposta aggressiva.

3) La frustrazione senza una precedente esposizione ad un modello aggressivo è produce poca o nessuna aggressività, dal momento che il bambino non impara risposte aggressive se non gli sono prima mostrate.

Risultati

L’osservazione del comportamento dei bambini dopo il trattamento ha mostrato che l’aumento dell’aggressività si è verificato solo nei bambini del 2^gruppo esposti al filmato violento ma non alla frustrazione. L’ipotesi che la frustrazione avrebbe intensificato la risposta aggressiva dei bambini non ha trovato evidenza. Contrariamente alle previsioni i bambini che hanno subito la frustrazione hanno mostrato livelli di aggressività addirittura più bassi di quelli che hanno visto il filmato violento ma non l’hanno ricevuta.

Si è compreso in seguito che la frustrazione (intesa come ritardo nell’acquisizione del rinforzo atteso) interferiva con la produzione dei comportamenti aggressivi: presentata come rinforzo negativo e ritardo del rinforzo positivo (entrambi considerati eventi punitivi) la frustrazione ha inibito il comportamento aggressivo successivo. Risultato coerente con altri studi sulle punizioni che rilevano dopo le stesse una generalizzata inibizione delle attività successive.

5)“Children MediaWar”2003 Osservatorio Mediamonitor Minori.La Sapienza  

Premessa

Nelle settimane che hanno seguito lo scoppio del conflitto in Iraq, nella primavera del 2003, la guerra è entrata prepotentemente nell’immaginario dei più piccoli. Le notizie e le immagini violente raccontate dal piccolo schermo trovano infatti ampia risonanza nel vissuto dei bambini

Nei momenti di emergenza come questo i bambini, più di chiunque altro,  hanno bisogno che i genitori, gli insegnanti, gli adulti di riferimento in genere, li aiutino a decodificare i messaggi e le immagini trasmesse dalla tv, per contenere lo smarrimento e la paura di fronte ad eventi inattesi e terribili e per giungere a formulare una rappresentazione veritiera del conflitto e dei pericoli che esso comporta. .

Una conferma del forte impatto che la guerra ha avuto nell’immaginario dei bambini viene dalla ricerca condotta nella primavera del 2003 dall’Osservatorio Mediamonitor Minori diretto dal prof. Mario Morcellini, dell’Università La Sapienza di Roma, sul livello di percezione della guerra nei bambini.

La ricerca ha coinvolto 271 bambini (il 47% femmine e il 53%maschi) appartenenti a 11 classi di terza e quarta elementare.

Finalita’ della ricerca era di comprendere se e in che misura l’informazione mediata condizionava nei bambini i processi di costruzione e interpretazione della realtà. In altre parole, l’obiettivo dell’indagine era quello di verificare se l’informazione sulla guerra veicolata dai media influenzava la rappresentazione del conflitto nell’immaginario minorile.

Metodo:  La ricerca si è articolata in due fasi distinte:

1) La prima fase ha previsto lo svolgimento di un tema e di un disegno su quello che i bambini avevano visto e ascoltato in tv alla radio o sui giornali la sera precedente (senza alcun riferimento specifico alla guerra) e la compilazione di un breve questionario per verificare il loro livello di conoscenza della guerra (protagonisti, motivazioni, fonti di informazione).

2) La seconda fase ha previsto l’utilizzo di focus-group per approfondire e analizzare criticamente gli argomenti emersi dai temi e dai questionari e gli elementi ricorrenti nei disegni.

I Risultati della ricerca hanno dimostrato che la fruizione della tv influenza nei bambini la costruzione di una personale rappresentazione della guerra. Tale influenza si palesa a livello dei contenuti, trasferiti dallo schermo alle ricostruzioni dell’evento,  ma anche a livello tecnico-narrativo. Immagini di case bombardate, aerei che precipitano sui palazzi, giornalisti che rischiano la vita fra le bombe che cadono dal cielo e le mine nascoste sulla terra, sono legate in sequenza come fossero i vari piani di un film. Un collage di immagini che ricorda la tecnica del montaggio televisivo. E poi ancora scritte in sovrimpressione, uso di loghi, fumetti, frasi in inglese e, con un po’ di fantasia, accenni in arabo 

Un impatto così forte sull’immaginario infantile può produrre reazioni molteplici, legate all’età, alla personalità del bambino e alle sue esperienze precedenti.

I più piccoli, in età prescolare, mostrano le maggiori difficoltà nel  distinguere tra realtà e finzione, ovvero tra i fatti realmente accaduti e i pensieri, le fantasie, le interpretazioni che hanno vita solo nella loro mente. Ancora loro, i più piccoli, nell’approccio alla tv rivelano talvolta un abbattimento delle categorie spazio-temporali, giungendo a temere per sé qualcosa che è lontano nello spazio e nel tempo; in altre parole questi bambini faticano a concepire una distanza fisica e temporale fra gli eventi trasmessi dalla tv e la realtà in cui vivono. Frequente per loro è il timore che un aereo si abbatta contro la propria casa, o che questa sia distrutta da un bombardamento.

Per i bambini in età scolare, che hanno ormai acquisito la capacità di discernere fra finzione e realtà, le difficoltà, acuite in situazioni di forte stress, si manifestano come incapacità di elaborare in maniera autonoma i fatti, quindi di interpretare e spiegarsi gli eventi. Di fronte a situazioni nuove e indecifrabili questi bambini, disorientati, hanno bisogno di modulare le proprie reazioni e i propri comportamenti su quelli degli adulti di riferimento. Genitori e insegnanti rappresentano per loro dei modelli che danno indicazioni su cosa pensare, come reagire e come comportarsi. In questi casi comunicare ansia e senso di precarietà non fa che trasferire al bambino questi stessi sentimenti.

A differenza dei più giovani, gli adolescenti hanno acquisito le competenze cognitive necessarie per affrontare eventi tragici e violenti come le guerre e gli attentati terroristici, ma non sempre sono in grado di gestire autonomamente la paura e la confusione che da tali eventi scaturiscono. Anche loro dunque hanno bisogno del confronto e del sostegno emotivo degli adulti.

Indipendentemente dall’età, la scelta di comunicare agli adulti le proprie paure non è tuttavia così scontata. Alcuni bambini comunicano apertamente i vissuti di angoscia, in genere associati al pericolo di una guerra in casa propria o alla partecipazione alle vicende di chi la guerra la vive in prima persona, ed esplicitano all’adulto il bisogno di spiegazioni e rassicurazioni. La possibilità di parlarne consente loro di tenere sotto controllo la situazione e, in un certo senso, di esorcizzare la paura del conflitto.

Altri, invece, vergognandosi dei propri sentimenti, si chiudono nella solitudine e nel silenzio, costringendosi, nel confronto  con una realtà che appare incomprensibile e incontrollabile, ad una lotta tutta interiore con una paura a cui apparentemente non c’è soluzione.

Altri ancora appaiono insensibili di fronte alle notizie e alle immagini di guerra, non lasciando trasparire alcuna emozione. Si tratta in questi casi di un meccanismo di difesa messo in atto dal bambino allo scopo di allontanare da sé quegli stimoli percepiti come eccessivamente ansiogeni o disturbanti.  

Variabile è anche lo stile di fruizione dei media nei periodi di allarme conseguenti alle guerre e agli attentati. Mentre alcuni bambini mostrano interesse e desiderio di approfondire il problema della guerra, altri manifestano un atteggiamento di rifiuto.

  • I primi cercano di far fronte all’ansia che nasce dalla percezione del pericolo raccogliendo informazioni dalla tv e dai giornali, ma anche dal confronto con gli adulti di riferimento e coi coetanei.
  • I secondi tentano di escludere dalla propria esperienza tutto ciò che, in quel preciso momento storico, rimanda al tema della guerra.

In entrambi i casi, tuttavia, sembra essere proprio la tv a dare ai bambini la notizia del conflitto. Guardando ancora ai dati forniti dall’Osservatorio Mediamonitor Minori, si osserva come  l’84% dei bambini viene a conoscenza dell’evento-guerra guardando la tv. E’ nel piccolo schermo che, i più, vedono per la prima volta le immagini del conflitto e spesso, davanti a quello schermo, sono soli e “disarmati”.

L’intervento dell’adulto in questo momento appare fondamentale. Egli ha il compito di spiegare al bambino ciò che sta vedendo, aiutandolo ad interpretare le notizie e le immagini veicolate dalla tv. Impedire al bambino la visione di quelle immagini, dicono gli esperti, non è necessario. L’importante è attribuire loro un senso, dicendo la verità e utilizzando un linguaggio semplice e adatto all’età e alle capacità di comprensione del piccolo. Se l’informazione sul conflitto viene data dalla tv, alla famiglia e agli adulti di riferimento in genere spetta dunque il compito di mediare ai bambini questi contenuti, di filtrarli, spiegarli, approfondirli, interpretarli, negoziarne con loro il significato.

In questi momenti è necessario ascoltare attentamente i bambini, rispondere allo loro domande e chiarire i dubbi; rassicurarli sulla lontananza dell’evento e del pericolo per sé e per i propri familiari appare una delle priorità. Allo stesso modo è importante non banalizzare mai i loro sentimenti perché il sentirsi ridicoli e inadeguati a fronteggiare l’evento ne produrrebbe la chiusura e l’isolamento, amplificando il vissuto di angoscia. Altrettanto importante è prospettare al bambino un futuro in cui le guerre, le violenze e le ingiustizie del presente saranno solo un ricordo.

La fiducia in un futuro di pace, stimolando l’impegno al dialogo e al rispetto del diverso, si rivela tra i migliori antidoti alla paura. Una via d’uscita all’angoscia di oggi.

firerainbliss_exp2Space 2…aerei che cadono (servivano 150 morti per pensare che servano sempre 2 presenti?), navi, autobus, incidenti sul lavoro… morti silenziose da stress, tutto evitabile… alcune mie ricerche compaiono in Wikipedia in Inglese, alla voce Risk Management, gestione del Rischio. Se solo le aziende che mi hanno a 2 passi in Europa si accorgessero che i rischi si prevengono PRIMA che ci siano i morti e non dopo…. mi sto impegnando in un progetto sul Fattore Umano per la International Space Station e la NASA ma non occorre andare così lontano, il rischio è in ogni azienda, è ora di smettere di morire e iniziare a smettere di intervenire senza aspettare che tante famiglie debbano piangere… https://en.wikipedia.org/wiki/Risk_management

Nach der Hamburg-Wahl - CDUchi-france-plane-crash-20150325

estratto selezionato da Vincenzo Scichilone http://www.horsemoonpost.com/2015/03/27/sulle-alpi-della-provenza-sinfrange-il-falso-mito-della-perfezione-tedesca-la-germania-cambi-passo-in-europa/

“Inimmaginabile, perché infrange un mito contemporaneo: la perfezione tedesca.

Chi avrebbe infatti potuto immaginare che la compagnia aerea con “i migliori piloti al mondo”, secondo il Ceo di Lufthansa Carsten Spohr, si potesse macchiare di gravissime negligenze in vigilando, di violazioni pesanti delle norme che regolano la sorveglianza sanitaria del personale di volo e di sottovalutazione dei rischi?

Lubitz non avrebbe potuto volare perché soffriva di una grave forma di depressione. Lo hanno scoperto oggi gli inquirenti tedeschi, rivoltando come un calzino la vita – e le abitazioni – del criminale copilota del volo 4U9525, assassino seriale. Un tizio che un aereo non avrebbe mai dovuto condurlo.

Lubitz era affetto da una grave patologia psichiatrica: ha fallito pure tutta la filiera della sorveglianza medica, che non ha provveduto a comunicare il reale stato di salute del giovane tedesco alla compagnia aerea.

Lubitz aveva patito la sofferenza della rottura di un fidanzamento e l’annullamento di un matrimonio: Lufthansa sapeva, ma non ha usato la razionalità per minimizzare i rischi e per evitare che si trasformassero in un danno massiccio e intollerabile, doloroso, lancinante, foriero di rabbia.