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©Copyright. Estratto dal testo di Daniele Trevisani “Psicologia della libertà. Liberare le potenzialità delle persone”. Roma, Mediterranee. Articolo estratto dal testo e pubblicato con il permesso dell’autore.

Libertà del corpo (area bioenergetica)

Con il corpo si fanno i conti solo quando va male, si ammala, o una parte di esso smette di funzionare bene. Cambiare la cultura del corpo per manager è fondamentale, per lavorare meglio, per vivere meglio, per essere migliori

La cultura dell’abitare in un corpo cui dai “attenzione” è stata persa man mano che il lavoro si è spostato sul piano intellettuale. Si crede, erroneamente, che un compito come essere manager sia un compito della mente, dimenticando che è un compito ampiamente dipendente dalle energie corporee a disposizione. Provate a dirigere con attenzione una riunione avendo mal di testa, e capirete immediatamente quanto questo sia vero. Vi è poi un altro capitolo, quello dell’effetto che ha un corpo forte e sano sull’auto-immagine. L’assertività e la pacatezza di un corpo sano e forte sono un connubio assoluto. La malattia o un corpo debole portano sempre con sè anche disturbi dell’umore, sino a vere e proprie distorsioni della personalità

La libertà del corpo è qualcosa che si conquista. Persino imparare a camminare, o a mangiare da soli, è una conquista e deve essere letteralmente “imparata”. 

Se poi vogliamo essere liberi di correre o fare sport impegnativi, allora è davvero il caso che per ottenere questa libertà, mettiamo il corpo, il nostro corpo, al centro di un serio piano di allenamento, alimentazione, recupero, e lo trattiamo come macchina delicata, evitando di romperlo. 

Qui diventa fondamentale distinguere tra stimoli allenanti (un buon allenamento, anche duro, e progressivamente impegnativo, fa bene) e stress inutili (intasarsi di smog, di stress relazionale, di climi tossici, non fa bene, mai).

La libertà corporea è condizionata dalle nostre credenze e abitudini sul funzionamento del corpo e del rapporto corpo-mente. Questo sfondo di conoscenze è spesso viziato da enormità di errori e informazioni dissonanti assorbite dalle fonti più disparate, riviste, media, amici, parenti.

Rispetto al corpo, esiste ogni tipo di atteggiamento e il suo contrario, per cui andiamo dai vegani che rifiutano ogni fonte di cibo legata agli animali (definendo il latte “sangue bianco”), ai fan delle proteine ad ogni pasto (mangio ogni cosa che abbia due occhi e un naso), dai fautori dello yoga del respiro ai praticanti di Mixed Martial Arts e dell’allenamento estremo. E non sto giudicando queste discipline, ne pratico parecchie. Ma è bene essere coscienti di cosa si fa con il proprio corpo e di quali effetti ne verranno. 

Per cui, spendiamo tempo a curare la nostra macchina corporea, alleniamola, curiamola, diamogli attenzione. Ci ripagherà!

Mai dare per scontato niente. Un buon coach, deve verificare eventuali squilibri sul piano corporeo e biologico che impediscono all’individuo di avere un corpo libero, flessibile, sano, e uno stile di vita in cui il corpo va usato, gli va fatta manutenzione, va curato, e non solo abusato.

La libertà è anche alzarsi sulle proprie gambe e avere un corpo che ti porti dove vuoi e non ti faccia da ostacolo o palla al piede. E per quanto la vecchiaia, gli handicap, le malattie, non aiutino, l’attenzione al corpo e il lavoro allenante ha sempre una sua dignità, in qualsiasi condizione si sia.

Libertà mentale (psicoenergetica)

La libertà psicoenergetica riguarda il pieno possesso delle nostre energie mentali e facoltà mentali. Quali facoltà? Ne cito solo alcune tra le migliaia individuabili:

  • resilienza psicologica e resistenza allo stress;
  • forza emotiva e connessione alla fragilità emotiva;
  • capacità di percezione;
  • capacità propriocettive (percezione dei propri stati interni);
  • capacità di analisi;
  • capacità di isolamento mentale (concentrazione focalizzata);
  • capacità di concentrazione sul task/compito;
  • capacità di focalizzazione;
  • capacità di ricentrare le energie mentali;
  • capacità di rilassamento;
  • capacità di meditazione;
  • capacità emozionali (intelligenza emotiva);
  • capacità di distanziare l’ansia;
  • capacità relazionali (es.: empatiche e assertive).

Quando siamo in pieno possesso della motivazione, della volontà, dell’attenzione, delle facoltà di percezione, siamo molto più pronti ad essere liberi o a diventarlo. Siamo in grado di recepire i segnali corporei, e le atmosfere umane.

Siamo più in grado di capire cosa ci nutre, cosa ci intossica, e intervenire.

Il lavoro comprende il conoscere come funziona la propria motivazione ed energie mentali interiori; tocca la libertà dall’ansia, dalle paure immotivate e inutili. 

Se non impariamo a filtrare i messaggi in ingresso, ad ancorarci a facoltà mentali con buona capacità di accedervi quando lo vogliamo, rischiamo di venire strattonati da ogni possibile persona che vuole influenzarci, vittime di ogni possibile gruppo o messaggio, sino ad ingolfare la mente ed entrare in dissonanza totale.

Libertà dalle “Emozioni parassite” e capacità di attivare una “Ginnastica delle Emozioni”

Lo scopo del metodo HPM sull’area psicoenergetica è che le emozioni siano vissute in armonia con i propri bisogni e desideri, e soprattutto che possano esserne un supporto, e non un peso. 

Le emozioni che l’individuo vive però a volte sfuggono di mano, diventano zavorra, anziché aiutare, possono impedirgli di realizzare sogni, bisogni e desideri. Ad esempio, potresti sentirti triste seppure accanto ad una persona con cui invece vorresti essere, oppure invaso da pensieri negativi, introversione e tristezza ad una festa, una festa dove desideri socializzare. Potresti vivere un convegno interessante e ricco di possibili incontri e scoperte come una serie di fastidi e obblighi.

La tristezza viene vissuta nel momento sbagliato e porta il tempo verso un crescente isolamento, In questo caso, la tristezza diventa un’emozione parassita.

Le emozioni parassite si presentano spesso unite a svalutazione di sè, a pensieri del tipo “non valgo”, non merito, non sono all’altezza e altre ruminazioni mentali negative. 

Nel metodo HPM ci occupiamo proprio di riconoscere e rimuovere questi stati, che non riguardano una “patologia” ma un bisogno di alfabetizzazione ai vissuti emotivi. 

Le tecniche utilizzate vanno dall’Emotional Detection (riconoscere l’emozione, grazie ad un lavoro di “Focusing”), all’Emotional Labeling (saperla denominare), Emotional Refraiming (saper sostituire uno stato emotivo con pensieri alternativi e positivi), Emotional Communication (saper comunicare i propri stati emotivi e condividerli con le persone giuste e i momenti giusti per non lasciarli macerare dentro). 

Tutto questo repertorio porta verso una “Ginnastica delle Emozioni”, di cui ho parlato già nel libro “Il Coraggio delle Emozioni”, e altro materiale verrà esposto in questo libro.

Libertà dei propri ruoli di vita

Vivere ha spesso l’obbligo sottostante di interpretare un ruolo. Medico, cantante, saldatore, giardiniere, studente di architettura, sportivo, padre, single, studente di scuola media, artista, leader, capitano, gregario. Sono tutti ruoli rispettabili. 

Il punto è: quando viene il momento in cui tu decidi il tuo ruolo? E quanto sei in grado di far convivere tra di loro più ruoli? Es. essere padre senza rinunciare ad essere sportivo ed evitare di cedere allo stile “lavoro-stress-mangiare-divano-tv-pancia”?

Come fare per trovare forme di autoregolazione tali che il desiderio di carriera non distrugga la famiglia e te? Intanto sappiamo che è possibile. Secondo, sappiamo che è materia di Life Coaching: trovare equilibri di vita, sperimentare, provare e riprovare senza paura.

Questo ha a che fare con le conoscenze su come si forma un ruolo e sul funzionamento delle proprie competenze di ruolo; credenze su come “si fa carriera”, su cosa significa progredire, avanzare, trovare se stessi in un ruolo.

Per ogni ruolo, esiste quello che è bene conoscere e quello che puoi fare a meno di conoscere. E nella vita, i ruoli si susseguono, non sono statici, e non devono mai diventarlo. La libertà, è anche libertà di cambiare ruolo.

Occorre liberare le idee su quanto si possa o non si possa incidere attivamente sul proprio futuro, su dove esso è o non può essere diretto o bloccato.

In questo campo il coaching è fondamentale per assistere la persona nel dotarsi di competenze indispensabili per costruire il proprio futuro anziché lasciarlo in mano al destino o alle volontà di altri. Vivere la propria vita a pieno significa anche acquisire i saperi, saper fare, e saper essere, che lo rendono possibile. Vivere con gioia un ruolo è un forte stato di libertà.

Libertà di esprimersi nei dettagli

Possiamo decidere di andare in profondità nelle cose anziché starne solo alla superficie? Questa è una forma interessante di libertà. Una “micro-libertà”.

Riguarda la libertà di appassionarsi a cose che altri giudicano futili, es fare modellini di auto in miniatura, o bonsai, o curare un giardino.

Esiste un grado di abilità nei dettagli di esecuzione, i possibili miglioramenti di esecuzione rispetto ad attività che la persona compie e in cui vuole migliorarsi; ad esempio, un coaching sulla respirazione durante il gesto sportivo, o in campo manageriale, migliorare le tecniche di apertura di un public speaking, imparare a riconoscere le micro-espressioni. Un buon coach sa capire e far emergere quali sono i dettagli lavorabili che possono aumentare l’efficacia della persona.

Maggiore è la nostra padronanza nei dettagli di qualcosa che per noi è importante, maggiore è il senso di autoefficacia, potenza e libertà esecutiva.

Libertà progettuale

Essere liberi significa anche saper realizzare progetti. 

Avere sogni che non si concretizzano mai e poi mai, non è vera libertà. Quando ve ne sono le condizioni, o impariamo a crearle, fare progetti diventa bellissimo e liberatorio. Un atto di espressività.

Dobbiamo quindi esaminare le nostre credenze sul tema della propria capacità progettuale, ampliamento della capacità di concretizzare un proprio progetto, tradurre un ideale in progetto.

Il coaching qui è veramente fondamentale per far passare un sogno da qualcosa di utopico ad un progetto realizzabile. Se sogno di dimagrire, un progetto concreto per dimagrire mi sarà di enorme aiuto, e qualcuno che mi segue diventa un mio compagno di viaggio. Se voglio esplorare i mercati asiatici, devo identificare gli step da compiere, e iniziare con step praticabili molto pratici. Non posso solo sognare di farlo.

La libertà di progetto è una “libertà pragmatica”, fatta di cose tangibili, di azione, di “chi fa cosa”, di gestione di risorse e dei tempi. Ma è creativa tanto quanto la pittura o la scultura. Così come la libertà di portare avanti un progetto “a modo nostro” senza dovere sempre seguire la tradizione.

Assagioli[1], un grandissimo scienziato Italiano vissuto negli USA, in un classico degli studi sul potere personale del “fare”, tuttora attualissimo, ci parla dell’ “Atto di Volontà” come forma suprema di espressione umana. Bene, quando questo atto si concretizza e passa dal “voglio” al “lo faccio, ci provo”, abbiamo fatto grandi passi avanti.

Libertà di valori e libertà ideologica. Come queste diventano libertà nei comportamenti di tutti i giorni

La libertà della persona di assumere sistemi di valori che sente propri, di cambiarli.  Esaminare il sistema di valori ritenuti importanti nella vita, priorità tra valori e eventuali aspettative divergenti. Si tratta di un esame delle ideologie, dei “credo” valoriali, delle scelte di fondo che ci possono rendere un’attività soddisfazione o sacrificio. In cosa credi? Cosa è importante per te? Cosa da senso alla vita? 

Questo tratto è il più difficile da far emergere, toccando le scelte esistenziali, il significato stesso dell’esistenza. Se però riusciamo a far emergere alcuni di questi elementi forti, essi possono costituire l’ancoraggio di qualsiasi motivazione al fare, al crescere al migliorarsi. Un faro che guida la persona nella nebbia e verso la libertà più vera.


[1] Assagioli, Roberto (1973). The Act of Will. Viking Press, NY. Trad it. L’atto di volontà, Roma, Astrolabio, 1977.

Altri materiali su Comunicazione, Ascolto, Empatia, Potenziale Umano e Crescita Personale disponibili in questi siti e link:

Altre risorse online


©Copyright. Estratto dal testo di Daniele Trevisani “Psicologia della libertà. Liberare le potenzialità delle persone”. Roma, Mediterranee. Articolo estratto dal testo e pubblicato con il permesso dell’autore.

Il confine corporeo della libertà

In questa ricerca di libertà, abbiamo un confine, il corpo, e questo limite fisico è anche una risorsa straordinaria.

Siamo menti che “abitano” un corpo, degli “embodied minds”, menti incorporate, creature viventi dotate di autocoscienza, cellule e atomi che miracolosamente prendono atto di esistere, e possono muoversi. Ma non per questo, automaticamente, diventiamo liberi. Ad esempio, non possiamo volare, né teletrasportarci.

Poniamo sul tavolo un’ipotesi di lavoro: la libertà è un sentimento vissuto, un sentire corporeo, una forma di dialogo interno, che ci dice che stiamo vivendo a pieno la nostra vita come la vogliamo e senza essere ingabbiati da forze subdole.

Attenzione. Non ha a che fare strettamente con catene, con mura, con “non libertà” fisiche molto ovvie come la prigione. Alcuni pensano che essere single sia un’enorme forma di libertà, altri lo vivono come una prigione (la prigione della solitudine e dell’isolamento). Lo stesso per l’avere famiglia e figli. Prigione esistenziale per alcuni, “il mio focolare più bello” per altri. 

Allenarsi e combattere senza paura e senza ansie inutili è possibile. Lo stesso vale per il lavoro, o fare una presentazione o public speaking. Se lo vivi come un obbligo, viene meno ogni forma di gusto e gioia di vita e dell’atto stesso. Possiamo scoprire i piaceri nascosti in questi brani di vita?

Si tratta di vivere allenamenti e gare, o performance lavorative, come atti di libertà, atti di vita, momenti di festa e di gioia, nel rispetto delle tradizioni. Pensieri come “devo vincere” o “devo fare bella figura” non portano a libertà ma danno sostegno ad emozioni negative, che vogliamo invece tenere lontane da noi nel Dojo, sul ring, o sul lavoro.

La libertà ha come contraltare l’imprigionamento, la paura, l’ansia. Ebbene, queste “prigioni” sono molto più corporee di quanto pensiamo. Costruiscono muri invisibili che ingabbiano le persone peggio delle sbarre.

Un messaggio importante: esistono esercizi, seri, molto seri, che ti aiutano a distinguere le “percezioni”, le “sensazioni” di paura e di ansia inutili e controproducenti, e possono liberarti da paure inutili. Li conduco personalmente, derivano dalle Arti Marziali e dal training mentale per gli sport da ring. Del resto non puoi combattere ad alti livelli se hai paura di farti male, paura della gara, paura di confrontarti, paura del pubblico, vergogna di poter perdere, e quasi tutti gli atleti e potenziali campioni si arrestano per queste paure e non per veri traumi. 

Ne farò omaggio prima possibile alla comunità tramite video, essendo quasi impossibili da descrivere a parole.

Ma torniamo a quanto invece si può scrivere.

Vorresti essere libero dalla paura, libero dall’ansia? Tutti lo vorremmo, ma se fossimo completamente liberi dalla paura, nessun segnale arriverebbe a dirci “stop” nell’attraversare una strada piena di camion e saremmo schiacciati come topi. Quindi, vogliamo liberarci di “tutte” le paure o vogliamo imparare a gestirle diversamente e discriminarle?

Io ascolto i messaggi della paura, li tratto con rispetto e imparo da essi, ma non mi faccio limitare”. Questa frase di Ross Heaven, che proviene dalle tecniche usate nella formazione dei Ninja, i guerrieri giapponesi, esprime bene come un certo approccio di consapevolezza aumentata possa liberare la persona da fardelli inutili.

 

Focusing porta di libertà? L’approccio degli “Embodied Minds”

Così come Paul Watzlawick ha ben espresso, “non è possibile non comunicare”, e che quindi ogni azione o non azione fatta in presenza di altri ha un valore comunicativo[1]. Allo stesso modo, noi dobbiamo renderci conto pienamente che “non è possibile non abitare un corpo”, e il corpo ci condiziona, positivamente o negativamente, ci parla. Che lo ascoltiamo o meno, ci manda segnali e flussi di comunicazione non meno importanti di quelli che scorrono tra le persone (comunicazione mente-corpo).

La libertà richiede prendere atto del corpo e gestirlo in modo consapevole-assertivo, prendere atto del valore della comunicazione mente-corpo e gestirla in modo il più possibile deciso da noi e non esserne solo vittime.

Occorre riconoscere che per comunicare bene all’esterno, è utile capire cosa sta succedendo ai nostri stati interni, stati fisici come le emozioni, stati corporei, i livelli di stanchezza e di stress, stati pre-verbali ancora prima che parole. 

Immaginate una persona che non sa ascoltare bene i propri stati d’animo. Come mai farà ad esprimersi in una comunicazione autentica e libera?

Le emozioni, ricordiamolo, abitano nel corpo[2]. Fare Focusing[3] significa esattamente questo. Andare ad ascoltarsi. Ascoltarsi dentro. Lasciare spazio ai propri segnali interni. Questa è una forma suprema di libertà.

Dal momento in cui capisci di esistere, fino al decidere di dare un’impronta speciale alla tua vita passa molta strada. Questa comprende un atteggiamento altrettanto assertivo sul come esistere e dove voler vivere – sia in termini di ambienti fisiche che di ambienti psicologici.

Da soli è davvero difficile riuscire ad impostare una vita veramente propria e consapevole, fuori dagli schemi proposti con violenza da pubblicità, mass media, esempi negativi attorno a noi e altre forme che subdolamente cercano di dirci “cosa” sia la vita. 

Siamo travolti da messaggi che sin da bambino ti dicono che tu vali in funzione del tuo telefono o della tua auto o della dimensione dei bicipiti o della tua casa o del marchio delle tue scarpe. 

Coaching e Counseling portano un messaggio diverso. Tu vali perché sei, per quello che pensi, per il contributo che dai e darai a questo pianeta, alla cultura umana, sia che tu ci riesca o che tu anche solo ci provi. Tu vali. A prescindere.

Una delle più alte forme di liberta è esprimere se stessi senza nessuna maschera.

Ma come ci ha ricordato Goffman, pioniere su questo tema, siamo creature sociali, e in qualche modo diamo sempre una “rappresentazione” di noi stessi, anche quando cerchiamo di essere genuini.

“Come esseri umani siamo principalmente creature dagli impulsi variabili, con umori ed energie che cambiano da un momento all’altro, come personaggi davanti a un pubblico tuttavia, non possiamo permetterci alti e bassi”.[4]

Le forme del nostro comportamento esterno non sono spesso congruenti con il sentire corporeo interno, le nostre sensazioni, gli stati emotivi che proviamo.

Ecco, forse allora una delle forme estreme di libertà è quella di mostrare anche fuori i nostri sentimenti interni e gli stati interni che viviamo, uscire dal “personaggio” ed essere più veri possibile, anche a costo di apparire “variabili” o come altri dicono, “umorali”. Umorali ma veri, è meglio che standardizzati sempre, ma falsi.

E se sei davvero libero, questo comprende una grande varietà di libertà, ad esempio cercare le emozioni che una certa musica ti dà, anziché ascoltare la stupida radio commerciale. La musica produce emozioni[5]. E tu che emozioni vuoi vivere? 

Che si tratti di musica “epica”, classica, o rock anni ’70, poco importa. Ma accendere la radio e pensare che quella e solo quella che passa il convento radiofonico sia la musica, non è grande esempio di libertà.


[1] Watzlawick, Paul, Janet H. Beavin, and Don D. Jackson. Pragmatics of Human Communication: A Study of Interactional Patterns, Pathologies, and Paradoxes. New York: Norton, 1967.  

[2] Buck, Ross. The Communication of Emotion. New York: Guilford P, 1984.

[3] Letteralmente, “focalizzazione”, nel senso indicato da Gendlin. Vedi bibliografia per approfondimenti.

[4] Goffman, Erving (1959), The Presentation of Self in Everyday Life. New York, Doubleday. Trad. it. La vita quotidiana come rappresentazione, Bologna, Il Mulino, p. 68.

[5] Budd, Malcolm. Music and the Emotions. London: Routledge & Kegan Paul, 1985.

 

Altri materiali su Comunicazione, Ascolto, Empatia, Potenziale Umano e Crescita Personale disponibili in questi siti e link:

Altre risorse online

 

Articolo estratto dal testo “Self Power, psicologia della motivazione e della performance“, copyright FrancoAngeli Editore e Dr. Daniele Trevisani Formazione Aziendale e Coaching, pubblicato con il permesso dell’autore.

Training mentale per accedere ai poteri della mente

Molti nostri comportamenti quotidiani sono dominati dal meccanismo stimolo-risposta. Automatismi innati che funzionano bene nel mondo animale ma meno in un mondo sociale.

Tu mi aggredisci, io aggredisco te. Qualcuno rifiuta il tuo progetto, tu ti senti svalorizzato. E magari cominci a pensare di non valere. Il passo successivo è lo stress, e l’attivazione del SNS (sistema nervoso simpatico) che determina le reazioni di attacco-fuga.

La fuga prende forma o di corsa o di blocco fisico. Un blocco comportamentale o decisionale, non riuscire più a muoversi, o a decidere, è una forma di fuga dal pericolo mossa dal SNS. L’attacco può prendere forma fisica, verbale violente o sottile.

Il sistema simpatico è anche chiamato sistema fight or flight, combatti o fuggi. È la tipica reazione dell’uomo primordiale di fronte al leone, fuggire o difendersi. Il problema è che oggi questo sistema “parte” anche quando sentiamo un pericolo non così reale, come un compito in classe, una presentazione di fronte ad un pubblico, o una discussione accesa.

È possibile apprendere a dominare meglio il proprio sistema nervoso simpatico ? Esiste un metodo di allenamento chiamato S-E-R (stimolo, elaborazione, risposta) in cui lo scopo è far si che le risposte comportamentali sfuggano al controllo obbligato del sistema simpatico.

In altre parole, diventare più padroni del proprio comportamento anche in casi estremi. Il risultato è rimanere coscienti e lucidi. Guardare in faccia i pericoli senza esserne sequestrati, bloccati o annientati perdendo di vista le opzioni possibili.

Esiste un allenamento specifico e come ogni allenamento bisogna ripeterlo varie volte sino alla completa padronanza. Questo è possibile sia per chi opera sulle performance intellettuali, sia su quelle sportive o fisiche.

Le sedute di training mentale sono in grado di muovere sia la capacità di attivazione che la capacità di rilassamento. Il vissuto del rilassamento è il territorio del sistema nervoso parasimpatico (SNP), il sistema opposto al sistema nervoso simpatico.

È lo stato del riposa e recupera, della rigenerazione fisica e mentale. Dirige il sangue verso l’apparato digerente, restringe le pupille, diminuisce la frequenza del battito cardiaco. Il training mentale può essere molto utile, rimettendo la persona in grado di rilassarsi quando vuole farlo, vivere con serenità compiti e sfide, recuperare le energie.

Il vero accesso verso il nostro vero potenziale passa attraverso una riflessione profonda ma non nega le neuroscienze, la fisiologia, la conoscenza della macchina biologica e mentale che portiamo dentro di noi e che nasconde trucchi da imparare e sfruttare.

Per approfondimenti vedi:

Articolo estratto dal testo “Self Power, psicologia della motivazione e della performance“, copyright FrancoAngeli Editore e Dr. Daniele Trevisani Formazione Aziendale e Coaching, pubblicato con il permesso dell’autore.

Diventare consapevoli degli stati personali

La maggior parte delle persone senti di avere dei limiti, ma confonde questi limiti con un senso di impotenza. Esso può degenerare in senso di mancanza di controllo sulla vita, la percezione di non poter dirigere il proprio destino.

Da questo deriva una larga parte delle psicopatologie: la depressione, ad esempio, ha molto a che fare con il senso di inutilità, impotenza di fronte agli eventi. L’ansia è un senso di inferiorità rispetto ad un evento specifico che ci aspetta ma per il quale non ci sentiamo davvero pronti (ansia localizzata) o persino generalizzata alle tante difficoltà del vivere in generale (ansia diffusa).

Migliorarsi è un dovere, ed è sicuramente faticoso. La prima cosa da fare è quella di acquisire maggiore consapevolezza di quali sono le proprie vere condizioni, e scoprire che vi sono molte cose su cui lavorare. Considerarsi arrivati in termini di sviluppo personale significa arrestare una ricerca.

Saper leggere le risorse mentali vere di cui disponiamo

Ogni volta che vogliamo inseguire un sogno, scatta in noi una valutazione sulle risorse mentali di cui disponiamo, sul nostro stato personale. Stiamo parlando di risorse interiori, non monetarie.

Può esistere un forte divario tra le risorse che uno sente di avere (risorse percepite) e le risorse realmente disponibili se sviluppiamo la capacità di accedervi (risorse latenti). Quando le letture non sono coincidenti, possono sorgere problemi: la sottovalutazione delle proprie risorse da una parte, e l’iper-valutazione delle stesse dall’altra. Ne deriva il seguente principio:

Principio di consapevolezza degli stati personali

Le performance possono essere aumentate quando:

  • L’individuo è in grado di conoscere con estrema precisione lo stato delle proprie energie e risorse mentali accessibili e sa quali sono quelle latenti e allenabili.
  • Sulla base dell’analisi, vengono prese coerentemente le decisioni connesse su dove dirigersi per il proprio miglioramento.

Le performance diminuiscono (o vengono messe a rischio) quando:

  • Errori di sottovalutazione del proprio potenziale (self-reduction).
  • Errori di ingigantimento mentale della sfida.
  • Errori di valutazione delle proprie risorse e/o sottovalutazione della sfida.

È importante prendere coscienza sulle proprie risorse, indispensabile per far nascere la voglia di migliorarsi e coltivare il meglio di se stessi, qualsiasi sia il livello di partenza.

Per approfondimenti vedi:

Retorica (Aristotele)

Nel Trattato “Retorica” Aristotele introduce l’analisi di temi che oggi sono molto in voga, molto popolari e falsamente attribuiti a scienziati o autori contemporanei. Leggendo questo articolo scoprirai che i concetti di intelligenza emotiva, di persuasione emotiva, di stili comunicativi, di comunicazione efficace, e tanti altri temi, erano già stati trattati ed esaminati accuratamente da Aristotele nel 4° Secolo Avanti Cristo.

 

La Retorica (Τέχνη ῥητορική o anche Περὶ ῥητορικῆς) è una delle opere di Aristotele, quelle opere cioè composte dal filosofo per essere studiate dai suoi allievi nel Liceo. L’opera, composta durante l’ultima fase della vita dello Stagirita, e successiva alla Poetica (quindi al 330 a.C.), raccoglie le riflessioni relative alla retorica sviluppate da Aristotele nel corso della propria esistenza.[1]

Il testo è composto da tre libri, per ciascuno dei quali, seguendo Roland Barthes, è individuabile un argomento preciso: il Libro I è dedicato alla figura dell’oratore; il Libro II tratta del pubblico; il Libro III, più breve, affronta invece il tema del discorso vero e proprio.[2] Inoltre, nel trattato sono distinguibili due fasi di stesura: ad una prima fase, caratterizzata dallo studio degli elementi entechnoi (propri della retorica in quanto techne), corrisponde a quanto scritto nel Libro I (eccetto il cap. 2 e parte del 15), mentre una seconda fase è riconoscibile nei due libri successivi.[3]

Libro I: l’oratore

Il libro che apre la Retorica aristotelica è dedicato alla figura di colui che emette il messaggio: l’oratore. Aristotele qui propone una definizione della retorica in quanto techne, analizzando poi i tre tipi di discorso (giudiziario, deliberativo, epidittico) e i tipi di argomentazione, nella misura in cui vengono scelti dal retore per adattarsi al pubblico.

La definizione della retorica

Aristotele definisce la retorica come «la facoltà di scoprire il possibile mezzo di persuasione riguardo a ciascun soggetto» (I, 2, 1355b). Tale capacità è sua peculiare, e la differenzia dalle altre technai, le quali si occupano sì di persuadere un pubblico, ma unicamente riguardo agli argomenti specifici di cui trattano. Diversamente da quanto affermava Platone nel Gorgia, Aristotele dunque attribuisce alla retorica il titolo di techne, più precisamente l’unica techne in grado di produrre persuasione (pythanon) riguardo a qual si voglia argomento proposto.[4] Oggetto della retorica non è la aletheia (verità), ma l’eikós (possibile, verosimile), ovvero ciò che è valido nella maggior parte dei casi, relativamente a tutto ciò che ammette una situazione differente dalla tesi sostenuta (1357b).

Ciò rende la retorica «speculare alla dialettica» (I, 1, 1354a):[5] entrambe infatti si occupano di argomenti la cui conoscenza è patrimonio condiviso di tutti gli uomini, e non appartenenti ad una scienza specifica. In questo senso, è comprensibile l’importanza che Aristotele conferisce all’entimema (ἐνθύμημα), il cosiddetto «sillogismo retorico» basato su premesse probabili (éndoxa): la dialettica si occupa di sillogismi, la retorica di entimemi (I, 1, 1355a). La retorica è utile perché, attraverso l’entimema, è in grado di indagare le verità scientifiche, confutare gli avversari o difendere se stessi da accuse e critiche. Diverso è invece il caso dell’esempio (paradeigma), definito da Aristotele una «induzione retorica» (I, 2, 1356b). Quest’ultimo, infatti, mira a dimostrare la tesi attraverso casi analoghi ai fatti trattati – la medesima cosa che fa la dialettica attraverso l’induzione. Si spiega così il motivo per cui la Retorica fu talvolta inserita (insieme alla Poetica) tra le opere di logica nella versione estesa dell’Organon.

I tipi di argomentazione

La qualità della retorica sta nel trovare, per qualsiasi argomento, i mezzi di persuasione (reali o apparenti) più utili al proprio fine. Aristotele passa così in rassegna i vari tipi di argomentazione (pisteis), suddividendole in «tecniche» (entechnoi) e «non tecniche» (atechnoi). Le argomentazioni non tecniche sono quelle che non vengono fornite dal retore, ma che sono preesistenti – come le testimonianze, le confessioni sotto tortura, i documenti scritti (I, 2, 1355b). Le argomentazioni tecniche, invece, dipendono dal retore e si possono ottenere applicando un metodo. Queste ultime sono così classificate (I, 2, 1356a1-20):

  • – Argomentazioni che realizzano la persuasione grazie al carattere dell’oratore. L’ascoltatore accorda maggiore fiducia ad un oratore che dimostra di conoscere prontamente l’argomento di cui sta parlando; diversamente, risulta poco credibile chi propone varie opinioni su un argomento, piuttosto che una certezza assoluta. Il carattere dell’oratore rappresenta quindi l’argomento più forte. E’ il tema che oggi nelle scienze della persuasione viene identificato come “fattore Expertise”, parte della “Source Credibility”, la credibilità della fonte.
  • – Argomentazioni che realizzano la persuasione predisponendo l’ascoltatore in un dato modo. Il retore che voglia riuscire a persuadere il proprio pubblico deve anche tenere conto dei sentimenti e delle emozioni che il suo discorso genera negli ascoltatori, poiché i sentimenti influenzano inevitabilmente i giudizi. E’ il tema che oggi viene definito come Intelligenza Emotiva e Competenze Emotive.
  • – Argomentazioni che realizzano la persuasione unicamente grazie al discorso. È il caso dei discorsi che dimostrano la verità (reale o apparente) di una tesi mediante gli opportuni mezzi di persuasione.

Tali considerazioni, afferma Aristotele, dimostrano ancora una volta che la retorica è una techne comprensibile solo da chi è in grado di ragionare logicamente, e di riflettere attorno a caratteri, virtù ed emozioni. In secondo luogo, il filosofo ribadisce che la retorica è una ramificazione della dialettica, nonché una filiazione dell’etica e della politica.[6]

I tre tipi di discorso

Aristotele termina il Libro I analizzando i tre tipi di discorso.

  • – Discorso deliberativo (γένος συμβουλευτικόν). Di questo tipo di retorica fanno parte i discorsi di esortazione e dissuasione, siano essi privati (consigli o rimproveri) o pubblici (è il caso di leggi e costituzioni). Un discorso deliberativo tratterà dunque temi politici o morali, e i suoi fini saranno la felicità e il bene; inoltre, avendo per oggetto decisioni in vista dell’avvenire, il suo tempo di riferimento è il futuro (capp. 4–8).
  • – Discorso epidittico (γένος ἐπιδεικτικόν). Il genere inventato da Gorgia, ha come scopo la lode e il biasimo. La retorica epidittica mira infatti a dimostrare la virtù e l’eccellenza di una persona, attraverso le varie forme di elogio, e per questo si riferisce al presente (cap. 9).
  • – Discorso giudiziario (γένος δικανικόν). È il tipo di retorica utilizzato nei tribunali, per difendere o accusare un imputato. Fa largo uso di argomentazioni non tecniche (leggi scritte e non scritte, testimonianze, contratti), e cerca di indagare la causa di un’azione delittuosa, tentando anche di determinare se un’azione è peggiore di un’altra. Il suo tempo di riferimento è il passato (capp. 10–15).

Per ricorrere a queste tre tipologie è necessario conoscere le premesse proprie della retorica (prove, probabilità e segni), e le caratteristiche specifiche del genere utilizzato (ovvero il tempo verbale da impiegare, i tipi di argomentazione e via dicendo).

Libro II: il pubblico

Il Libro II è dedicato al pubblico, ovvero chi riceve il messaggio. Aristotele tocca i temi delle emozioni e analizza come le argomentazioni sono recepite dal pubblico. E’ una vera e propria trattazione di quello che oggi viene chiamato “public speaking” e insegnato in tanti corsi di formazione sul parlare in pubblico.

Emozione e persuasione

La retorica, afferma Aristotele, esiste in funzione di un giudizio: ogni deliberazione deve essere giudicata, e in ciò svolgono un ruolo fondamentale sia l’atteggiamento del retore (ethos), sia la disposizione d’animo di chi ascolta (pathos). La retorica infatti mira a persuadere un uditorio della bontà di certe affermazioni, e per fare ciò è necessario non solo curare i discorsi, ma anche il modo in cui l’oratore si presenta, così da adattare gli argomenti ai sentimenti del pubblico che si ha di fronte (II, 1, 1377b).[7] Le emozioni infatti alterano le opinioni degli uomini, e sono in grado di modificare i giudizi in base a piacere o dolore (1378a). Più nello specifico, lo Stagirita afferma che nella retorica deliberativa è più importante il carattere dell’oratore, mentre i sentimenti del pubblico sono centrali nel genere giudiziario.

Per quanto riguarda l’oratore, questi deve possedere essenzialmente tre doti: saggezza (phronesis), virtù (areté) e benevolenza (eunoia). Un oratore che non abbia opinioni corrette riguardo all’argomento di cui sta trattando, o che per malvagità nasconda certi particolari o non sia in grado di dare buoni consigli, non riuscirà ad essere persuasivo. D’altra parte, il buon oratore deve anche saper sfruttare le emozioni a proprio vantaggio, riuscendo a suscitare nel pubblico quelle più adatte ai suoi scopi. Per questo motivo, Aristotele dedica larga parte del Libro II (capp. 2–11) a studiare le varie emozioni, dandone una definizione e analizzando le circostanze e le persone con cui si è solito provarle. Nell’ordine, il filosofo parla di: colleramitezzaamicizia e inimicizia (amore e odio), timore, vergogna, gentilezza e sgarbatezza, pietà, sdegno, invidia, emulazione.

È interessante notare che, rivolgendosi qui allo studio delle passioni, Aristotele si rifà alla lezione dei sofisti e dei pitagorici, per i quali era centrale il tema della psicagogia.[8] Nel riconoscimento dell’importanza delle emozioni, che in questo modo vanno ad affiancarsi alle dimostrazioni come portatrici di persuasione, è inoltre ravvisabile il passaggio dalla prima alla seconda fase dello studio della techne rhetoriké da parte dello Stagirita.[9]

I caratteri

Una volta analizzate le emozioni, l’attenzione di Aristotele si sposta sui caratteri (ethoi). Il filosofo analizza anche qui i vari tipi di caratteri, suddividendoli in base alla condizione dell’uditore: il giovane, il vecchio e l’uomo maturo, e in seconda battuta il nobile, il ricco e il potente. I giovani sono inclini a seguire i desideri, ragion per cui sono passionali, incostanti e volubili, e desiderano soprattutto onori e ricchezza; la loro indole è buona, in quanto vergine delle malvagità della vita, e pertanto sono più propensi a provare fiducia e a ritenere le persone migliori di quanto non siano; infine, i giovani nutrono grandi speranze, poiché potenzialmente hanno davanti a sé un lungo futuro (cap. 12). Diversa è la situazione dei vecchi, che vivono di ricordi e sono spesso cinici, diffidenti e sospettosi per l’esperienza del mondo; essi inoltre non «sanno» niente, semmai «credono», e non sono in grado di affermare qualcosa con fermezza, ma vivono attaccati alle proprie ricchezze e giudicano le cose in modo deteriore (cap. 13). Tra questi due tipi, si collocano gli uomini adulti e maturi, che perseguono un certo equilibrio nei desideri, come nelle emozioni (cap. 14).

Oltre all’età, gioca un ruolo importante la condizione sociale ed economica. Gli uomini nati da una famiglia nobile sono individui con grandi ambizioni, ma sprezzanti delle condizioni altrui, che considerano inferiori alla propria (anche se, aggiunge Aristotele, i nobili per nascita sono in genere persone di scarso valore, e addirittura, con il passare delle generazioni, le stirpi più insigni danno luogo a caratteri folli, quando non degenerano nella stupidità e nel torpore; cap. 15). La ricchezza genera invece caratteri arroganti, insolenti: i ricchi credono infatti di poter valutare e ottenere tutto con il denaro, e questa grettezza li porta a essere dissoluti e boriosi, e a ostentare il proprio benessere – ovvero, i ricchi sono «sciocchi fortunati» (cap. 16). Chi detiene il potere, infine, è senz’altro più ambizioso ed energico dei ricchi, poiché ha la possibilità di compiere grandi imprese, e il fatto di essere un uomo in vista lo costringe ad essere temperante (cap. 17).

L’argomentazione logica

Infine, Aristotele torna sulle argomentazioni (capp. 18–26). Come già si è detto riguardo al Libro I, quelle più comuni sono di due tipi: l’esempio e l’entimema.

L’esempio, dice Aristotele, deriva dall’induzione, la quale è il principio grazie a cui è possibile un ragionamento.[10] Gli esempi, a loro volta, possono essere inventati dall’autore (è il caso delle favole o degli apologhi); oppure essere tratti dalla realtà (avvenimenti realmente accaduti, fatti storici e così via); l’importante è però che abbiano qualche analogia con l’oggetto del discorso.

All’esempio si deve però preferire, laddove è possibile, l’entimema (II, 20, 1394a), poiché, essendo simile al sillogismo, deve essere utilizzato per le dimostrazioni (siano esse di sostegno o contrasto a una tesi; II, 22, 1396b), e in questo caso l’esempio può fungere da premessa. L’entimema parte infatti da quegli assunti la cui validità viene riconosciuta dall’uditorio o dal giudice che si ha di fronte, in modo che chi ascolta abbia coscienza dell’evidenza degli argomenti. Quattro sono i tipi di premesse da ognuno dei quali deriva un tipo diverso di entimema: dalla prova (tekmerion) l’entimema apodittico, dall’esempio l’entimema induttivo, dal verosimile l’entimema anapodittico e dal segno l’entimema asillogico. Di questi, l’entimema anapodittico e quello asillogico sono entimemi apparenti, poiché non hanno carattere di necessità.

Connessa all’entimema e all’argomentazione logica è anche la teoria dei luoghi (topoi), descritta nel cap. 2 del Libro I. I luoghi, che caratterizzano i sillogismi e gli entimemi, possono essere comuni o propri: i primi riguardano cause di carattere generale, mentre quelli propri sono relativi a una determinata specie o un determinato genere. Il luoghi comuni possono a loro volta suddividersi tra quelli degli entimemi reali e quelli degli entimemi apparenti, per ciascuno dei quali sono riportati degli esempi al cap. 18.[11]

Infine, Aristotele parla dell’importanza delle massime, intese come affermazioni «di carattere universale» riguardanti ciò che può essere scelto in relazione ad un’azione. Esse hanno una certa efficacia sul pubblico, soprattutto se si rifanno a concetti generalmente bene accettati da chi sta ascoltando; nel caso contrario, bisogna ricorrere all’entimema, la cui conclusione sarà, appunto, una massima (II, 21, 1394a).

Libro III: il messaggio

Il Libro III è infine dedicato al messaggio vero e proprio: è il luogo della lexis (la latina elocutio), delle varie figure da utilizzare nei discorsi, e della taxis (quella che Quintiliano chiama dispositio).[12]

Lo stile

Per essere persuasivi non basta avere degli argomenti solidi, ma bisogna anche saperli disporre, ordinandoli in modo appropriato e scegliendo lo stile di volta in volta più consono al contesto. Per questo motivo bisognerà avere particolare cura nelle scelte lessicali, in modo che il discorso soddisfi i requisiti di chiarezza e convenienza. A questo scopo è possibile ricorrere anche al lessico poetico e alle figure retoriche, e fare uso di paragoni, similitudini e metafore (cap. 2). Inoltre, anche il tono dovrà adattarsi, elevandosi o abbassandosi quando è necessario, e rispettare un certo ritmo nella prosa per non riuscire sgradevole. Un ruolo importante avrà infine anche la recitazione, nel caso il discorso sarà orale (diverse sono ovviamente le specifiche per il discorso scritto).

In particolare, Aristotele qui si sofferma sulla metafora, in quanto elemento in comune tra poesia e retorica. È infatti opinione diffusa che l’elocuzione abbia avuto origine dalla poesia, e che solo in un secondo momento l’eloquenza in prosa (retorica) si sia distaccata da quella poetica; Tuttavia, la retorica ha mantenuto, per i propri fini, l’uso di espedienti poetici, come appunto la metafora, la quale risponde all’esigenza di chiarezza, piacevolezza e ricercatezza (III, 2, 1404b).[13] Sullo stesso piano si colloca inoltre l’impiego di antitesi, cioè la presenza di elementi opposti, i quali, se conosciuti, generano piacere in chi ascolta.[14]

Le parti dell’orazione

Aristotele conclude la Retorica analizzando le parti di cui si deve comporre un’orazione. In ogni discorso vi sono sempre due momenti fondamentali, l’enunciazione della tesi (prothesis) e la sua dimostrazione mediante argomentazioni (pisteis). Le altre parti che vengono indicate sono valide a seconda dei casi e dei generi di discorsi:

  • Esordio (prooimion): l’incipit del discorso, deve indicare chiaramente, qualora non lo si sappia già, quale sarà l’argomento di cui intende parlare.
  • Narrazione (diegesis): la parte centrale dell’orazione, non deve essere particolarmente lunga né troppo breve, ma deve esporre l’argomento secondo misura.
  • Dimostrazione (apodeixis): deve elencare le varie argomentazioni, proponendo le prove a sostegno della propria tesi e cercando di confutare quelle contrarie.
  • Epilogo (epilogos): la parte finale deve disporre l’ascoltatore favorevolmente nei confronti dell’oratore, aumentare la pregnanza delle tesi, suscitare reazioni emotive e infine ricapitolare quando si è detto.

Note

  1. ^ F. Montanari, Introduzione a: Aristotele, Retorica, a cura di M. Dorati, Milano 1996, p. XIX.
  2. ^ R. Barthes, La retorica antica, trad. it., Milano 20062, pp. 19-22.
  3. ^ A. Plebe, Breve storia della retorica antica, Roma 1988, pp. 56.
  4. ^ Ben diverso è invece ciò che Socrate sostiene discutendo con Gorgia e Polo. Per Platone, infatti, essa non ha diritto al titolo di techne, bensì a quello di empeiria (abilità). Cfr. PlatoneGorgia 452d-455a.
  5. ^ “ἡ ῥητορική ἐστιν ἀντίστροφος τῇ διαλεκτικ” (La retorica è speculare alla dialettica). Sulle possibili traduzioni del termine antistrophos vedere Aristotele, Retorica a cura di Silvia Gastaldi, Carocci, 2014, p. 341. Sull’accezione aristotelica di dialettica si veda la voce Aristotele.
  6. ^ E. Garver, Aristotle’s Rhetoric as a Work of Philosophy, «Philosophy and Rhetoric», 19 (1986), p. 4.
  7. ^ E. Garver, Aristotle’s Rhetoric as a Work of Philosophy, cit., p. 15.
  8. ^ A. Plebe, Breve storia della retorica antica, Roma 1988, pp. 62-3.
  9. ^ A. Plebe, Breve storia della retorica antica, Roma 1988, p. 63.
  10. ^ L’induzione è necessaria per stabilire la premessa maggiore di un sillogismo. Cfr. Retorica 1393 a.
  11. ^ A. Plebe, Breve storia della retorica antica, Roma 1988, pp. 66-7.
  12. ^ A. Plebe, Breve storia della retorica antica, Roma 1988, p. 68.
  13. ^ A. Plebe, Breve storia della retorica antica, Roma 1988, pp. 68-69.
  14. ^ A. Plebe, Breve storia delle retorica antica, Roma 1988, p. 70.

Bibliografia

Edizioni e traduzioni
  • Aristotele, Retorica, traduzione di Armando Plebe, in: Opere, vol. IX, Roma-Bari, Laterza, 19926 (prima edizione 1961)
  • Aristotele, Retorica, introduzione di Franco Montanari, traduzioni e note a cura di Marco Dorati, Milano, Mondadori, Milano 1996
  • Aristotele, Retorica e Poetica, a cura di Marcello Zanatta, Torino, Utet, 2002
  • Aristotele, Retorica, introduzione, traduzione e commento a cura di Silvia Gastaldi, Roma, Carocci, 2014
  • Aristotele, Rhetorica, a cura di Edward Meredith Cope, vol. 1, Cambridge, University Press, 1877, pp. 303.
  • Aristotele, Rhetorica, a cura di Edward Meredith Cope, vol. 2, Cambridge, University Press, 1877, pp. 340.
  • Aristotele, Rhetorica, a cura di Edward Meredith Cope, vol. 3, Cambridge, University Press, 1877, pp. 270.
Saggi e bibliografia secondaria
  • R. Barthes, La retorica antica, Milano, Bompiani, Milano 1972
  • E. M. Cope, An Introduction to Aristotle’s Rhetoric, (1867), ristampa Hildesheim, Georg Olms, 1970
  • E. Garver, Aristotle’s Rhetoric as a Work of Philosophy, «Philosophy and Rhetoric»,. 19, (1986), pp. 1–22
  • F. Piazza, La Retorica di Aristotele. Introduzione alla lettura, Roma, Carocci, 2008
  • A. Plebe, Breve storia della retorica antica, Roma-Bari, Laterza 1961

Voci correlate

 

Classificazione delle figure retoriche usate nella Persuasione

Classificazione tradizionale

Nello specifico, Quintiliano aveva distinto tropi e figure, e queste ultime in figure di parola (léxeos schémata in greco; figurae elocutionis o figurae verborum in latino) e figure di pensiero (schémata tês dianoías in greco; figurae sententiae in latino).[6][1]

Tutte le figure venivano poi catalogate secondo il mutamento (mutatio, ‘variazione’) e a questo proposito Quintiliano descrive una quadripartita ratio[7][1]:

  • adiectio: aggiunta di elementi linguistici, con conseguente ridondanza dell’espressione;
  • detractio: sottrazione di elementi linguistici, come avviene tipicamente nell’ellissi;
  • transmutatio: cambiamento della posizione di alcuni elementi linguistici, come avviene tipicamente nell’anastrofe;
  • immutatio: sostituzione di elementi linguistici tramite sinonimiaccrescitividiminutivi.

Classificazioni moderne

Le classificazioni tradizionali sono state più volte sottoposte a critica e molteplici sono stati i tentativi moderni di classificazione. Una classificazione particolarmente originale e rilevante è quella elaborata dal grammatico francese Pierre Fontanier (1765-1844) in Les figures du discours (1827-1830)[1].

La classificazione di Bonsiepe

Il teorico del design e scrittore tedesco Gui Bonsiepe distinse tra figure sintattiche e semantiche. Nello specifico, egli offre questa catalogazione[2]:

  • figure sintattiche
    • figure traspositive
    • figure privative
    • figure ripetitive
  • figure semantiche
    • figure contrarie
    • figure comparative
    • figure sostitutive

La classificazione del Gruppo μ

Il cosiddetto Gruppo μ (o Gruppo di Liegi) ha prodotto il tentativo più organico di classificazione delle figure, nell’opera Retorica generale, edita a Parigi nel 1970. Le figure sono definite come opere di trasformazione del linguaggio e vengono divise in[2]:

  • metaplasmi, che consistono in modificazioni morfologiche, quindi sul piano del significante;
  • metatassi, che consistono in modificazioni sintattiche, quindi relative alla struttura delle frasi;
  • metasememi, che consistono in modificazioni semantiche, quindi sul piano del significato;
  • metalogismi, che consistono in modificazioni logiche, cioè del valore logico di una frase nel suo complesso.

Articolo estratto dal testo “Self Power, psicologia della motivazione e della performance“, copyright FrancoAngeli Editore e Dr. Daniele Trevisani Formazione Aziendale e Coaching, pubblicato con il permesso dell’autore.

Approfondimento verso obiettivi ed emozioni

Tra le caratteristiche dell’intelligenza emotiva si trovano:

  • la capacità di motivare se stessi, anche in situazioni avverse.
  • la resilienza psicologica, continuare a pensare un obiettivo nonostante le frustrazioni.
  • saper identificare e controllare umore e propri stati d’animo, evitando la sopraffazione di emozioni negative.
  • la capacità di essere empatici, capire gl istati d’animo altrui.
  • auto empatia: capire i propri stati emotivi fino in fondo.
  • speranza: la capacità di mantenere fiducia e di sperare.

Nello specifico delle performance si possono attivare ulteriori capacità:

  • Coltivare emozioni positive e scoprire il lato positivo delle performance, viste come occasioni di crescita.
  • scoprire il lato positivo nella preparazione e lavoro allenante.
  • attivare energie primordiali della lotta e dirottarle contro un nemico: target attivazionale, qualcosa contro cui lotta una performance.

Nelle attività di gruppo, che siano sportive o lavorative, è fondamentale incanalare le emozioni dirigendole verso il raggiungimento di un obiettivo. Occorre stimolare il gruppo a sviluppare nuove energie partendo dalle emozioni positive verso il risultato, e dalle emozioni positive contro il male.

Le performance ad alta intensità positiva sono vissute con maggiore attivazione rispetto a performance sterili e anestetizzate sul piano emotivo, e solo in queste possiamo vivere a pieno e dare il meglio.

Verso lo stato di flusso

Le performance comprendono mezzi e fini:

  • I fini riguardano gli obiettivi.
  • I mezzi riguardano gli strumenti e i modi che vengono utilizzati per raggiungere l’obiettivo.

Ciascun progetto ha quindi due componenti:

  • L’emozione per il risultato atteso che denominiamo “emozioni finalistiche” (emozioni alfa).
  • L’emozione che accompagna l’azione, le operazioni che denominiamo “emozioni di superficie” (emozioni beta).

Le emozioni di superficie hanno una posizione più marginale ed esterna, rispetto al vissuto. Queste emozioni sono visibili, e riguardano il comportamento, l’azione.

Immaginiamo un corridore impegnato nella preparazione per una gara che passo dopo passo di gode il momento prima della competizione: si trova immerso totalmente nell’esperienza. La gara è vista come un obiettivo positivo, un momento di auto-gratificazione, non come un obbligo od una pressione.

Allo stesso modo immaginiamo un altro corridore, che odia allenarsi e vorrebbe solamente vincere. Ogni passo aumenterà in lui il senso di sofferenza, il fastidio per la fatica fino alla perdita di senso in quello che si sta facendo. Per non parlare della preparazione di una gara obbligata, che riguarderebbe un fronte emotivo completamente negativo.

Esistono condizioni intermedie: emozioni beta accese, il che significa che esiste un vissuto dell’azione positivo ma assenza di emozioni alfa, scarsa rilevanza emotiva per il risultato finale. Dall’altra parte, invece, troviamo emozioni alfa accese, ovvero forte valenza emotiva del risultato, ed emozioni beta spente.

Se le fasi delle nostre azioni sono accompagnate da emozioni positive avremmo una performance che viaggia in stato di flusso. Se invece siamo seccati per ogni operazione, tutto risulterà estremamente pesante e gravoso.

Per approfondimenti vedi:

Articolo estratto dal testo “Self Power, psicologia della motivazione e della performance“, copyright FrancoAngeli Editore e Dr. Daniele Trevisani Formazione Aziendale e Coaching, pubblicato con il permesso dell’autore.

Sentire le emozioni altrui

Non è da tutti avvicinarsi emotivamente agli altri. Basti pensare quanto è curioso il fatto di come tutti chiedano agli altri di “capirli“, mentre tutti si sforzano di rimanere chiusi nel proprio mondo e non farvi entrare nessuno.

All’interno del “il cervello emotivo“, Joseph LeDoux evidenzia come gli stimoli esterni attivino le emozioni attraverso dei canali di vario tipo, ma soprattutto che le emozioni trovano vie per esprimersi anche se non vogliamo, al di la della nostra parte razionale.

Questo significa che gli stimoli legati allo svolgere performance possono avere valutazioni duplici e arrecare dissonanza. L’esempio più comune è quello del volare con un aereo: nonostante sia, statisticamente parlando, il mezzo di trasporto più sicuro, noi uomini siamo legati alla componente “animale” ed alla “paura di cadere“.

Altre situazioni sono legate alle performance manageriali, come ad esempio parlare in pubblico: razionalmente non dovrebbe porre ansia, tuttavia per molte persone questo risulta molto difficile da compiere. Il cuore sale di battiti e si attiva il meccanismo di attacco-fuga.

Sul fronte positivo, attiviamo emozioni positive spesso verso attività di cui non capiamo bene il senso anche se ci provano piacere: luoghi, persone, paesaggi o attività. Una buona performance necessità quindi anche si nuove abilità psicologiche, nel saperle riconoscerle e nel saperle esprimerle.

Howard Gardner, in Frames of Mind: The Theory of Multiple Intelligences, introduce il concetto delle intelligenze multiple, che includono anche l’intelligenza interpersonale (capacità di capire gli altri) e l’intelligenza intra-personale (capacità di capire se stessi). Secondo Gardner, esistono diverse intelligenze attivabili in ciascuno di noi:

  • intelligenza logico matematica: capacità di astrazione, pensiero logico, ragionamento, uso dei numeri.
  • intelligenza linguistica: capacità nell’uso della parola e del linguaggio.
  • intelligenza visivo-spaziale: capacità di valutazione degli spazi e visualizzazione mentale.
  • intelligenza musicale e armonica: sensibilità per il suono, ritmo, toni e musica
  • intelligenza corporea-cinestesica: capacità di controllo del movimento, del corpo, della gestione degli oggetti.
  • intelligenza inter-personale: sensibilità agli stati d’animo, alle relazioni, alle interazioni umane.
  • intelligenza intra-personale: introspezione e auto-riflessione; comprensione dei propri punti di forza e delle debolezze.
  • intelligenza naturalistica: interazione con l’ambiente, classificazione di oggetti e cose.
  • intelligenza esistenziale: dimensione religiosa, culturale, capacità di inserire se stessi e gli eventi in una cornice filosofica.

Inoltre, esistono le intelligenze fluide, o fluid intelligence, che comprendono il modo di ragionare e risolvere i problemi indipendentemente dalla conoscenza prima acquisita. Un progetto di active learning consente di attivare tutte le intelligenze di cui siamo dotati mentre si apprende una specifica materia. Attiva l’intelligenza emotiva, mentre invece l’apprendimento passivo soffoca questa “emotività”.

Se riusciamo ad avvicinare lentamente lo studente allo sfondo emotivo positivo e spostarlo dal fronte negativo dello stress e repulsione verso il sistema scolastico e lo studio, avremo compiuto un opera straordinaria. Ogni tipo di performance ha componenti emotive e va analizzata caso per caso.

Molti blocchi inerenti alle performance sono di tipo psicologico. Dobbiamo imparare a gestire le emozioni ed analizzarle, per poter modificare i nostri meccanismi abituali, dominandoli e facendoli nostri alleati.

Per approfondimenti vedi:

Articolo estratto dal testo “Self Power, psicologia della motivazione e della performance“, copyright FrancoAngeli Editore e Dr. Daniele Trevisani Formazione Aziendale e Coaching, pubblicato con il permesso dell’autore.

Il mondo del time management

Le emozioni caratterizzano e determinano “a cosa” dedichiamo il nostro tempo migliore e cosa facciamo più volentieri. Allo stesso tempo però, sono coinvolte anche nelle azioni alle quali dedichiamo meno tempo possibile, fino a posticiparle senza data.

La gestione del tempo si basa, oggigiorno, fin troppo su fogli Excel, Word o Powerpoint, dimenticandosi di una componente umana fondamentale: le emozioni. Cosa proviamo a compiere un determinato lavoro invece di un altro ?

Sembrerebbe quasi che siano due campi profondamente separati, ma in realtà lo sfondo emotivo è il “substrato” dei risultati.

Una cultura della consapevolezza deve portare le persone ad essere più consapevoli di quali obiettivi desiderino raggiungere e, di conseguenza, come desiderino realmente utilizzare il proprio tempo.

Nel nostro piccolo, dobbiamo impegnarci ad ascoltarci, e di conseguenza dobbiamo cercare di impegnarci in un nostro interesse in modo da canalizzare le energie positive dove prima vedevamo solamente sofferenza.

Per approfondimenti vedi:

Le emozioni umane. Elenco delle emozioni e stati emotivi nella vita personale e sul lavoro. Articolo su fonti Emozione Wikipedia ed Elenco stati emotivi Wikipedia, con nostre elaborazioni.

Se vuoi conoscere meglio come funzionano le emozioni nella vita e sul lavoro, consigliamo questo libro.

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Articolo sul tema: le emozioni, emozioni umane, stati emozionali, tutte le emozioni, quali sono le emozioni? elenco completo, le emozioni umane, le emozioni primarie, elenco di tutte le emozioni, emozione, stato emotivo, sfondo emotivo,

Elenco delle emozioni – 101 Emozioni

Elenco dei sentimenti, delle emozioni e degli stati d’animo (in ordine alfabetico)

  1. Abbandono (o rinuncia, rassegnazione)
  2. Affetto
  3. Agape (o amore altruistico)
  4. Amarezza (o profondo rammarico)
  5. Amicizia
  6. Amore
  7. Amore a prima vista
  8. Amore platonico
  9. Amore romantico
  10. Angoscia
  11. Angustia (o costrizione psicologica)
  12. Ansia (o nervosismo)
  13. Antipatia (o avversione istintiva)
  14. Appagamento (o contentezza)
  15. Appocundria
  16. Apprensione (o inquietudine angosciosa)
  17. Autostima (o considerazione di sé)
  18. Benevolenza
  19. Calma (o senso di pace)
  20. Certezza (o consapevolezza)
  21. Commozione
  22. Compassione
  23. Confusione
  24. Delirio
  25. Delusione
  26. Depressione (o abbattimento psicologico)
  27. Devozione (o amore trascendentale)
  28. Diffidenza (o sfiducia)
  29. Dignità (o rispetto di sé)
  30. Disgusto (o repulsione, disprezzo)
  31. Disperazione (o sconforto)
  32. Dispiacere
  33. Dissenso (o disaccordo)
  34. Dolore
  35. Eccitazione
  36. Entusiasmo (o euforia)
  37. Estasi
  38. Feeling
  39. Felicità (o allegria, ilarità, gioia)
  40. Fiducia (o fede)
  41. Filantropia
  42. Fobia (o paura irrazionale, repulsione)
  43. Fraternità (o amicizia fraterna)
  44. Frustrazione
  45. Gelosia
  46. Gratitudine (o riconoscenza)
  47. Imbarazzo (o vergogna momentanea)
  48. Incertezza (o insicurezza, dubbio)
  49. Indifferenza (o insensibilità, imperturbabilità)
  50. Indignazione (o offesa)
  51. Ingratitudine
  52. Invidia
  53. Ira (o rabbia, collera, furia)
  54. Inquietudine (o agitazione, irrequietezza)
  55. Ispirazione
  56. Lutto
  57. Malinconia
  58. Meraviglia (o stupore, ammirazione)
  59. Misandria
  60. Misantropia
  61. Misericordia
  62. Misoginia
  63. Noia
  64. Nostalgia
  65. Odio (o avversione, ostilità, malevolenza)
  66. Onore
  67. Orgoglio (o fierezza)
  68. Orrore
  69. Ossessione (o fissazione)
  70. Passione (o amore intenso, amore sensuale)
  71. Paura (o timore, fifa)
  72. Pentimento
  73. Perdono
  74. Piacere (o gradimento)
  75. Pietà (o magnanimità, clemenza)
  76. Preoccupazione
  77. Prostrazione (o avvilimento)
  78. Rammarico (o cruccio)
  79. Rimorso
  80. Rimpianto
  81. Risentimento (o rancore)
  82. Rispetto (o ammirazione, stima)
  83. Saudade (o nostalgico rimpianto)
  84. Schadenfreude
  85. Sehnsucht
  86. Senso di colpa
  87. Serenità
  88. Simpatia
  89. Soddisfazione (o gratificazione)
  90. Sofferenza
  91. Solidarietà
  92. Solitudine (o isolamento)
  93. Sorpresa
  94. Spensieratezza
  95. Speranza
  96. Tensione (o ansia irremovibile)
  97. Terrore (o paura incontrollabile)
  98. Tranquillità (o quiete durevole)
  99. Tristezza
  100. Vendetta
  101. Vergogna

Emozioni. Cosa sono

Le emozioni sono stati mentali e fisiologici associati a modificazioni psicologiche, a stimoli interni o esterni, naturali o appresi. Secondo la maggior parte delle teorie moderne, le emozioni sono un processo multicomponenziale, cioè articolato in più componenti e con un decorso temporale che evolve[1].

In termini evolutivi, o darwiniani, la loro principale funzione consiste nel rendere più efficace la reazione dell’individuo a situazioni in cui si rende necessaria una risposta immediata ai fini della sopravvivenza, reazione che non utilizzi cioè processi cognitivi ed elaborazione cosciente.

Le emozioni rivestono anche una funzione relazionale (comunicazione agli altri delle proprie reazioni psicofisiologiche) e una funzione autoregolativa (comprensione delle proprie modificazioni psicofisiologiche). Si differenziano quindi dai sentimenti e dagli stati d’animo, anche se questi termini vengono spesso usati indifferentemente nel senso comune.

Reazioni psicofisiologiche e stati emozionali

Secondo la teoria diencefalica di Cannon-Bard ,[2][3] lo stimolo emotigeno, che può essere un evento, una scena, un’espressione del volto o un particolare tono di voce, viene elaborato in prima istanza dai centri sottocorticali dell’encefalo, in particolare l’amigdala che riceve l’informazione direttamente dai nuclei posteriori del talamo (via talamica o sottocorticale) e provoca una prima reazione autonomica e neuroendocrina con la funzione di mettere in allerta l’organismo. In questa fase l’emozione determina quindi diverse modificazioni somatiche, come ad esempio la variazione delle pulsazioni cardiache, l’aumento o la diminuzione della sudorazione, l’accelerazione del ritmo respiratorio, l’aumento o il rilassamento della tensione muscolare.

Lo stimolo emotigeno viene contemporaneamente inviato dal talamo alle cortecce associative, dove viene elaborato in maniera più lenta ma più raffinata; a questo punto, secondo la valutazione, viene emessa un tipo di risposta considerata più adeguata alla situazione, soprattutto in riferimento alle “regole di esibizione” che appartengono al proprio ambiente culturale. Le emozioni, quindi, inizialmente sono inconsapevoli; solo in un secondo momento noi “proviamo” l’emozione, abbiamo cioè un sentimento. Normalmente l’individuo che prova una emozione diventa cosciente delle proprie modificazioni somatiche (si rende conto di avere le mani sudate, il battito cardiaco accelerato, etc.) ed applica un nome a queste variazioni psicofisiologiche (“paura“, “gioia”, “disgusto“, ecc.).

Secondo la teoria del feedback di James-Lange, l’emozione è una risposta ad una variazione fisiologica. Proviamo emozioni diverse perché ciascuna è accompagnata da sensazioni e reazioni fisiologiche differenti. Tali teorie sono state criticate, in quanto persone con lesioni al midollo spinale esprimono comunque emozioni, inoltre molte espressioni fisiologiche simili causerebbero simili emozioni, difficili quindi da individualizzare. In alcuni casi, specialmente per le forti emozioni, si ha comunque un’associazione diretta tra manifestazione fisiologica ed emotiva, senza però sapere se ne sia causa la prima o la seconda.[4]

Si possono avere delle reazioni emotive, delle quali però si è inconsapevoli, anche in assenza di modificazioni psicofisiologiche, come è stato proposto dal neuropsicologo Antonio Damasio, che distingue due tipi: emozioni primarie (innate, preorganizzate) e emozioni secondarie (elaborate dall’esperienza), attraverso i circuiti del “come se”[5]. Si può inoltre avere una reazione psicofisiologica ma non essere in grado di connotarla con una etichetta cognitiva, come nel caso dell’alessitimia.

Caratteristiche delle emozioni

Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Mimica facciale § La mimica facciale nelle emozioni.

Replicando gli studi compiuti da Charles Darwin nel libro pionieristico “L’espressione delle emozioni negli uomini e negli animali” (1872), lo psicologo americano Paul Ekman ha confermato che una caratteristica importante delle emozioni fondamentali è data dal fatto che vengono espresse universalmente, cioè da tutti in qualsiasi luogo, tempo e cultura attraverso modalità simili[6]. Come suggerisce il titolo del libro di Darwin, anche gli animali provano emozioni: hanno circuiti neurali simili, hanno reazioni comportamentali simili e le modificazioni psicofisiologiche da essi sperimentate svolgono le stesse funzioni.

Allo stato attuale non è possibile affermare scientificamente che gli animali provino anche i sentimenti, perché ciò richiederebbe che abbiano una forma di coscienza. Ekman, ha analizzato come le espressioni facciali corrispondenti ad ogni singola emozione interessino gli stessi tipi di muscoli facciali e allo stesso modo, indipendentemente da fattori quali latitudine, cultura e etnia. Tale indagine è stata suffragata da esperimenti condotti anche con soggetti appartenenti a popolazioni che ancora vivono in modo “primitivo”, in particolare della Papua Nuova Guinea.

La sorpresa si manifesta sul volto con le sopracciglia alzate e incurvate, la pelle sotto il sopracciglio stirata, rughe orizzontali attraverso la fronte, le palpebre aperte, quella superiore sollevata e quella inferiore abbassata, la mascella si abbassa ma senza alcun stiramento o tensione della bocca. La paura si manifesta sul volto attraverso le sopracciglia sollevate e ravvicinate, le rughe della fronte sono al centro e non attraversano la fronte, la palpebra superiore sollevata e la bocca aperta con le labbra leggermente tese o stirate all’indietro. Il disgusto si manifesta principalmente nella parte bassa del viso e nella palpebra inferiore, precisamente con il labro superiore sollevato, il labro inferiore sollevato e premuto a quello superiore oppure abbassato e lievemente protruso, il naso arricciato, le guance sollevate, pieghe sotto la palpebra inferiore e sopracciglia abbassate spingendo verso la palpebra superiore. La rabbia si manifesta sul volto attraverso le sopracciglia abbassate e ravvicinate, rughe verticali tra le sopracciglia, palpebra inferiore tesa ma non necessariamente sollevata, sguardo fisso e occhi che possono sembrare sporgenti, le labbra serrate con gli angoli diritti o abbassati o aperte e tese e le radici possono essere dilatate. La felicità si mostra sul volto attraverso gli angoli della bocca stirati all’indietro e sollevati, la bocca chiusa o aperta, una ruga che scende dal naso fino oltre gli angoli della bocca, le guance sollevate, la palpebra inferiore con rughe sottostanti ma non tesa e zampe di gallina agli angoli esterni degli occhi. La tristezza si manifesta sul volto attraverso gli angoli interni delle sopracciglia sollevati, gli angoli della bocca piegati in giù o le labbra tremanti e l’angolo interno delle palpebre superiori sollevato.

L’emozione ha altresì effetto sugli aspetti cognitivi: può causare diminuzioni o miglioramenti nella capacità di concentrazione, confusione, smarrimento, allerta, e così via. Il volto e il linguaggio verbale possono quindi riflettere all’esterno le emozioni più profonde: una voce tremolante, un tono alterato, un sorriso solare, la fronte corrugata indicano la presenza di uno specifico stato emotivo.

Lo sviluppo delle emozioni. Lo stato emozionale

Secondo John Watson il neonato evidenzia tre emozioni fondamentali che vengono definite “innate”: paura, amore, ira.[7] Entro i primi cinque anni di vita manifesta altre emozioni fondamentali quali vergogna, ansia, gelosia, invidia. L’evoluzione delle emozioni consente al bambino di comprendere la differenza tra il mondo interno ed esterno, oltre a conoscere meglio se stesso. Dopo il sesto anno di età, il bambino è capace di mascherare le sue emozioni e di manifestare quelle che si aspettano gli altri da lui.[8]

A questo punto dello sviluppo il bambino deve imparare a controllare le emozioni, soprattutto quelle ritenute socialmente non convenienti, senza per questo indurre condizioni di disagio psicofisico.[9]

Secondo le indicazioni ministeriali, nei programmi didattici contemporanei, anche nella scuola primaria, diventa essenziale per un insegnante riconoscere gli stati emotivi dei propri allievi e supportarli con il dovuto sostegno ai fini dello sviluppo psichico. Ciò permette loro di relazionarsi, attraverso un lavoro costante di costruzione, è possibile ricostruire le eventuali caratteristiche che alterano la normale crescita.[10].

“La scienza del sé” è una disciplina per insegnare a scuola le emozioni , ha come obiettivo analizzare i sentimenti propri e quelli che scaturiscono dai rapporti con gli altri, mira a studiare il livello di competenza sociale ed emozionale nei ragazzi come parte della loro istruzione regolare.[11]

Prospettive teoriche sullo sviluppo emotivo

Izard è il principale sostenitore della teoria differenziale, che interpreta lo sviluppo delle emozioni nel bambino secondo una prospettiva categoriale. Secondo questa teoria esistono un certo numero di emozioni innate o universali, il set di emozioni primarie o di base, che in generale comprende la paura, la gioia, la collera, la tristezza e il disgusto. Le emozioni primarie emergono strutturate come totalità, secondo un programma maturativo innato e universale, che con lo sviluppo da luogo alle espressioni emotive riconoscibili. Già dalla nascita esiste una concordanza biunivoca e innata tra espressione facciale ed esperienza emotiva, che garantisce la comunicazione sociale del bambino anche nella fase dello sviluppo preverbale e consente di fare conoscere i propri bisogni all’adulto di riferimento che a partire dall’espressione facciale riesce a riconoscere i segnali del bambino e attivarsi sul piano della cura. Le emozioni non di base, dette anche secondarie, miste e complesse come la vergogna, l’imbarazzo, la colpa e l’orgoglio emergono solo alla fine del primo anno di vita quando è presente la consapevolezza di .

La teoria della differenziazione invece sostiene che le emozioni siano il prodotto di un processo di differenziazione da uno stato iniziale di eccitazione. Sulla base degli studi della Bridge e della teoria “cognitivo-attivazionale” di Schacter e Singer, Sroufe sostiene che nel neonato sarebbe possibile distinguere uno stato di maggiore o minore eccitazione generalizzata, che si differenzierebbe in stati emotivi di sconforto e di piacere. Si possono individuare tre percorsi principali distinti che portano alle emozioni vere e proprie : il sistema del piacere/gioia, il sistema della circospezione/paura e quello della frustrazione/rabbia. Le emozioni fondamentali di gioia, paura e rabbia hanno origine da un precursore che compare precocemente e che costituisce il prototipo della successiva emozione vera e propria. Secondo Sroufe lo sviluppo emotivo avviene in relazione a periodi critici che comportano riorganizzazioni o salti tra una fase e l’altra.[12]

Leventhal e Scherer sono i sostenitori della teoria componenziale, secondo la quale le emozioni si sviluppano a partire da forme semplici e biologicamente radicate fino ad arrivare a configurazioni complesse. Distinguono tre diversi livelli di elaborazione degli eventi: sensomotorio, schematico e concettuale. Lo sviluppo delle emozioni nel bambino consiste nel passaggio lineare e sequenziale da un livello all’altro con la, riorganizzazione e l’arricchimento del significato dell’emozione. Se tra i tre livelli esiste un’integrazione funzionale nel corso dello sviluppo, sembra che i meccanismi riguardanti il sistema sensomotorio siano indipendenti rispetto agli altri due. [13]

Classificazione delle emozioni – tutte le emozioni, elenco delle emozioni

Magnifying glass icon mgx2.svg Emozioni quali sono: Sentimento § Elenco dei sentimenti, delle emozioni e degli stati d’animo (in ordine alfabetico).

Le emozioni primarie o di base, secondo una definizione di Robert Plutchik[14] sono otto, divise in quattro coppie:

Altri autori hanno tuttavia proposto una diversa suddivisione.

Secondo vari autori, dalla combinazione delle emozioni primarie derivano le altre (secondarie o complesse):

Aspetti patologici

L’alessitimia è l’incapacità o l’impossibilità di percepire, descrivere e verbalizzare le proprie emozioni o quelle altrui.

La componente patologica delle emozioni può essere trattata con interventi di psicoterapia o di counseling con metodi variabili secondo le diverse scuole di riferimento, ma anche secondo valutazione medica, con approcci farmaceutici, in particolare agendo sui neurotrasmettitori che regolano emozioni ed umore.[15]

Importanza clinica delle emozioni

Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Sindrome tako-tsubo.

Diversi studi in letteratura hanno dimostrato che lo stress e le emozioni negative incidono negativamente sul sistema immunitario, compromettendone l’efficienza di alcune cellule[16]. I dati più significativi sull’importanza clinica delle emozioni provengono da una vasta analisi condotta da Howard Friedman e Boothby-Kewley[17], in cui sono stati analizzati ed elaborati contemporaneamente i risultati di 101 studi più piccoli. I risultati di questa analisi hanno confermato come le emozioni legate alla sofferenza incidano negativamente sulla salute. Più nello specifico coloro che hanno sperimentato lunghi periodi di ansiatristezzapessimismo, sospettosità e ostilità hanno il doppio delle probabilità di sviluppare patologie quali artriteemicraniaasmaulcera gastrica e cardiopatie. Da questi dati si evince chiaramente che le emozioni negative rappresentano un importante fattore di rischio e di grave minaccia per la salute sebbene i meccanismi biologici dietro questa relazione non siano ancora del tutto chiari.

Note

  1. ^ Emozioni: la definizione, le componenti e le diverse tipologie, su State of Mind. URL consultato il 14 aprile 2019.
  2. ^ Cannon W.B. (1920) Bodily Changes In Pain Hunger Fear And Rage. Appleton & Co., New York.
  3. ^ Schachter S., Singer J. (1962) Cognitive, Social, and Physiological Determinants of Emotional State. Psychological Review, 69, pp.379-399.
  4. ^ Mark F.Bear, Barry W. Connors, Michael A. Pradiso (2007) Neuroscience: Exploring the brain, Third edition. Lippincott Williams & Wilkins- USA, Pag 586-587
  5. ^ Damasio A., L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, Adelphi, Milano, 1995, ISBN 978-88-459-1181-1
  6. ^ Ekman P., Basic Emotions. In: T. Dalgleish and M. Power (Eds.). Handbook of Cognition and Emotion. John Wiley & Sons Ltd, Sussex, UK, 1999.
  7. ^ Psychology from the Standpoint of a Behaviorist, Philadelphia, Lippincott, 1924 (seconda edizione) pp. 219-222.Per una critica della teoria di Watson vedere, ad esempio, Renzo Canestrari, Antonio Godino, Introduzione alla psicologia generale, Milano, Bruno Mondadori, 2002, pp.165-168.
  8. ^ Coppola O., Psicologia dello sviluppo ed educazione, Napoli, Simone, 1999, pag. 163, ISBN 978-88-244-5228-1
  9. ^ Coppola O., Psicologia dello sviluppo ed educazione, Napoli, Ediz. Simone, 1999, pag. 166, ISBN 978-88-244-5228-1
  10. ^ Maria Montessori, L’autoeducazione (1970), Garzanti editore. Pp. 65-67
  11. ^ Daniel Goleman (1999), Intelligenza emotiva. RCS Libri S.p.a. Milano. Pp. 421-424, Insegnare a scuola le emozioni.
  12. ^ Grazzani Gavazzi I. Psicologia dello sviluppo emotivo (2009) Bologna, Il Mulino
  13. ^ Vianello, R. Gini, G. Lanfranchi, S. Psicologia dello Sviluppo (2015)Torino, Utet Università
  14. ^ Plutchik R., The Nature of Emotions Archiviato il 7 maggio 2009 in Internet Archive., American Scientist, July-August 2001.
  15. ^ Deakin JF., il ruolo della serotonina in casi di panico, ansia e depressione, in: int Clin Psychopharmacol. 1998 apr; 13 suppl 4: S1-5.
  16. ^ Goleman D., Intelligenza Emotiva. Che cos’è e perché può renderci felici, Bergamo, Bur Rizzoli, 2011, pag. 273-274.
  17. ^ Howard Friedman e Boothby-Kewley, The Disease-Prone Personality: A Meta-Analytic View, American Psycholigist, 42, 1987.

Bibliografia

  • Panksepp, J., Biven, L., The Archeology of Mind. Neuroevolutionary Origins of Human Emotions, New York., W. W. Norton & Company 2012. (Tr. It. Archeologia della mente. Origini neuroevolutive delle emozioni umane. Milano, Cortina, 2014.)
  • Ekman P., Friesen W. V., “Unmasking the face. A guide to recognizing emotions from facial expressions”, (Tr. It. Giù la maschera. Come riconoscere le emozioni dall’espressione del viso, Firenze, Giunti Editore, 2007)

Voci correlate

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Il Capitale Psicologico.

Articolo Copyright in anteprima editoriale, a cura di: Dott. Daniele TrevisaniStudio Trevisani Academy

Il Capitale Psicologico (PsyCap) è oggetto di molte nuove ricerche negli Stati Uniti, dove si cerca di capire cosa “faccia la differenza” tra le organizzazioni che hanno successo e quelle che falliscono senza riuscire a rialzarsi. Dopo osservazioni scientifiche accurate, queste ricerche arrivano a definire il “Capitale Psicologico” dei leader come uno dei fattori di successo primari, in grado addirittura di superare come impatto il capitale tecnologico e finanziario d’impresa.

Lo PsyCap – ricordiamo – è un costrutto composto da quattro variabili specifiche:

  1. Speranza (Hope)
  2. Autoefficacia (Efficacy)
  3. Resilienza (Resilience)
  4. Ottimismo (Optimism).

Ricordiamo che nella letteratura specifica sullo PsyCap, questi concetti non sono strettamente collegati all’uso colloquiale di tali parole, ma hanno tutti  implicazioni operative concrete. Ad esempio, il fattore Hope – Speranza, è connotato come (1) il potere della volontà (willpower), (2) la determinazione, unite a (3) la capacità di pianificazione (planning). Si tratta come è evidente di una concezione di “speranza” non tanto assimilabile ad un credere ciecamente in un destino positivo quanto ad adoperarsi per farlo accadere.

Capitale Psicologico - Ottimismo, Resilienza, Determinazione, CoraggioCapitale Psicologico e Leadership

Il livello di PsyCap di una persona può impattare e influenzare il livello di PsyCap di un’altra persona e direttamente o indirettamente influenzarne i comportamenti relazionali. Per questo motivo, accrescere lo PsyCap è un obiettivo di grande valore da perseguire in chi dirige team di vendita e strutture di Direzione Vendite.

Dall’alto di un’organizzazione, lo PsyCap discende verso il basso e influenza l’intero team e ogni persona che ne fa parte. Ma non solo. Lo PsyCap influenza l’intera catena del valore, esercitando un influsso su tutte le persone con cui si viene a contatto, dai buyer ai clienti.

Lo PsyCap di un leader ha un impatto positivo sui suoi collaboratori (Story et al 2013) e questo a sua volta determina numerosi risultati desiderabili, siano essi attitudinali, comportamentali o di performance di vendita. Il meccanismo teorico del trasferimento di PsyCap da leader a follower, riferito anche come effetto contagio, include l’apprendimento sociale, l’osservazione, e il modellamento dei comportamenti e atteggiamenti osservati. I leader ad alto PsyCap sono modelli per i propri follower e influenzano positivamente il loro livello di PsyCap.

Il “Modeling” positivo (l’apprendimento per vicinanza, assimilazione e osservazione) è un vero e proprio trasferimento, pari a quello dell’osmosi. Questo Modeling include i comportamenti positivi direttamente osservabili, così come i ragionamenti positivi quali il darsi goal sfidanti, il problem solving creativo, la pianificazione, l’analisi degli aspetti positivi delle situazioni, le aspettative positive sul successo, e un’alta automotivazione.

Come osservano Friend, Johnson et al.[1]:

 

“La premessa dell’effetto contagio è che mentre i follower osservano l’impatto positivo combinato dei quattro componenti della risorsa PsyCap in azione, è più probabile che emulino i comportamenti associati allo PsyCap del loro leader (Story et al. 2013)[2]. Questo effetto si traduce in un processo in cui gli stati positivi dei leader vengono modellati e trasferiti ai loro seguaci attraverso il contagio emotivo. In altre parole, la positività mostrata dai leader si converte in positività del follower (Yammarino et al. 2008)[3]. Bono e Ilies (2006)[4] supportano questo transfert attraverso le loro conclusioni che il comportamento del leader è una fonte importante di informazioni che può influenzare le risorse psicologiche percepite dai seguaci. Specificamente per lo PsyCap, Story et al. (2013) indicano che i leader globali di un’azienda che esibiscono livelli più elevati di PsyCap agiscono come modelli di ruolo attraenti e credibili per i follower da imitare. In altre parole, le persone ad alto contenuto di PsyCap trasferiscono le proprie risorse psicologiche ai follower fungendo da guida mentale e comportamentale.”

 ___

[1] Friend, Scott B.; Johnson, Jeff S.; Luthans, Fred; and Sohi, Ravipreet, “Positive Psychology in Sales: Integrating Psychological Capital” (2016). Management Department Faculty Publications. University of Nebraska – Lincoln. Pag. 22

[2] Story, Joana S. P., Carolyn M. Youssef, Fred Luthans, John E. Barbuto, and James Bovaird (2013), “Contagion Effect of Global Leaders’ Positive Psychological Capital on Followers: Does Distance and Quality of Relationship Matter?,” The International Journal of Human Resource Management, 24 (13), 2534–2553.

[3] Yammarino, Francis J., Shelley D. Dionne, Chester A. Schriesheim, and Fred Dansereau (2008), “Authentic Leadership and Positive Organizational Behavior: A Meso, Multi-Level Perspective,” Leadership Quarterly, 19 (6), 693–707.

[4] Bono, Joyce E., and Remus Ilies (2006), “Charisma, Positive Emotions and Mood Contagion,” Leadership Quarterly, 17 (4), 317–334.