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Articolo estratto con il permesso dell’autore, dott. Daniele Trevisani, dal testo “Team leadership e comunicazione operativa. Principi e pratiche per il miglioramento continuo individuale e di team

Se pensi di conoscerti davvero bene, sappi che di fronte a sfide nuove potranno emergere lati di te che non conoscevi. E che in ogni caso, per osservarsi o vedersi, serve una grande quantità di strumenti e tecniche.

Come faresti a conoscere il colore dei tuoi occhi se non esistesse in tutta la terra uno specchio per poterti osservare? Questo specchio sono esperienze speciali, sono i professionisti che ti aiutano a percepire te stesso in questi momenti di picco, sono momenti di analisi guidata, di confronto, di introspezione. Per compiere un’esplorazione guidata occorre “lasciarsi aiutare” in questo processo di autoconoscenza.

La crescita personale è il primo vero passo della leadership e dello stare in un gruppo che vuole crescere e gioire. Crescita personale significa anche sfidare il destino, decidere su che cosa lavorare di sé stessi anziché pensare di essere solo e unicamente frutto di decisioni ed eventi esterni.

Farsi aiutare in un percorso di esplorazione e autodeterminazione è un atto intelligente. Farsi aiutare non significa diventare quello che “altri” vogliono, ma anzi, essere i protagonisti e registi dei propri cambiamenti desiderati. Se sali su un treno e ti fidi del macchinista, ricorda sempre che la destinazione l’hai scelta tu, il macchinista e il treno ti servono come strumenti per arrivare prima dove tu vuoi. Lo stesso vale per una guida alpina o un GPS nell’esplorazione di zone sconosciute.

Chi mi porge una lampada per osservare la strada al buio non mi sta dicendo dove andare. Mi sta solo dando uno strumento perché io possa decidere se andare a destra o a sinistra anziché nel burrone.

Come per il colore degli occhi, non lo conoscerai mai fino a che non avrai strumenti esterni per osservarlo. E anche quando tu avrai preso coscienza del fatto che sono verdi, marroni o azzurri, non cambierai mai il colore dei tuoi occhi con la tua volontà. Ma potrai cambiare la potenza e massa dei tuoi muscoli allenandoli bene, potrai cambiare la flessibilità delle tue articolazioni, la tua resistenza aerobica, la tua massa grassa e magra, la resistenza dei tuoi tendini, perché queste caratteristiche sono soggette alle tue azioni quotidiane, alle abitudini, al fatto di “allenarle”, e non solo frutto del destino. E le tue abitudini sono qualche cosa su cui si può assolutamente lavorare.

Vi sono alcuni tratti del carattere che difficilmente potrai cambiare, ma tanti altri che invece sono lavorabili, “costruibili”, soggetti a essere costruiti e potenziati, e la leadership, o una buona capacità comunicativa quando la vuoi avere e nelle occasioni in cui ti serve, sono assolutamente tratti allenabili e potenziabili.

Principio 3 – Il Locus-of-Control

La crescita personale è il primo vero passo della leadership e dello stare in un gruppo che vuole crescere e gioire. Crescita personale significa anche sfidare il destino, decidere su che cosa lavorare di sé stessi (Locus-of-Control interno) anziché pensare di essere solo e unicamente frutto di decisioni esterne ed eventi esterni (Locus-of-Control esterno).

Chi crede e ha visto in azione i cambiamenti che le persone fanno grazie a processi formativi e di coaching ben fatti, non può che credere nel potenziale umano. Questo vale sia per atti a prevalenza fisica, come lo sport, che in attività soprattutto manageriali, mentali e culturali.

Nello sport, chi ha visto i cambiamenti positivi di atleti in seguito a programmi allenanti ben fatti non può che rimanere sbalordito. Chi ha visto gli effetti di un allenamento combinato fisico e mentale sarà ancora più sbalordito.

Nelle professioni manageriali, chi ha trovato su di sé o in altri il miglioramento nelle capacità di public speaking in seguito a training dedicati non può che credere nella grande “plasticità” del potenziale umano, nella sua immensa potenzialità, nel fatto che si possa passare dal­l’essere introversi o “orsi”, oppure vedersi dotati di bassa autoefficacia, a diventare grandi comunicatori, purché si abbia voglia di lavorarci, e ci si dedichi tempo pensando che sia il momento speso meglio della vita e non tempo residuale o un lusso per pochi.

Formarsi è un investimento sacro. Se dovesse servirti un’ora, o un mese, o un anno, per migliorare la tua capacità di sostenere un esame o un test, quanti esami ne trarrebbero beneficio, in tutta la tua vita? E parlo di esami non solo formali, ma anche di colloqui nei quali in ogni caso il tuo “essere” viene fuori, che tu voglia o meno, viene osservato e percepito e di fatto produce la percezione che gli altri hanno di te.

S’impara sia facendo sia ripassando mentalmente l’azione. Un buon coaching sa quando avviare un tipo di apprendimento o l’altro.

Ci sono cose che si imparano meglio nella calma, altre nella tempesta.

Willa Cather

Investire su di sé significa lavorare sulle proprie capacità mentali, prima ancora che sulle conoscenze. Puoi avere studiato psicologia per decenni ma ancora non capire te stesso e le persone. Puoi avere letto migliaia di libri ma non saperne raccontare la sintesi.

Quante ore di studio possono mai compensare un’esposizione scarsa? Quando hai mai creduto a un dietologo che vedi coi tuoi occhi avere un corpo disfatto e sovrappeso?

Quante “spalline” finte servono per compensare una scarsa attenzione al corpo, quante panciere potrai mai indossare per far finta di ridurre il giro vita anziché lavorare sul tuo corpo ogni singolo giorno? Quante frasi e da quanti libri potrai rubare se non hai niente di tuo da dire di vero? Quante bugie potranno esserci nei proclami di un’azienda se poi nei fatti e nei prodotti che usi vedi che non corrispondono al vero?

Come ha detto il grande Bob Marley “You can fool some people sometimes, but you can’t fool all the people all the times” (in una traduzione non letterale, “puoi fregare qualcuno qualche volta, ma non potrai fregare tutti e sempre”).

Chi lavora su di sé ha sempre meno bisogno di fingere. Questa è la verità della Scuola del potenziale umano. Una scuola di Verità, di Ricerca, di Conoscenza.

Ci sono molti modi per conoscersi. In molti casi serve un lavoro di gruppo e un feedback onesto, in altri casi è nella solitudine che si forgia il guerriero, è nella durezza della realtà che si costruisce la leadership. Questo vale anche per i leader veri che non possono delegare ad altri il lavoro che devono fare su di sé.

Il più grande samurai della storia, Miyamoto Musashi (1584-1645), fu certamente un leader e ancora oggi è culturalmente un leader dopo secoli. Arrivò ad avere più di tremila studenti che studiavano sotto di lui, oppure sotto la guida di suoi allievi diretti; e oggi in Giappone ci sono molte scuole che derivano dalla sua. Ma vediamo come vi è arrivato.

Si ritirò in meditazione e insegnamento a cinquant’anni, vagò nelle foreste più impervie dai 13 ai 29 anni, sopravvivendo e sfidando con un bastone di legno altri samurai dotati invece di katana d’acciaio. Se fosse stato “nominato” samurai o avesse ereditato il titolo, non avrebbe vinto nemmeno contro una mosca morta. Quanti leader di oggi si sono veramente “fatti le ossa” combattendo sul campo, lottando per una causa, spesso senza aiuti, senza raccomandazioni, senza rinunciare ai propri valori?

Musashi, cresciuto maneggiando un bastone, aveva certamente un vantaggio su chi si era formato con ben più di risorse di lui. Al­l’epoca dei samurai un guerriero (bushi) aveva due spade alla cintura: la katana (spada lunga) e la wakizashi (spada corta). Musashi insegnava ai suoi allievi che morire con una di queste armi ancora nel fodero significava non aver fatto tutto il possibile per vincere.

Musashi si forgiò e si formò combattendo, visse diversi anni in totale eremitaggio nelle foreste più impervie, dedicandosi esclusivamente al­l’affinamento delle tecniche marziali dai 13 anni (età del suo primo combattimento mortale).

Togli a un leader i servi, gli yes-man, i soldi, le persone e le risorse ipocritamente ubbidienti, gli agi, mettilo da solo e senza risorse, e vedremo di che pasta è fatto davvero.

Chi è leader e coordina team ad alte prestazioni lavora su di sé sempre, e deve farlo per possedere doti di leadership oltre la media, perché le sfide che compaiono sono speciali.

Due esercizi pratici:

•     esaminiamo quanti messaggi servono in un solo giorno, per tenere coordinata un’azienda, comandare una nave, coordinare un’operazione di polizia, essere il coach di un team agonistico, di una squadra di calcio o di volley, di tennis o sport di combattimento, dirigere un gruppo di vendita o un team di miglioramento della qualità. O anche solo per servire bene a un tavolo di ristorante;

•     osserviamo questi messaggi: come sono costruiti, se fanno bene al raggiungimento degli obiettivi, quali motivano e quanti invece demotivano o distruggono il gruppo, il clima e la “missione”. Avremo subito un indicatore della Qualità della comunicazione operativa.

Per fare vera comunicazione operativa occorre volere comunicare bene ma anche ripulirsi dal timore di sbagliare o decidere male perché non abbiamo tutta la vita a disposizione per decidere. La vera paura deve essere non decidere. Si tratta di entrare a far parte di un’élite, sia per lo spessore delle persone che si comandano che per la volontà di saper tirare fuori il meglio di sé e degli altri.

Occorre comprendere che in realtà ciò che rende “speciale” un team, ancora prima che le azioni compiute, sono i tipi di atteggiamenti mentali. Il grado di concentrazione e di qualità del pensiero che precede l’azione, la capacità di vedere se stessi e saper diventare “archetipi” di un modo di essere, persone speciali, membri di un team, dedicati a una causa nobile.

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Articolo estratto con il permesso dell’autore, dott. Daniele Trevisani, dal testo “Team leadership e comunicazione operativa. Principi e pratiche per il miglioramento continuo individuale e di team

Chi aspira a sviluppare una professione con onore, come dirigere con vera leadership, o occuparsi di questioni importanti come la ricerca, le aziende, la medicina, la sicurezza, la scienza, le organizzazioni, le scuole, ovunque, prima deve fare i conti con la propria crescita personale, le proprie capacità e valori.

Bisogna prendere atto del fatto che il nostro carattere determina larga parte della nostra modalità comunicativa, lo stile di leadership, le decisioni.

Bisogna essere abbastanza umili per capire che il nostro carattere non è qualche cosa di inviolabile ma anzi lavorarvi è un atto sacro. È utile cercare di capire su quali tratti possiamo lavorare. È un atto sacro anche l’azione e il tentativo che mettiamo in atto per migliorarci, al di là che ci riusciamo o meno, o che ci riusciamo subito o dopo un periodo di tempo. Spesso il miglioramento richiede un percorso, e non un singolo atto.

Spesso il miglioramento richiede un percorso, e non un singolo atto. Chi affronta un percorso di miglioramento personale è sempre una persona coraggiosa. Ha il coraggio delle emozioni, ha deciso di guardarsi dentro, scoprire le alchimie della formula arcana in cui è inserito, capire come funziona il proprio ingranaggio interiore, e cambiarsi in meglio (Trevisani 2015).

Vogliamo migliorarci per essere sempre di più noi stessi nel nostro pieno potenziale e non persone che si nascondono dietro a scuse come “sono fatto così, che cosa vuoi farci?”.

Lavorare sul proprio carattere per migliorarsi significa ascoltare i propri valori senza rifiutarli, ma anche avere l’umiltà di pensare “posso sempre fare passi in avanti nel mio processo di miglioramento personale”. Chi non accetta questa visione potrebbe pensare di sé “sono il migliore, perché lo dico io”. Questa è sostanzialmente una forma di nevrosi.

Alexander Lowen (1982) ci mette in guardia chiaramente sui rischi che le nevrosi generano nelle persone. Prima di tutto, non saper imparare dal­l’esperienza.

Si dice che le persone imparino dal­l’esperienza, e in generale questo è vero: l’esperienza è il migliore e, forse, l’unico vero maestro.

Ma questa regola non sembra potersi applicare al campo della nevrosi. La persona non impara dall’esperienza ma ripete continuamente lo stesso comportamento distruttivo.

Aprirsi a capire prima di tutto “che cosa vorrei migliorare di me” è un grande processo di focusing[1], una focalizzazione consacrata, importante.

Fare focusing significa andare alla ricerca di chi siamo e come comunichiamo, che cosa sentiamo dentro di noi, e come questo si trasferisce all’esterno di noi.

Significa quindi andare alla ricerca di un manoscritto unico, un testo nascosto, che non è di facile accesso e si trova solo nel­l’esplorazione attenta e profonda. Questa esplorazione può essere appresa in appositi corsi, può essere potenziata quando guidata da professionisti esterni, ma al di là della tecnica richiede sempre e comunque una grande voglia di scoprire il massimo del proprio potenziale umano possibile.

Per lavorare sul carattere occorre un contributo esterno, che sia coaching, counseling o formazione esperienziale, pratica, confronto, feedback, motivazione alla voglia di migliorarsi.

Alexander Lowen (1982), sviluppatore della Bioenergetica, ci ricorda un fatto importante:

Il carattere determina il fato.

Per carattere si intende il modo di essere o di comportarsi tipico, abituale o “caratteristico” di una persona.

Definisce un insieme di risposte fisse, buone o cattive, indipendenti dai processi mentali coscienti.

Non possiamo cambiare il nostro carattere con un’azione cosciente, perché non è soggetto alla nostra volontà.

Di solito non siamo neppure coscienti del nostro carattere, perché diventa per noi come una “seconda natura”.

Avere voglia di capire i nostri limiti e opportunità, forze e debolezze, non ha niente a che fare con la ricerca di qualche forma di “patologia” mentale, non è un atto medico, conoscersi a fondo non è un percorso clinico ma anzi, diventerà operazione di scoperta quotidiana, operazione che ci porta alla scoperta della “cultura” che ci circola dentro, l’insieme di regole che usiamo inconsciamente nel nostro comportamento quotidiano.

Questo permette di tenere alla larga gli stati mentali negativi che rischiano di farci ammalare o di farci agire in modo automatico e senza il nostro consenso.


[1] Per la metodologia del focusing, vedi i testi di Gendlin (in particolare 2002); inoltre: Campbell e McMahon (2001); Elliot, Watson, Goldman e Greenberg (2007); Weiser Cornell (2007); Welwood (1994).

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Articolo estratto con il permesso dell’autore, dott. Daniele Trevisani, dal testo “Team leadership e comunicazione operativa. Principi e pratiche per il miglioramento continuo individuale e di team

team leadership

Esistono molte forme di leadership. Questo lavoro di ricerca vuole esaminare anche i gruppi come “sistemi di energie”.

Le energie nutrono e gli esseri umani hanno bisogno di comunicare tanto quanto hanno bisogno di aria, di proteine, di carboidrati, grassi e vitamine. Un buon leader è quindi anche un grande motore di energie. Usa la comunicazione consapevole del fatto che essa può essere nutrimento o invece tossina. Un buon leader ama il suo team e vuole il suo bene; in caso contrario, si tratta solo di un manovratore e di un burattinaio.

Vi sono metodi diversi per classificare i tipi di leader. Alcuni vedono il leader come un condottiero operativo immischiato nella battaglia e sporco di fango tanto quanto i suoi compagni di battaglie, altri come un visionario mistico, distaccato, etereo, superiore alle banalità quotidiane.

Un’alternativa è osservare un leader come generatore di energie, un direttore d’orchestra che sa canalizzare le energie e competenze di ogni musicista entro un brano in cui possono entrare decine o centinaia di strumenti per comporre qualche cosa di meraviglioso.

Ogni volta che due o più persone si uniscono per fare qualche cosa di speciale, nasce una nuova forma di energia. Le energie di più persone che credono in qualcosa non solo si sommano ma si moltiplicano. Le intelligenze altrui diventano le nostre risorse. Le energie degli altri sono lo stimolo che ci permette di superare i nostri limiti.

In un’esplosione di forze, prende vita un’entità, da una diade sino a un firmamento di persone che si influenzano a vicenda, producendo quello che in una letteratura esoterica viene chiamata un’“egregora” positiva, un’entità mentale generata dal pensiero e dallo stato mentale del gruppo, che opera quasi a sé stante, dona energia a ogni partecipante ed è in grado di influenzare lo stato di ogni singolo appartenente al gruppo stesso.

Quando entriamo in un insieme, in un ambiente, in una riunione, in un’azienda, possiamo quasi percepire il “clima” che si respira, o come in alcune canzoni viene descritta, la “vibrazione”, vibrazioni positive o vibrazioni negative. Sentiamo letteralmente la presenza di energie o l’as­senza di energie, in modo così forte e tangibile che la scienza deve ancora capire di che cosa si tratti veramente.

In altri insiemi notiamo la dominanza di “egregore” negative, stati mentali e comunicativi che drenano energie, leader tossici, e persone che inquinano il gruppo.

La leadership e la formazione, in senso forte, hanno a che fare con la creazione di gruppi in cui le persone hanno voglia di riversare le loro migliori energie venendone a loro volta ricaricate. Chi ne fa parte sente di essere entro qualche cosa di speciale, sente il proprio contributo, come il dipingere anche solo un tratto di un nuovo, fantastico, quadro a più mani.

Per farlo, occorre saper portare le persone a nuovi livelli di coscienza, e anche i leader devono saper fare di se stessi un grande laboratorio di crescita personale, per poter ispirare le coscienze e invitarle a elevarsi.

La qualità della comunicazione, intesa proprio come “tipo” di comunicazione che circola in gruppo, determina l’egregora dominante.

Quando in un gruppo predominano comunicazioni apatiche, negative, distruttive, e “leader tossici”, questo gruppo sarà presto appestato da energie emotive negative. Dove circolano messaggi chiari, circola rispetto, i messaggi sono portatori di valori, le persone si sanno ascoltare e valorizzare, allora questo gruppo viene permeato da energie emotive positive e ricarica ogni membro che vi appartiene.

La comunicazione operativa vuole fare risplendere questo firmamento nel suo pieno potenziale, alimentarlo di energie, proiettare nella sua danza, e non permettere che, come accade a tante stelle, imploda, si spenga, o si inquini. È questione di credere o meno nel potenziale umano e nel fatto di volere a tutti i costi vederlo innalzarsi nel suo splendore possibile (Trevisani 2008).

Che si tratti di gruppi di manager, di atleti, di vigili del fuoco e soccorritori, di una squadra di calcio o di pallavolo, di un’équipe marziale, di un gruppo di artisti, poco importa. Ciò che rende speciale un gruppo sono i valori che esso persegue. E come questi si trasformano in atti comunicativi di qualità.

Tali valori devono guidare i gruppi a fare cose che altri non possono nemmeno pensare o ad agire con spirito e passione.

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Articolo estratto con il permesso dell’autore dal testo di Daniele Trevisani – “Deep coaching. Il Metodo HPM™ per la crescita personale, il coaching in profondità e la formazione attiva”. Franco Angeli editore, Milano.

L’anima libera è rara, ma quando la vedi la riconosci: soprattutto perché provi un senso di benessere, quando gli sei vicino.

Charles Bukowski

La crescita personale assomiglia ad un viaggio compiuto per ritrovarsi, o per scoprire chi siamo davvero, o cosa potremmo essere. Questo vale anche per la crescita professionale. Alla base di tutto vi è la volontà di accedere a nuovi livelli di vita, o a nuovi livelli professionali, e persino a nuovi stati emotivi. Per farlo con successo, tuttavia, serve un modello che ci guidi. 

Il modello Deep Coaching, derivazione del Modello HPM (Human Potential Modeling) sviluppato per la crescita del potenziale umano, ha proprio questo scopo.

In particolare, un metodo di crescita personale o professionale deve rispondere ad alcune domande di base: 

  1. quali fattori primari prendere in considerazione per liberare il potenziale e di conseguenza le performance? 
  2. come si può attivare una buona formazione esperienziale e un coaching in profondità (Deep Coaching) per stimolare la crescita delle energie personali, delle competenze, della progettualità, sino ai valori e alla spiritualità? 

Al centro di tutto questo ragionamento c’è la convinzione profonda che l’essere umano possa prendere in mano larga parte delle redini del suo destino. Per farlo, occorre fare alcuni cambiamenti radicali, proposti nel Metodo HPM (Human Potential Modeling), che qui trattiamo. Dobbiamo imparare a fare cose che non facevamo prima, come il lavoro bioenergetico sul corpo, il training mentale, e tante altre aree previste nel metodo, e farle diventare abitudini sane e positive per la nostra crescita personale.

Sembra sempre impossibile, finché non viene fatto

Nelson Mandela

Se fai tuo questo pensiero, scoprirai che puoi avventurarti in nuove strade della vita, crescere, migliorare e cambiare il tuo modo di pensare, il tuo corpo, il tuo stato mentale e la tua comunicazione e i rapporti con gli altri. Puoi arricchire emotivamente la tua vita. Puoi aiutare gli altri a migliorare a loro volta. Puoi lasciare un segno del tuo passaggio. Puoi dare un contributo alla Civiltà Umana.

Il metodo si interessa sia di chi opera nelle performance di élite (testato in 30 anni di lavoro sul campo nel top management, sport agonistici, ma anche progetti aziendali di alta rilevanza strategica) che della vita quotidiana, e delle azioni di tutti i giorni.

È convinzione diffusa che le performance siano sforzi destinati ad un fine. Vero, ma proviamo per un attimo ad invertire il punto di vista, ed osservare le performance umane come un “termometro”, un indicatore del grado di libertà e di auto-espressione raggiunto. 

Questo ci permette di trovare un fine molto più nobile che non siano prestazioni aride e fini a sé stesse: l’elevazione verso livelli di energie, competenze e cause superiori, sia in senso materiale che spirituale.

Il tema dominante di tutto il nostro pensiero va ricentrato, e presto. 

Dobbiamo spostarlo dal baratro di banalità in cui il pensiero comune, la televisione, i media commerciali, le letture stupide, e la cultura mediana cercano continuamente di spingerci per non farci pensare. 

Dobbiamo cambiare i parametri che usiamo per valutare noi stessi e gli altri. Il conto corrente o la bellezza esteriore sono solo indicatori apparenti, e spesso fuorvianti, di chi sia veramente una persona e di quale sia il suo vero valore.

Dobbiamo liberarci dal cancro mentale che tu sia solo Genetica e tu non abbia alcuna possibilità di influire su ciò che sei, a cosa guardi, verso dove sei diretto, e quindi sul tuo futuro. Dobbiamo iniziare a praticare concretamente la crescita personale e non solo a desiderarla.

Qualunque cosa tu possa fare, qualunque sogno tu possa sognare, comincia. L’audacia reca in sé genialità, magia e forza. Comincia ora.

Johan Wolfgang von Goethe

La tua dote genetica può aver deciso la tua altezza, ma sono nelle tue mani il tuo potenziamento muscolare, la tua flessibilità articolare, o il tuo peso, e persino la tua rapidità di ragionamento, o la liberazione dall’ansia mentale e dallo stress inutile, o da un’immagine di sé improduttiva e dannosa. Sono tutti fattori allenabili e lavorabili con un buon programma di coaching e di training, fatti in profondità. 

Nel Deep Coaching dobbiamo mettere al centro la sacralità dell’essere umano e il forte bisogno di non sprecare nemmeno una vita, nemmeno un giorno, nemmeno un minuto, in qualcosa che non sia legato ad una visione positiva, di emancipazione e di crescita.

E, per crescere o reindirizzare il pensiero, le buone intenzioni non sono sufficienti. Serve un metodo che aiuti a canalizzare questo sforzo positivo. 

Qualsiasi sia la tua età o condizione, non è mai troppo tardi per iniziare o intensificare un lavoro su te stesso orientato alla tua crescita personale o professionale.

© Articolo estratto con il permesso dell’autore dal testo di Daniele Trevisani – “Deep coaching. Il Metodo HPM™ per la crescita personale, il coaching in profondità e la formazione attiva”. Franco Angeli editore, Milano. Vietata la riproduzione senza citazione della fonte.

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Articolo estratto con il permesso dell’autore dal testo di Daniele TrevisaniIl potenziale umano. Metodi e tecniche di coaching e training per lo sviluppo delle performance”. Franco Angeli editore, Milano.

Bilancio delle competenze e psicologia del ruolo

I profili di competenze variano di ruolo in ruolo. Le macro-competenze riempiono di contenuti il ruolo professionale.

Per costruire un piano di sviluppo delle competenze, è necessario costruire una lista di competenze necessarie, avviare la loro valutazione e individuare delle criticità.

Per ciascun punto, viene svolta una valutazione approfondita a livello interpersonale con colloqui in profondità. Le tecniche possono inoltre comprendere l’autovalutazione, la valutazione da parte altrui, o la conduzione di veri e propri test comportamentali e di abilità per ogni area di macro competenza.

Una valutazione bassa deve far emergere immediatamente urgenza di intervenire, di training, di approfondimento.

Le possibili aree sulle quali approfondire la conoscenza sono una moltitudine, e per poter dare una priorità occorre una analisi congiunta che tenga conto del contesto in cui vive l’azienda e il mercato.

Nel caso in questione, si esemplifica il caso di un Direttore Generale che proviene dall’area della finanza, all’interno di un’azienda che affronta un processo di trasformazione da “orientamento alla produzione” ad “orientamento al marchio e al cliente”.

L’essenziale, per il coach o formatore che lo debba assistere, è costruire un piano “centrato sulla persona” e contemporaneamente “centrato sugli scenari”, capire verso quale sviluppo si dirige l’azienda, e le dinamiche del settore.

Definire il piano di sviluppo delle macro-skill è possibile solo analizzando in modo congiunto (1) i punti di forza e debolezza delle competenze attuali, e (2) il contesto nel quale le competenze devono essere spese ed utilizzate.

Nel caso evidenziato, emergono le priorità di concentrarsi innanzitutto sulle competenze di marketing e comunicazione aziendale (vettore di sviluppo 1), sulla leadership (vettore 2) e sulle sue capacità di coaching (vettore 3).

Per capire a fondo quali sono le traiettorie di cambiamento di un ruolo serve una grande dote di visione d’insieme. È inoltre indispensabile ragionare su quali sono i veri “centri di gravità” che danno spessore ad un ruolo, come questi cambiano nel tempo, e saper condurre stime sulle traiettorie future probabili.

Una delle aree più delicate di cui tenere conto è inoltre la psicologia del ruolo: quanta componente di un ruolo ha natura psicologica, quanta è invece la sua parte tecnica? E come varieranno queste in futuro?

La psicologia del ruolo è uno dei fattori più delicati in qualsiasi team che cerchi prestazioni e qualsiasi azienda, oltre che per l’individuo. Ad esempio, se una squadra di calcio vuole cambiare tattica di gioco e basarsi molto di più sugli schemi, e meno sui “colpi di genio” individuali, il ruolo psicologico di ciascuno cambia: da individualista a contributore, da lupo solitario a membro di un branco, da libero battitore a parte di un insieme. Il modo con cui si misurerà la qualità di gioco dovrà cambiare anch’esso coerentemente, non più solo ed unicamente sui “goal fatti” ma sul tipo di contributo dato alla squadra. Ogni tipo di “gioco” o “sfida” prevede una forte capacità di intervenire sulla psicologia del ruolo che ne permette il successo.

Principio 29 – Macro-competenze e metabolismo del cambiamento

Le performance vengono depotenziate o non si raggiungono quando:

  • il ruolo non è compreso e la psicologia del ruolo non è capita o accettata;
  • si sviluppano incoerenze significative tra competenza professionale individuale e il job profile (profilo di competenze della posizione professionale), in sé, o in uno o più membri del team o dell’organizzazione;
  • le job description (descrizione delle attività inerenti il ruolo) perdono di vista i veri tratti fondamentali o non comprendono i veri centri di gravità delle performance;
  • non sono chiare o vengono mal comunicate le attese dell’azienda rispetto al ruolo,  le attese di risultato;
  • non ci si è posti il problema delle attese di se stessi rispetto al sé professionale;
  • le sfide che l’ambiente e il lavoro pongono sul sistema di competenze personali sono superiori alle capacità e non esiste un piano serio per la crescita,
  • le direzioni del cambiamento negli scenari e negli ambienti esterni sono poco analizzate, incomprese o subite passivamente, aumenta l’entropia delle competenze, si genera stress continuativo o di picco legato al cambiamento continuo;
  • viene posto troppa enfasi sul training inteso come “copertura di falle”, e poca sulla bildung, l’acquisizione di spessore umano e culturale proattivo e di meta-competenze.

Le performance aumentano quando:

  • il ruolo è esaminato, compreso e accettato non solo in superficie (interiorizzazione del ruolo);
  • la psicologia del ruolo trova collimazioni importanti con la psicologia della personalità individuale, si creano match buoni tra psicologia del ruolo e psicologia individuale;
  • i diversi job profile (profili professionali) trovano buona coerenza e distribuzione nell’organigramma o nella struttura del team;
  • le job description (descrizione delle attività inerenti il ruolo) comprendono i veri tratti fondamentali e i veri centri di gravità delle performance;
  • le attese dell’azienda o dei leader e coach, rispetto al ruolo, e le attese di risultato, sono chiare o vengono chiaramente comunicate;
  • esiste collimazione tra (1) attese e aspettative individuali e (2) il sé professionale;
  • le direzioni e traiettorie del cambiamento negli scenari e negli ambienti esterni sono analizzate, capite, non subite, viene svolto un lavoro importante non solo di adeguamento ma per trovare spazi di espressione;
  • viene combattuta l’entropia delle competenze, lo stress continuativo o di picco legato al cambiamento continuo;
  • la formazione cambia registro e affianca al training inteso come “copertura di falle”, anche e soprattutto azioni di bildung, l’acquisizione di spessore umano, saggezza, capacità culturale, capacità di ampio respiro e meta-competenze, maggiormente resistenti al cambiamento delle singole micro-competenze.

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  • attese di se stessi rispetto al sé professionale;
  • sfide che l’ambiente e il lavoro pongono sul sistema di competenze;
  • direzioni del cambiamento nel ruolo e stress legati al cambiamento.

Il tema delle macro-competenze ci pone il problema della rigidità o flessibilità al cambiamento e degli spazi di arricchimento del proprio repertorio di competenze professionali.

Mai, in nessun momento, possiamo considerare che non vi sia spazio per crescere, sia esso uno spazio verticale (aumentare le conoscenze entro una disciplina) ma ancora maggiormente uno spazio orizzontale (allargare la conoscenza a campi laterali).

Esiste un grado di collimazione variabile tra il Self personale e il ruolo che si è chiamati (o si è deciso) di interpretare. Maggiore il grado di collimazione è maggiori sono le possibilità di espressione. Maggiore è lo spazio conoscitivo coperto, maggiori sono le opzioni di vita e professionali praticabili.

Figura 8 – Grado di collimazione tra Io e ruolo

Macro-Skill ed entropia delle competenze

Il fatto che il Self, il concetto di sé, cambi nel tempo, incide sulle proprie attese di ruolo. Ad esempio invecchiando si diventa, generalmente, un po’ più tradizionalisti, un po’ meno avventurosi, un po’ meno propensi al rischio, e se il ruolo richiede invece la stessa dinamica e condizione energetica si può creare un progressivo divario.

Un area manager – venditore internazionale che deve trascorrere all’es­t­e­ro svariati giorni al mese, per molti mesi all’anno – può trovarsi estremamente a suo agio negli anni iniziali (euforia del ruolo), per poi modificare drasticamente l’atteggiamento verso il ruolo nel momento in cui abbia una famiglia con figli, e desideri passare più tempo con loro e smettere di viaggiare in continuazione.

Ogni ruolo evolve nel tempo, nessun ruolo si può interpretare nello stesso modo per tutta una vita, anche per il semplice fatto che gli scenari cambiano.

Clienti, fornitori, concorrenti, colleghi, evolvono e creano un cambiamento di fatto nell’ambiente che ci circonda, creando di conseguenza una entropia delle competenze. L’entropia è un concetto della fisica che denota un au­mento dello stato di disordine o caos in un sistema, e ha molti risvolti interessanti per il sistema delle competenze e per la formazione.

La storia economica pone continuamente le persone di fronte ad un degrado sempre più rapido delle competenze acquisite. Negli anni ‘50 si poteva essere imprenditori di successo parlando solo il dialetto locale, ad esempio vendere mobili o artigianato solo in regione e parlare solo in dialetto, o avere solo un mercato locale in una regione, e conoscere solo il dialetto locale. Ora al massimo chi conosce solo un dialetto locale potrà essere rivenditore, ma non certo sperare di inserirsi nel mercato globale. E man mano che i dialetti si perdono, anche quest’ultima possibilità sparirà.

Man mano che il mercato diventa sempre più internazionale, cresce la necessità di muoversi almeno in un mercato interculturale. La globalizzazione impone alla stragrande maggioranza delle aziende di sapersi muovere su più fronti. Il ruolo imprenditoriale quindi non può essere condotto con la stessa efficacia perché l’ambiente cambia, e quindi è importante saper far evolvere il ruolo e le sue caratteristiche.

Lo stesso accade per un insegnante.Un Maestro classico doveva essere soprattutto preparato nella sua materia (es.: per un insegnante di matematica, sapere la matematica), mentre un insegnante moderno deve essere anche e soprattutto un comunicatore, un pedagogista, una persona in grado di trasmettere e coinvolgere, e nella pratica il suo essere un buon conoscitore di matematica non è più sufficiente.

Anche nello sport l’entropia è in agguato. Un allenatore sportivo di squadre giovanili, non può più essere solo un ex-calciatore che insegna a tirare calci al pallone, urlando insolenze a chi sbaglia. Le attese sono che sappia essere motivatore e coach, stratega e psicologo della squadra e del singolo.

Nessun genitore permette più a nessun allenatore di maltrattare i propri ragazzi. Il contesto è cambiato. Mentre prima poteva permettersi di essere solo un grande tecnico e magari un ex calciatore, oggi deve essere anche mentor e motivatore.

La situazione ottimale richiede una sovrabbondanza di competenze rispetto al ruolo. Il soggetto che possiede un bagaglio superiore rispetto al ruolo richiesto può esperire disagio, ma dall’altro lato è più flessibile rispetto a nuove esigenze o a spostamenti di ruolo, così come a mutamenti di scenario che pongano sfide nuove o superiori.

Al contrario, la persona che conosce solo il minimo indispensabile rispetto al ruolo odierno, andrà incontro presto ad invecchiamento professionale. Il soggetto non riuscirà presto a corrispondere alle aspettative dell’azienda, o degli scenari e sfide che è chiamato a fronteggiare.

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Esempio dell’addestramento dei Samurai

L’analisi degli atteggiamenti e comportamenti sul piano micro riguarda anche come il pensiero si formula prima e durante la prestazione.

Osserviamo alcune competenze proposte da Musashi nell’addestramento dei Samurai. Ciascuno di questi insegnamenti può essere disaggregato e trasformato in micro-competenza allenabile:

L’atteggiamento che si deve tenere nei confronti dell’Hejò (la via del Guerriero, n.d.a.) è lo stesso che si ha nella vita quotidiana, sia in tempo si pace che in guerra. Il vostro punto di vista deve essere il più vasto possibile quando esaminate la realtà intorno a voi. Siate sereni e non perdete le staffe. La mente deve mantenersi al centro e non fluttuare. Il vostro spirito deve essere saldo, non lasciatevi mai andare, neppure per un attimo. La vostra mente sia lucida, elastica, libera aperta.

Anche quando il vostro corpo riposa state sempre all’erta. Quando vi muovete rapidamente la mente deve rimanere distaccata, fredda, essa non deve essere soffocata dal corpo, né il corpo dalla mente. Affidatevi allo spirito e ignorate la materia.

[1] Musashi, Myamoto (1644), Il libro dei cinque anelli (Gorin No Sho), edizione italiana Mediterranee, Roma, 1985, ristampa 2005.

Ed ancora, in un passaggio successivo:

Colpire il nemico nella giusta frazione di tempo significa saper cogliere l’attimo in cui egli appare indeciso e sferrare il colpo senza muovere il vostro corpo, né alterare il vostro spirito.

Il momento esatto di colpire il nemico, prima che abbia deciso di indietreggiare, parare o assalire, è la “giusta frazione di tempo”.

Un vero professionista di coaching e formazione deve saper prendere questi temi e trasformali in training a livello micro, per poi ricomporre l’intero quadro e dare a tutte le fasi un senso d’insieme.

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Come gestire i doppi legami

Le micro-competenze riguardano ogni sfera, siano essi atti fisici o atti comunicativi. In campo comunicativo un esempio interessante è dato dalle situazioni di double-bind, o doppio legame, evidenziate da Bateson[1].

Il doppio legame indica una situazione in cui, tra due individui uniti da una relazione emotivamente rilevante, i messaggi dell’uno verso l’altro presentano una dose di incongruenza. Ad esempio, un genitore che dica ad un figlio “devi dire sempre quello che pensi” e poi lo punisca se a scuola o in casa lo fa.

L’incongruenza può riguardare due lati dello stesso messaggio, uno dei quali disconferma l’altro, o incoerenze tra il livello del discorso verbale (le parole), non verbale (modi, gesti, tempi, situazioni di contesto) e comportamenti reali.

Le incongruenze sono molto comuni, ma il tratto patologico avviene quando il ricevente non ha la possibilità di reagire, o non riesce a capire quale dei due livelli che si contraddicono sia quello vero, e nemmeno è nelle condizioni a far notare all’altro l’incongruenza.

Secondo Borsoni[2], le caratteristiche di una situazione di doppio legame, come individuate da Bateson, sono:

a) l’individuo è coinvolto in un rapporto intenso, un rapporto in cui egli sente che è d’importanza vitale saper distinguere con precisione il genere di messaggio che gli viene comunicato, in modo da poter rispondere in mo­do appropriato;

b) l’individuo si trova prigioniero in una situazione in cui l’altra persona che partecipa al rapporto emette, allo stesso tempo, messaggi di due ordini diversi, uno dei quali nega l’altro;

c) l’individuo è incapace di analizzare i messaggi al fine di migliorare la propria capacità di discriminare a quale ordine di messaggio debba rispondere, cioè egli non è in grado di produrre un enunciato metacomunicativo.

A queste riflessioni aggiungo un tratto importante: d) i tentativi di chiarificare la situazione, capire il senso reale, smontare i giochi in corso, sono impossibilitati, o dall’altra persona che non accetta o vuole la chiarezza, o dalla scarsa energia necessaria per farlo, scarsa assertività, scarsa autostima in grado di alimentare il bisogno di chiarezza, o scarse competenze comunicative.

Per smontare le situazioni comunicative di doppio legame serve una capacità che in altro campo (semiotica) viene chiamata di débrayage: capacità di smontare il testo, riconoscerne le diverse parti e loro interazioni, creare una distanza tra se stessi e il testo tale da poterla analizzare, o anche disinnescare.

Per fare débrayage comunicativo serve quindi una duplice competenza che viene sia dalle scienze della comunicazione che dalla psicologia, e non è per niente comune o scontato possederla.

È indispensabile quindi allenarsi a: (1) riconoscere, e (2) reagire a brani conversazionali che contengono doppi legami o contraddizioni subdole.

Riconoscere e gestire i doppi legami è un esempio di micro-competenza estremamente importante, in quanto i messaggi a doppio legame sono tra le fonti principali di disagio psichico e persino di patologia e sofferenza sia morale che fisica.

Questo viene sia dall’esposizione cronica a situazioni di messaggi a doppio legame in famiglia, che nei rapporti lavorativi in cui si subiscono continuamente comunicazioni imprecise e contraddittorie, da clienti o capi o colleghi, senza capacità di reagire.

Come abbiamo notato, le micro-competenze sono un tratto di apprendimento importante ma difficile, in quanto si producono in pochi istanti avvenimenti che hanno dietro di se una grande teoria e bisogno di analisi.

Questa analisi, tuttavia, è ciò che differenzia i principiati dai professionisti delle performance. Per ogni coach, è quindi importante capire se vogliamo essere professionisti o dilettanti, qualsiasi sia il campo di azione.


[1] Bateson, G. (1972), Steps to an Ecology of Mind: Collected Essays in Anthropology, Psychiatry, Evolution, and Epistemology, University Of Chicago Press, Chicago.

Bateson, G. (1979), Mind and Nature: A Necessary Unity (Advances in Systems Theory, Complexity, and the Human Sciences), Hampton Press, Cresskill, NJ.

[2] Borsoni, P. (2008), Metacomunicazione, disconferma, doppio legame, nelle teorie di Bateson, Laing, Watzlawick, tratto da www.paoloborsoni.net/bateson.htm – articolo originale in La Critica Sociologica, n. 90-91, Roma.

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Macro-abilità e micro-abilità nel metodo HPM

Qualsiasi azione e prestazione richiede abilità.

Le abilità possono essere suddivise in trasversali (es.: abilità relazionali) e applicative (es.: conoscere un software specifico).

Anche in campo sportivo le abilità possono essere di tipo interdisciplinare, come le capacità di coordinamento psico-motorio, e specifiche, es.: sapersi coordinare durante un salto in alto.

Nel metodo HPM proponiamo un modo diverso e interessante per considerare le abilità. Un modo non alternativo o migliore, ma complementare, rispetto a quanto evidenziato. Si tratta di distinguere tra macro-abilità (o macro-competenze) e micro-abilità (o micro-competenze).

Le macro-abilità sono la gamma di skill che un certo ruolo richiede, es.: per un manager, essere orientato ai risultati, conoscere una certa lingua, avere doti di leadership, e altre capacità connesse al suo ruolo. Le macro-abilità sono collegate ad una specifica job-description (descrizione delle attività e del ruolo) e ad uno skills-profile (profilo di competenze).

Lo stesso si può dire per un atleta: un giocatore di calcio può essere valutato in termini di abilità e poteri quali: forza fisica, resistenza aerobica, senso tattico, spirito di squadra, e altri.

Le micro-abilità sono invece molto più difficili da inquadrare e racchiudere in uno schema. Comprendono aree del sapere e dell’azione di misura estremamente ridotta (micro nel tempo e nello spazio) ma così pervasive da condizionare nettamente lo sviluppo del potenziale – e divenire materia primaria di formazione e allenamento.

Ad esempio, un calciatore professionista prima di tirare un calcio di rigore cura persino su quale ciuffo d’erba piazzare la palla e la presenza di eventuali avvallamenti, un dettaglio che sfuggirebbe a qualsiasi dilettante. Un negoziatore abile sa cogliere da un cenno dei muscoli facciali qualsiasi stato di tensione latente. Ogni performance ha proprie aree di micro-capacità

Dobbiamo quindi inquadrare cosa differenzia una micro da una macro competenza.

Partiremo dall’esempio per poi giungere ad una formulazione generale. Il pu­gile, il kickboxer, il thayboxer, hanno propri repertori di macro-com­pe­ten­ze denominabili: il jab, il diretto, il gancio, il montante (per il pugile), il clinch (lavoro corpo a corpo), la ginocchiata, il colpo di gomito (per il thay­boxer).

Sia in queste azioni che nei momenti di guardia senza combattimento, però, notiamo una serie di micro-azioni non denominabili o difficilmente denominabili (dettagli) che incidono enormemente sulla performance complessiva: la modalità di respirare mentre si lancia un colpo, la modalità di appoggiare i piedi a terra e muoversi mantenendo una guardia, le micro-finte, le angolazioni dei gomiti o delle braccia, la distribuzione adeguata della forza nella fase di avvio o conclusiva di un colpo.

Man mano che procede l’analisi delle micro competenze, emergono altri det­tagli per il coaching: come produrre l’arresto del “trascinamento” della for­za oltre il punto zero (punto di massima potenza)? Come gestire l’e­qui­li­brio, come migliorare la gestione delle energie durante il combattimento e nel­le sue fasi?

Queste micro-competenze creano una enorme differenza tra atleta ed atleta, e – dopo una fase in cui la persona abbia appreso le tecniche principali (ma­cro-tecniche) – lo sviluppo del potenziale passa attraverso l’affinamento delle micro-competenze.

Simili dinamiche si ritrovano nella performance manageriale. Esempio ap­plicativo per la Direzione commerciale:

Competenze manageriali macro, tra cui:

  • creare un piano di sviluppo commerciale pluriennale,
  • definire un piano commerciale/marketing annuale,
  • sviluppare un piano di marketing territoriale (piano di sviluppo-paese),
  • definire i budget di vendita per i diversi canali e aree (obiettivi di vendita),
  • gestire le forze vendita interne ed esterne,
  • creare un piano di formazione e sviluppo formativo per il proprio personale,
  • organizzare una campagna di comunicazione, informazione o promozione,
  • organizzare una campagna di vendita,
  • realizzare una presentazione in pubblico per illustrare dati o progetti,
  • valutare l’affidabilità di un cliente,
  • definire le condizioni di consegna.

Competenze micro (ne elencheremo solo alcune a titolo esemplificativo):

  • gestire i turni conversazionali durante le riunioni con i clienti o con le forze di vendita (turn-taking, turn-management),
  • mantenere la conversazione con un cliente all’interno degli obiettivi (content management comunicativo),
  • utilizzare metafore e altri “dispositivi retorici” efficaci durante una presentazione,
  • utilizzare le tecniche di riformulazione e ricentraggio durante il colloquio con un cliente o collaboratore,
  • leggere le emozioni di un proprio collaboratore dal suo comportamento non verbale (emotional detection),
  • esprimere il proprio disaccordo su una condotta intrapresa da un proprio collaboratore e saperlo correggere (leadership assertiva),
  • capire quando una conversazione sta procedendo nei termini corretti (analisi della conversazione) e saperla ricondurre a stati positivi (leadership conversazionale),
  • aumentare l’enfasi su un argomento cui si vuole dare importanza, far salire i toni su un certo tema (up-keying) e ridurre o minimizzare un tema o un momento di interazione (down-keying);
  • far salire la tensione emotiva (tecniche di escalation) o far raffreddare la temperatura emotiva (tecniche di de-escalation);
  • costruire e condurre role-playing, come metodo di formazione attiva e coaching interno, con cui mostrare e far provare ad un proprio collaboratore una modalità di comportamento, o una diversa tecnica di trattativa o modo di comunicare.

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Analizzare i dettagli del frame per un migliore intervento

Anche in azienda è essenziale localizzare i vari frame, e in ogni performance dobbiamo capire dove intervenire e dove fare formazione

Come esempi possiamo individuare una performance di vendita, un obiettivo commerciale da raggiungere, ed esaminare quali sono i fattori che ci porteranno a quell’obiettivo, quali sono i frame significativi. Avremo quindi maggiore dettaglio per capire come intervenire. Esamineremo quindi:

Il frame della fissazione degli obiettivi di vendita: come vengono fissati, con che criteri? Che spazi di miglioramento abbiamo in questo frame?

Il frame della consegna degli obiettivi alle forze vendita o della suddivisione dell’obiettivo: sto tenendo conto delle competenze ed energie? Sto valorizzando le persone al massimo o sto sprecando competenze con una distribuzione sbagliata? Sto tenendo conto di fattori logistici e del territorio? I tempi sono coerenti? Sto valorizzando il momento stesso della consegna dell’obiettivo (strategia di up-keying) o lo sto svalutando e sminuendo (strategia di down-keying)?

I frame di progettualità: costruire progetti esecutivi articolandoli in specifiche campagne di vendita. L’obiettivo primario viene diviso in specifiche campagne commerciali, ciascuna di breve durata ed alto impatto, dove ogni campagna è mirata a target e segmenti di mercato precisi. In questo modo avremo più capacità di controllo e maggiore focalizzazione su target specifici, con incrementi generali di efficienza ed efficacia.

I frame di controllo e di leadership: chi tiene le fila? Quando? Come? Tramite riunioni, telefono, e-mail, cruscotti informatici? Come avvengono le comunicazioni centro-periferia, direzione e forze vendita, e tra le forze stesse, con che frequenza, con che qualità?

I frame motivazionali e di feedback: diamo gratificazione ai risultati anche in progress? Riusciamo a notare cali di motivazione e intervenire? Riusciamo a capirne la causa?

I frame formativi e di coaching: ogni obiettivo ha dietro di se necessità formative, di prodotto, o nelle capacità di vendita e negoziazione. Facciamo formazione prima, durante, dopo? Come la facciamo? Utilizziamo metodi attivi e partecipativi? Abbiamo una strategia di coaching e di affiancamento sul campo per osservare e ricentrare atteggiamenti e comportamenti?

Ogni obiettivo ha un proprio centro di gravità, o più di uno. Una campagna di vendite e marketing può individuare il Centro di Gravità comunicazionale “capacità di ascolto durante le fasi di vendita” (obiettivo: portare a casa più informazioni strategiche possibile in ogni colloquio e capire il più possibile dei bisogni del cliente) e il Centro di Gravità strategico “agire tramite campagne strutturate anziché con azioni spot” (obiettivo: evitare che i venditori agiscano in modo disorganizzato, evitare dispersività, sviluppare approccio tattico e concentrazione), e far ruotare tutta le performance attorno a questi due capisaldi.

Gli esempi sopra riportati possono essere estesi ad ogni settore aziendale: marketing, finanza, logistica, produzione, qualità, risorse umane: ogni settore ha propri frames e propri centri di gravità da curare.

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