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entropia comunicativa

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Copyright. Articolo estratto dal libro “Direzione Vendite e Leadership. Coordinare e formare i propri venditori per creare un team efficace” di Daniele Trevisani, Franco Angeli editore, Milano. Pubblicato con il permesso dell’autore.

La qualità comunicativa

La qualità comunicazionale nei gruppi orientati agli obiettivi parte dalla qualità nella definizione stessa degli obiettivi e dei goal. Obiettivi e goal imprecisi producono demotivazione e scarsa stima verso chi li formula, e favoriscono la nascita di climi comunicativi dispersivi.

Una fonte di grandi malintesi e climi organizzativi disastrosi è la permanenza di attese latenti e non esplicitate (nel leader), le quali emergano solo a posteriori. Uno dei principi essenziali della qualità dei climi comunicativi è la trasparenza della comunicazione, delle intenzioni e delle attese.

Per quanto concerne gli obiettivi, la loro caratteristica più rilevante è quella di essere ancorati a un percorso che il soggetto possa comprendere.

Secondo una sequenza classica di management, i goal individuali devono correlarsi a quelli del gruppo di lavoro, e a risalire a quelli del dipartimento o settore aziendale, ma anche ai valori, alla visione e alla missione dell’azienda.

Relazioni tra qualità del goal e qualità della comunicazione nel gruppo

Se un gruppo agisce su variabili confuse, poco chiare, produrrà risultati confusi. Analizziamo alcuni punti essenziali della qualità dei goal in relazione ai climi comunicativi.

Per quanto concerne i goal, le caratteristiche più importanti vengono spesso definite dall’acronimo SMART. Secondo la procedura SMART (iniziali delle seguenti caratteristiche), un goal deve essere:

•      Specific, specifico.

•      Measurable, misurabile.

•      Achievable, raggiungibile.

•      Relevant, alta rilevanza percepita.

•      Timely, assegnato per tempo, al momento giusto.

Fattore Specific, specifico

La specificità del goal consiste nell’applicare la “cultura dei confini” alla definizione del goal stesso. “Aumentare le vendite” non è un goal veramente chiaro, poiché non è chiaro dove debbano essere aumentate, su quali prodotti (tutti, alcuni, uno solo), in quali tempi (domani, entro un biennio, entro un trimestre), e se vi sia qualche indicazione o meno sul come (realizzando sconti, aumentando la pubblicità, formando meglio il personale di vendita, cambiando target di clienti, cambiando prodotti?).

Un punto di arrivo per qualsiasi team leader è avere persone che mettano la propria motivazione e intelligenza su come raggiungere un goal senza che debbano essere “programmati” come automi. Questo a patto che:

  • il team leader stesso chiarisca che si attende questo da loro (comunicazione esplicita di aspettative e regole di vita del team);
  • il leader applichi concretamente i dovuti gradi di libertà nel team, permettendo alle persone di sprigionare idee anziché soffocarle.

Fattore Measurable, misurabile

Un goal deve essere chiaro nella sua “portata”, in caso contrario ha poche probabilità di agire come motivatore attorno al quale far ruotare azioni pratiche. “Aumentare le vendite” può significare sia farle crescere dello 0,2 % in un anno, che raddoppiarle o triplicarle entro sei mesi.

La misurabilità si applica anche ai goal immateriali, inerenti agli obiettivi meno tangibili, quali “far crescere le capacità e abilità del gruppo”.

“Dovete diventare più bravi” è un goal poco misurabile, mentre “Paolo deve passare da intermediate ad advanced nella certificazione sul programma SPSS per le ricerche di mercato” è un goal più misurabile.

Allo stesso modo “Voglio un sito web più tecnologico” sottende tutto e nulla, mentre il goal può essere riformulato per dare più misurabilità e concretezza: “Vorrei avere nel nostro sito alcune possibilità in più di vedere come lavoriamo, l’ho già visto in un sito della concorrenza. Sandra deve riuscire a produrre almeno un filmato visionabile sul sito web, in cui si veda il processo produttivo (nel primo semestre), e almeno un modello navigabile in realtà virtuale di un nostro prodotto (nel secondo semestre)”.

Notare che anche nel secondo passaggio è presente un potenziale “seme di dis-ecologia o entropia comunicativa”, poiché il manager potrebbe avere in mente un preciso prodotto (per esempio: un giunto meccanico) mentre Sandra potrebbe capire, in base al goal, che è libera di scegliere su quale prodotto applicarsi.

Fattore Achievable, raggiungibile

“Imparate a memoria questo libro entro domani” è un ottimo esempio di goal irraggiungibile. I goal irraggiungibili hanno la proprietà di spronare verso il risultato solo persone dotate di poco senso di realtà.

Il migliore suggerimento che si può fornire a un livello estremamente basilare di management è che un goal deve possedere elementi sfidanti ma raggiungibili. E la parte irraggiungibile, deve diventare raggiungibile solo a patto che siano dati gli strumenti di formazione e promozione adeguati.

Fattore Relevant, alta rilevanza percepita

I goal, per essere tali, devono essere rilevanti, importanti, qualcosa per cui vale la pena darsi da fare.

Un goal che viene percepito come inutile all’organizzazione rischia di venire vissuto come un semplice adempimento formale, senza che si capisca per cosa si sta lavorando e verso quale direzione.

La comunicazione interviene in questo punto sotto il profilo della creazione di una connessione forte tra vision e goal.

Un goal che non ha rilevanza sullo sviluppo dei propri interessi ha una probabilità minore di ottenere commitment (impegno personale) rispetto a un goal nel quale il soggetto individua un’occasione di crescita.

Sotto il profilo manageriale è invece importante, per il leader, saper costruire un mix adeguato di goal.

Nel management, non è possibile creare goal semplicemente per soddisfare le ambizioni dei singoli: azioni che puntano esclusivamente al piacere del collaboratore, possono esserci ma devono essere considerate tempi di “ricarica”.

Aziende che ascoltano solo i bisogni dei collaboratori e non dei clienti non hanno molta possibilità di rimanere in piedi a lungo.

Le paure da eliminare sono le “minacce di oppressione” che la leadership comporta: il leader deve apprendere anche a fare i conti con decisioni impopolari, assegnare goal e task che non corrispondono ai desideri del collaboratore, forzare la linea di azione verso la direttrice che ritiene più opportuna alla luce delle sue esperienze.

Fatto ogni sforzo di condivisione, rimane il dovere di assumersi la responsabilità dell’autorità e dell’imposizione dall’alto quando la condivisione non sia possibile. 

Fattore Timely, assegnato al momento giusto

La variabile “tempo” è essenziale, per due grandi motivi:

  • un goal assegnato con troppo anticipo non produce interesse e attivazione. I sistemi mentali del soggetto sono impegnati su altri fronti e si rischia la “caduta nel dimenticatoio” dove finiscono tanti progetti aziendali e personali;
  • un goal assegnato con troppo poco tempo a disposizione per organizzarsi è segnale di disorganizzazione del leader, e genera overload (sovraccarico) sul collaboratore, contribuendo a creare un clima di malessere.

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© Articolo estratto con il permesso dell’autore, Dott. Daniele Trevisani dal libro “Ascolto Attivo ed Empatia. I segreti di una comunicazione efficace. Milano, Franco Angeli

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Restando sempre all’interno dell’area tematica dell’ascolto attivo, introduciamo le domande potenti, che possono essere utilizzate per analizzare interiormente l’interlocutore, oltre che noi stessi, e per capire la sua rete relazionale.

Mentre ascoltiamo sappiamo che ogni parola o frase non esiste da sola, ma si inserisce in reti e nodi mentali preesistenti, che vengono toccati (sollecitati) dalla comunicazione. 

  1. Ogni messaggio che tocca un nodo di una rete di significati stimola i significati vicini ad essa
  2. I messaggi che attraversano le reti cognitive e i sistemi di credenze dell’individuo possono modificare la struttura della rete stessa

Le domande potenti, quelle che scavano nel profondo, possono cambiare la mente. Non solo possono dare luce ai mondi interiori delle persone, ma possono cambiarle agendo sull’incremento della consapevolezza del cliente. È sufficiente avere il permesso di farle, o la richiesta, come avviene nelle sessioni di psicoterapia. 

Alcune domande potenti sono qui portate ad esempio, ma vanno usate con intelligenza, con il permesso di farlo e con pratica professionale: 

  1. Da quanto tempo non ti senti felice? 
  2. Che atmosfera si vive a casa tua? 
  3. Cosa credi sia possibile e cosa credi che sia impossibile nella tua vita? 
  4. Che fase è questa, nella tua vita? 
  5. Con cosa non hai ancora fatto i conti nella tua vita? 
  6. Cosa dà senso alla vita per te? 
  7. Tra quanto tempo vorresti sentirti felice? 
  8. Qual è la cosa peggiore che nella tua vita non deve capitare? 
  9. Quali sono stati i momenti peggiori della tua vita?  
  10. Perché siamo arrivati li? 
  11. Da quanto tempo non ti senti spensierato? 
  12. Con chi ti senti bene? 
  13. Quando ti senti bene? 
  14. Quali sono le persone che ti danno energia e quelle che te ne tolgono? 
  15. Ti senti capace nel programmare il tuo futuro?  
  16. In genere programmi qualcosa nella giornata, settimana, mese, anno, più anni, mai? 
  17. Qual è l’offesa più mortale che potrebbero farti? 
  18. Cosa rappresenta per te un rifugio esistenziale, quel posto dove vai a curare te stesso? 
  19. Cosa vorresti fare nella vita prima di morire, cosa non vuoi dire di non aver provato, o fatto? 
  20. Come ti senti in presenza di X? (dove X è una persona significativa) 

Alcune di queste domande possono essere compiute con tecniche speciali di training mentale, ad occhi chiusi, da distesi, ma questo richiede un tipo di formazione speciale, in quanto la profondità nella lettura di sé stessi, in quella condizione, aumenta, e aumentano anche le risposte emotive, incluse emozioni che portano al pianto, alla rabbia, alla sofferenza, alla gioia. 

Per saper gestire queste reazioni occorre un training speciale, come minimo una scuola di counseling o di coaching avanzato. 

Far uscire queste risposte e le emozioni che le accompagnano fa bene, poiché rompe la “Spirale del Silenzio”, che come un morbo attanaglia persone, aziende e organizzazioni, sino ad intere società. 

Il network cognitivo è l’insieme dei concetti, idee e pensieri che portiamo con noi. 

Dietro ad ogni decisione ci sono “suggeritori occulti”, persone la cui reazione viene immaginata e anticipata, per capire se un sì o un no possono urtare gli equilibri relazionali e mentali esistenti. Es. Cosa avrebbe detto mio padre di fronte a questa scelta? (o qualsiasi altro referente mentale attivo nella mente della persona). 

Un ascolto attivo e avanzato cerca quindi di capire quale sia il network umano che sta dietro alla persona, le persone che la influenzano, il quale può emergere sempre attraverso l’uso di domande potenti come:

  • Secondo lei chi dovremmo coinvolgere in questa decisione?
  • Chi può essere dispiaciuto o rallegrarsi di questa decisione o scelta?
  • Di chi ti piacerebbe avere l’approvazione se fosse possibile averla?
  • In caso di bisogno economico, su chi pensi potresti contare per un aiuto? 
  • In una situazione di bisogno materiale, ad esempio rimanere a piedi con l’auto, chi chiameresti per avere un primo aiuto? 
  • Chi sono le persone che vedi di più
  • Di chi ti fidi in questa fase della tua vita? 
  • Chi ha deluso le tue aspettative? 
"Ascolto Attivo ed Empatia" di Daniele Trevisani

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© Articolo estratto con il permesso dell’autore, Dott. Daniele Trevisani dal libro “Ascolto Attivo ed Empatia. I segreti di una comunicazione efficace. Milano, Franco Angeli

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Nell’articolo di oggi parleremo delle “Means-End Chains“, o “catene mezzi-fini“, strategia che ha l’intento di scavare a fondo nel sistema di credenze dell’interlocutore per poter comprendere le motivazioni che si nascondono dietro alle parole, ai comportamenti e agli atteggiamenti.

Le convinzioni sono il motore del comportamento. Le convinzioni, o credenze, possono essere utili (es, se mangio frutta e verdura mi farà bene) o letali (es, vado forte in auto tanto a me non succederà niente). 

Ascoltare le credenze significa setacciare l’ascolto andando alla ricerca delle convinzioni (beliefs, credenze radicate o periferiche) di cui la persona è portatrice. Le credenze sono in parte consce, ma in larga parte inconsce e non espresse, non verbalizzate. 

Come un vento vorticoso, le credenze attorniano le persone e non gli offrono spazio per guardare oltre. Se guardo una persona sollevare un attrezzo (un peso), penso che non abbia altro da fare che farsi del male, o cerco di comprendere e capire perché lo fa. Molto probabilmente quel gesto meccanico, nella sua visione delle cose, ha il fine di stimolare il muscolo, bruciare grassi, ottenere migliore forma fisica e quindi piacere di più, fino ad auto-accettarsi di più. Benvenuti, siamo in una palestra. Adesso quel gesto fisico assume un senso, o almeno una parte del senso totale. Difficilmente, però, se chiediamo a questa persona cosa stia facendo, dirà: “voglio essere più seduttivo e auto-realizzato”. Molto più probabilmente risponderà: “sto facendo palestra, per stare in forma”. Possiamo quindi dire che dietro ad ogni parola (mezzo), o azione che osserviamo, esiste un fine che possiamo scoprire. La Means-End Chain (catena mezzi-finalità) è il meccanismo basilare attraverso il quale si crea un valore. 

Vediamo un’analisi svolta relativamente al prodotto “yoghurt magro”. 

La catena esposta nella figura vede presenti diverse “promesse” (sulla destra), che il cliente percepisce, associate ad altrettanti “stati” del prodotto (sulla sinistra), sino al punto in cui si trasformano in valori. 

Notiamo: 

  1. un attributo concreto (concrete attribute: bassa percentuale di grasso); 
  1. un attributo più intangibile e derivato, ad esso collegato (abstract attribute: meno calorie); 
  1. delle conseguenze funzionali (functional consequences: un dimagrimento); 
  1. conseguenze psicosociali (psychological consequences: superiore accettazione sociale); 
  1. valori strumentali (instrumental value: maggiore fiducia in se stessi – aumento della self confidence o fiducia in sè); 
  1. I valori terminali e più profondi dell’individuo (terminal values): l’incremento del grado di autostima (self-esteem). 

L’analisi delle Means-End Chains ci illumina su un punto critico: ascoltare le parole, di per sé non significa nulla, finché esse rimangono scollegate da sfere semantiche (aree di significato) ed emozioni che vi stanno dietro.  

Servono almeno 5 “Perché?” per arrivare ad un valore terminale. E spesso di più. 

Le catene mezzi-fini sono anche fondamentali per fare domande in profondità, in un approccio di ascolto attivo. 

Il basso contenuto di grasso di uno yoghurt non è positivo o negativo, può essere entrambe le cose: per un muratore cui servono le energie necessarie ad affrontare un lavoro faticoso, il basso potere calorico è assolutamente negativo, mentre per una modella farcita di immagini mentali di magrezza, ossessionata a mantenere la linea, rappresenta un elemento positivo. La catena sopra esposta può essere una delle diverse catene in azione che creano valore semantico del prodotto, ma soprattutto, è soggettiva. Possiamo anche sbagliare nel comprenderla, soprattutto quando cerchiamo di completarne i nodi con le nostre personali credenze. 

Saper ascoltare in profondità significa arrivare a capire il perché le persone fanno ciò che fanno, e quindi arrivare a capire le loro catene mezzi-fini. Finché non capiamo le catene mezzi-fini attive, non riusciremo mai a guidare una persona in un cambiamento, perché siamo come barche che cercano un’isola circondate da una coltre di nebbia. Ascoltare le catene mezzi-fini significa invece fare luce sui motivi dei comportamenti. Questa tecnica è anche fondamentale per “coltivare motivazione” all’interno di sessioni di coaching, e scatenare la motivazione verso obiettivi positivi. Perché le domande, quando sono attive e in profondità, non sono mai neutre verso il destino. Le domande cambiano le persone. 

"Ascolto Attivo ed Empatia" di Daniele Trevisani

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Oggi ci concentreremo sui 3 errori più comuni che di solito vengono fatti durante la fase di ascolto.

Vista la complessità e varietà di casi e situazioni, è normale aspettarsi che quando facciamo una domanda o ascoltiamo, la mente sia aperta a qualsiasi informazione entri. In realtà possono succedere i seguenti errori prevalenti.

Ascoltare solo per avere conferma di avere ragione. Questioni di dissonanza cognitiva in noi e nel cliente

Questo tipo di ascolto è denominato “ascolto confermativo”, poiché l’obiettivo è solo quello di cercare la conferma di avere ragione, di essere nel giusto. 

Questo ascolto fa scartare molte delle informazioni in ingresso, e soprattutto non fa cogliere quei segnali dubitativi che le persone lanciano tramite micro espressioni, gesti corporei e segnali dei muscoli facciali che possono comunicare disapprovazione, disgusto, o sorpresa. 

È confermato che le persone evitino accuratamente di esporsi a fonti informative che possano disturbare i propri equilibri cognitivi, e portare dissonanza cognitiva.  

La dissonanza cognitiva è un concetto introdotto da Leon Festinger e usato prevalentemente in psicologia sociale per descrivere la situazione di elaborazione mentale in cui credenze, nozioni e opinioni su un certo tema entrano in contrasto tra loro. 

Certe volte preferiamo letteralmente non venire a conoscenza di qualcosa che andrebbe ad alterare ciò che pensiamo sia vero e giusto. 

Ascoltare le persone e le loro dissonanze cognitive è un esercizio fondamentale. 

Naturalmente, lo stesso vale per noi. Quando scopriamo una dissonanza cognitiva in noi, faremo bene ad esaminarla con un supporto professionale di coaching, counseling o terapia, perché “tenersi dentro” delle dissonanze è “tenersi dentro” confusione mentale, e anche dolore. 

Ascoltare utilizzando solo il proprio filtro di opinioni e valori senza accettare che ve ne possano essere altri  

Ascoltare con pregiudizio è un passo di partenza sbagliato. Io chiamo questo tipo di ascolto “ascolto filtrato” ed è normale che accada: quando sentiamo una notizia, la valutiamo in base ai nostri filtri valoriali.  

Quello che è sbagliato, nell’ascolto attivo, è pensare che la persona che stiamo ascoltando abbia esattamente i nostri filtri valoriali, e le stesse nostre mappe mentali, dando per scontate le sue risposte, e adombrandoci quando non assomigliano per niente a quelle che avremmo dato noi. L’ascolto attivo deve essere neutro. 

Nel flusso di comunicazione che stiamo ascoltando, inevitabilmente qualcosa che la persona dirà va contro alcune delle nostre opinioni, persino contro alcuni dei nostri valori, o addirittura è contrario a qualcuno dei nostri principi più solidi.  

Appena questo “contrasto” emerge, rischiamo di irrigidirci e smettere di ascoltare. È fondamentale invece per un ascoltatore avanzato, saper “sospendere il giudizio”, ascoltando tutto il flusso comunicativo.

Ascolto in Cloud 

Partecipare all’ascolto significa sospendere la nostra ruminazione mentale e praticare la presenza mentale, portare la nostra mente “li”, nell’ascolto. Significa ascoltare e basta, spegnendo ogni altro pensiero. 

L’ascolto nella nuvola mentale o ascolto “in Cloud” è invece un ascolto che si pratica mentre la mente si perde in altri pensieri e si deconcentra.  

Consiste in sostanza nel lasciare che l’ascolto rimbombi nella propria testa. È normale che mentre ascoltiamo si aprano pensieri, ricordi, riflessioni. Altrettanto normale è che si creino riverberi interni su quanto ascoltiamo, e altri pensieri.  

Tutti questi pensieri possono formare una “nube” che arriva ad assorbire completamente la nostra attenzione. In questo modo la nostra attenzione diventa auto-centrata, cioè diretta solamente verso noi stessi, perciò, anche se l’altro “emette” parole, queste non entrano realmente nella nostra mente, diventando puro rumore di fondo.  

Questo “ascolto in cloud” o ascolto nella nuvola, può e deve essere spezzato: 

  • da momenti di breve riformulazione (quindi eri a Roma, giusto?);  
  • da domande (in che zona di Roma?);  
  • da momenti di ricapitolazione (Se ho capito bene la storia è andata così…);  
  • da gesti non verbali del capo (come, per esempio, cenni che facciano intendere all’interlocutore che abbiamo capito);
  • da brevi punteggiature para verbali (es, ah, uhm, ok).

Fondamentale è l’assenza di rumori di fondo, di distrattori come televisione, telefoni, chat, e altri elementi di disturbo. È anche possibile dire apertamente “mi sto perdendo, hai parlato di Davide, e poi?” 

Possiamo dire senza ombra di dubbio che la base di una comunicazione in stato di cloud sia il caos, il non capirsi, il disordine mentale, lo stato di entropia comunicativa.

Da questa base di partenza, l’ascolto attivo agisce per inserire maggiore ordine informativo, estrarre informazioni, dati, segnali, emozioni, e coordinarle per trarvi significato. Un lavoro non da poco.

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Avere una mente plastica, ripulire se stessi internamente per creare un messaggio chiaro, riflettere sulla distanza referenziale e su quella dei codici comunicativi, sono quattro passi fondamentali da compiere per combattere e ridurre l’incomunicabilità, causa di conflitto sia quotidiano, che globale.

Menti rigide e menti plastiche

Ogni informazione nuova in ingresso in un sistema modifica l’intera mappa e architettura di quel sistema. Questa dinamica dà luogo alla “plasticità mentale”. Una persona mentalmente “plastica” si concede di cambiare idee o opinioni in base ai dati e informazioni che conosce, progredendo nel cammino della vita, ed è aperta a nuove informazioni, anzi, ne va spesso alla ricerca. Una persona mentalmente rigida ha grosse difficoltà ad accettare un’informazione che non si conforma alla propria mappa mentale esistente, e vi resisterà a qualsiasi costo e contro ogni dimostrazione. 

È molto più facile trovare incomunicabilità in una mente rigida che in una mente plastica, in quanto la mente plastica si adopera per trovare vie di comprensione, anche dove non ve ne siano ancora. Trattare solo con menti rigide ci obbliga invece a entrare nei loro schemi rigidi o a doverci, giocoforza, ritirare. 

Ma, senza cercare colpevoli esterni, proviamo a partire da noi stessi, dal nostro dialogo interno. 

Creare un messaggio chiaro ripulendo noi stessi

Quando una persona ha fatto un buon lavoro di pulizia interna, il suo messaggio diventa chiaro anche fuori. Sarà quindi un messaggio a basso livello di entropia comunicativa,  liberato dal caos informativo e poco soggetto a misinterpretazioni.  Al lato opposto troviamo invece i messaggi entropici dotati di un alto livello di confusione interna. 

Una buona interpretazione avviene quando ci sforziamo di non ascoltare e osservare solo gli atteggiamenti o i “segni” esterni, ma cerchiamo di comprendere le credenze e i valori più profondi di una persona. 

Le nostre distanze ideologiche possono essere infatti solo periferiche o profonde, nascoste ben oltre i segni esterni di cui siamo portatori. Un vero lavoro sull’incomunicabilità va alla ricerca di questi strati profondi e non si accontenta della superficie delle cose. 

La distanza referenziale

La D4, o distanza referenziale, ci parla delle differenze tra i nostri referenti, le nostre realtà vissute. In semiotica il referente è quel tratto di realtà con cui io sono a contatto e che sto esperendo, qualcosa di cui sto facendo esperienza diretta, o tramite il pensiero o tramite i miei sistemi sensoriali.

Fare “outing” dei nostri referenti interni, dei nostri pensieri, che siano ben formati o solo sfumati, è una forma di comunicazione molto raffinata, una comunicazione in cui cerchiamo di portare fuori il nostro puro pensiero e le nostre pure emozioni come noi le esperiamo, come noi le viviamo in modo diretto. 

Questo “outing” è possibile solo quando due persone si mettono d’accordo nel farlo, e hanno le competenze comunicative per farlo.

La distanza dei codici comunicativi

Le distanze che riguardano i codici comunicativi (italiano vs. giapponese) possono essere collegate non solo ai codici, ma anche ai sottocodici, e possiamo scoprire un’incomunicabilità che è più subdola di quella che notiamo tra lingue diverse: ad esempio il sottocodice “mistico” si adatta molto male ad un pubblico che si aspetta una comunicazione pratica e pragmatica, o dura e assertiva. 

Tra una comunicazione “mistica” e una comunicazione “aggressiva” vi sono tanti gradienti intermedi, e possiamo imparare a fare delle “curve emotive” o una “comunicazione divisa in frames” in cui ogni frame ha un suo scopo e un suo stile, ma viene costruito in modo consapevole.

Il sistema della comunicazione umana è uno dei più complessi sistemi esistenti. Alcuni, di fronte a questa complessità, si abbandonano allo sconforto, altri rinunciano, altri ancora si armano di pazienza e buona volontà e cercano di capire l’incomunicabilità e di superarne ogni tratto possibile, senza per forza pretendere di sconfiggerla completamente. 

L’incomunicabilità è un processo che in larga misura può essere risolto, tanto più se il mondo della ricerca investisse su di esso almeno una frazione di quanto sta spendendo in altri campi dagli esiti molto meno impattanti, perché gli esiti dell’incomunicabilità partono dalla nostra vita quotidiana nelle sue minime azioni, per arrivare fino alle questioni più internazionali e globali. 

libro "Parliamoci Chiaro" di Daniele Trevisani

Per approfondimenti vedi: