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© Articolo estratto dal libro di Daniele Trevisani “Negoziazione interculturale. Comunicare oltre le barriere culturali. Dalle relazioni interne sino alle trattative internazionali”. Franco Angeli editore, Milano. Pubblicato con il permesso dell’autore

Il patto psicologico

L’approccio negoziale ALM è caratterizzato da: 

  1. duttilità della linea di azione, strategia negoziale non stereotipata, strategia creativa; 
  2. una forte consapevolezza emozionale del negoziatore;
  3. presenza di forti momenti di preparazione negoziale, communication training e simulazione.

Un approccio olistico che presta attenzione :

  • ai Saperi, 
  • ai Saper Fare, ma soprattutto 
  • al Saper Essere del negoziatore.

Questo approccio privilegia la crescita del comunicatore e negoziatore soprattutto sul piano umano.

Più che identificare una singola strategia negoziale, l’approccio ALM invita a chiedersi quali “costellazioni di strategie” (per usare un termine di Tinsley[1]) siano disponibili, e quali possano risultare più proficue. 

L’approccio ALM invita inoltre a tenere sempre in considerazione la possibilità che avvengano misunderstanding (incomprensioni) portatori di conflitti, e di esaminare il significato realmente compreso (inferred meaning) delle argomentazioni negoziali (negotiation arguments), senza darlo automaticamente per scontato.

In linea di principio il metodo ALM propone una linea comunicativa aperta, trasparente, diretta, ma è necessario ricordare che questa modalità comunicativa non è applicabile automaticamente, non è uno standard nemmeno nelle società occidentali che promuovono di facciata la chiarezza e la immediatezza (come quella Statunitense), e tantomeno lo è nelle società orientali, dove dichiarazioni troppo aperte possono innescare offesa e conflitto.

Per questo, il negoziatore interculturale deve essere consapevole dello “stress o shock da comunicazione diretta” e dei metodi per alleviarlo quando egli sollecita una comunicazione aperta, una critica costruttiva o anche solo nuovi modi di comunicare non usuali per la controparte[2].

Si parla, in questo caso, di patto psicologico tra negoziatori, nel quale i negoziatori, prima ancora di lanciarsi nella negoziazione, cercano di fissare le proprie modalità di comunicazione ottimale e condividere alcune regole negoziali.

Principio – La Negoziazione ed il patto psicologico

Il successo della negoziazione interculturale dipende:

  • dalla capacità di fissare regole comuni da seguire nella negoziazione;
  • dalla coerenza applicativa delle regole;
  • dalla capacità di mutare le regole quando queste non si dimostrino praticabili o efficaci.

Il communication training e le competenze comunicative

Sul piano interculturale è importante lavorare sulle competenze comunicative negoziali (communication skills), e sull’atteggiamento di fondo di consapevolezza interculturale. 

Lavorare sulle skills significa aumentare la consapevolezza degli strumenti comunicativi e la loro capacità di utilizzo. Lavorare sugli atteggiamenti significa eliminare le rigidità culturali, riconoscere gli stereotipi e approcci a senso unico, saper mantenere flessibilità e ampiezza di vedute, che nei contesti internazionali e negoziali permettono di muoversi con consapevolezza.

Il communication training e la simulazione sono indispensabili per passare dalla teoria alla pratica. Nel communication training metodo ALM:

  1. si utilizza l’active training, si pone attenzione prevalentemente all’assimilazione esperienziale, alla partecipazione attiva; i momenti di riflessione concettuale e teorica non servono a nulla se non sperimentati nella pratica.
  2. la teoria viene collegata agli schemi cognitivi personali: ci si prefigge l’ingresso di nuovi concetti e abilità ma soprattutto la modificazione dei sistemi di credenze sottostanti, la pura esposizione accademica a concetti non è sufficiente a creare cambiamento; 
  3. dagli schemi cognitivi viene effettuato un passaggio agli schemi motori comportamentali e agli schemi motori linguistici: concetti, credenze e atteggiamenti devono essere “ready” per l’individuo ed attivarsi senza bisogno di ricorso alla memoria, evitando la necessità di lunghe elaborazioni cognitive. Così come per il calciatore non è necessario pensare a come si muove il femore per tirare un rigore, il comunicatore e negoziatore devono sviluppare automatismi comunicativi collegati ad un Saper Essere comunicativo interiore 

Principio – Prontezza (readiness) nella performance comunicativa

Il successo della comunicazione è correlato positivamente:

  • al repertorio comunicativo disponibile: ampiezza e varietà di risposte comportamentali e comunicative, ampiezza e varietà di repertori stilistici;
  • al grado di “readiness” (facile accessibilità) con cui le competenze comunicative e mosse relazionali possono essere dispiegate, diventando schemi motori e schemi linguistici pronti per l’attivazione e non semplici tracce mentali da dover lungamente rielaborare quando necessario.

Lo scopo finale è ottenere una preparazione elevata sulla comunicazione, che metta il negoziatore pronto a trattare sul campo la maggior parte delle situazioni negoziali che possono accadere.

Il communication training si divide in due aree:

  1. competenza trasversale, area di base (ground-level) dove vengono esaminate le skills principali e necessarie in ogni negoziazione, e 
  2. competenza situazionale, in cui vengono analizzate le necessità dei singoli contesti e degli specifici interlocutori da affrontare.

Principio – Duplice stratificazione delle competenze comunicative

Il successo della comunicazione interculturale dipende dalle competenze comunicative sia di tipo:

  • trasversale alle culture: regole generali di comunicazione efficace che valgono in ogni contesto culturale, fondamenti della competenza comunicativa (ground level);
  • specifico nei riguardi della cultura-target, situazionale: analisi dei tratti culturali e strategia specificamente tarata sulla cultura con la quale si deve interagire.

Le competenze comunicative (ground level)

Le competenze comunicative interpersonali principali (ground level) sono:

  • Code switching: gestire il cambiamento di codice comunicativo, (linguistico e non verbale), per potersi adattare all’interlocutore. Farsi capire richiede uno sforzo attivo di adattamento, una volontà di modificare il proprio repertorio e avvicinarsi all’altro. Chi impone uno sforzo di adattamento unidirezionale all’interlocutore (adattamento a senso unico) e non si pone il problema della comprensione altrui crea automaticamente barriere alla comunicazione.
  • Topic shifting: il cambiamento di argomento. Capire quali tecniche adottare per scivolare da conversazioni improduttive, allontanarsi da argomenti pericolosi o inutili, evitare di toccare i punti critici della cultura altrui, produrre offesa, risentimenti o irrigidimenti. Questo tratto di competenze – così come gli altri – vale in ogni ambito comunicativo, nella comunicazione tra amici, colleghi, aziende, così come nella comunicazione diplomatica.
  • Turn taking: gestire i turni conversazionali. Vi sono culture che accettano l’intromissione nel parlato altrui, e altre in cui il rispetto dei turni di parola è essenziale. Il turn taking comprende competenze sulla gestione dei turni conversazionali, modalità di presa del turno, difesa del turno, cessione del turno, apertura e chiusura di linee di conversazione – tecniche che devono essere raffinate sia per le comunicazioni intra- che inter-culturali.
  • Self-monitoring: capacità di auto-analizzarsi, di comprendere come stiamo comunicando (quale stile stiamo utilizzando), riconoscere gli stati emotivi interiori, la propria stanchezza, o frustrazione, o gioia, l’aspettativa o il disgusto, saper riconoscere le emozioni interne che ci animano durante la conversazione o la negoziazione.
  • Others-monitoring: capacità di analizzare e decodificare gli stati del proprio interlocutore dal punto di vista di quali emozioni lo dominano, riconoscere nell’altro lo stato di stanchezza, di energia, di euforia, di avvilimento, saper percepire le influenze reciproche subite dai partecipanti alla conversazione da parte di altri soggetti presenti, cogliere i rapporti di potere in corso nei gruppi di controparte; capire il grado di interesse verso le nostre proposte e i momenti giusti per la chiusura.
  • Empatia: capacità di comprendere il punto di vista altrui, dall’interno del sistema di valori dell’altro e nel contesto nel quale l’altro è inserito, capire il valore delle mosse comunicative dall’interno della cultura che le produce.
  • Competenza linguistica: capacità nell’utilizzo della lingua, scelta delle parole e repertorio, profondità di conoscenza del linguaggio.
  • Competenza paralinguistica: capacità nell’utilizzo degli elementi non verbali del parlato, toni, pause, silenzi, e loro gestione strategica.
  • Competenza cinesica, capacità di comunicare attraverso i movimenti del corpo (body language). La gestione del movimento può essere una delle trappole più forti nella comunicazione interculturale, dove alcune culture (come quella italiana) utilizzano normalmente ampi movimenti e gesticolazioni, mentre altre (come quelle orientali) utilizzano contegno maggiore e trattengono l’espressione corporea.
  • Competenza prossemica: capacità di comunicare attraverso la gestione dello spazio e delle distanze personali. Ad esempio, le culture latine ed arabe hanno distanze interpersonali molto più strette rispetto alle distanze interpersonali nord europee.
  • Competenza di decodifica socio-ambientale: la capacità di interpretare e capire il “cosa sta accadendo qui” rispetto ai fatti che prendono luogo durante la conversazione o interazione. Saper riconoscere un conflitto all’interno dei membri del gruppo di controparte (conflitto intra-gruppo), saper cogliere le diverse posizioni, le traiettorie di avvicinamento e allentamento, i ruoli diversi assunti e le mosse degli interlocutori.

Per agire su tali competenze è necessario applicare soprattutto le tecniche di active training.

Le tecniche di active training fanno uso prevalentemente dell’azione, della sperimentazione e del laboratorio comportamentale, e comprendono elementi quali:

  • role playing;
  • tecniche di respirazione e uso della voce;
  • tecniche di sblocco dei repertori conversazionali;
  • usi dello spazio scenico e body language;
  • simulazione e business games;
  • improvvisazione teatrale e negoziale;
  • analisi della struttura drammatica del testo, analisi di critical incidents, psicodramma;
  • costruzione del personaggio e giochi di relazione.

Il reality shock

I negoziatori sia intra-culturali che interculturali devono essere preparati al Reality Shock (shock provocato dalla realtà, shock culturale). Il Reality Shock può nascere dalla improvvisa presa di coscienza che:

  • gli altri non seguono le nostre regole;
  • gli altri hanno valori di fondo diversi;
  • gli altri non hanno gli stessi obiettivi che noi abbiamo;
  • gli altri non si comportano come noi, e nemmeno come noi vorremo;
  • alcuni negoziatori sono in malafede e disonesti, non cercano un approccio win-win ma unicamente il vantaggio personale;
  • anche con la più ampia dose di buona volontà, alcune negoziazioni sfuggono dalla comprensibilità e i comportamenti osservabili non rientrano in una logica razionale.

La differenza tra un negoziatore esperto e un negoziatore novizio è il grado di danno che il reality shock procura – basso o nullo per l’esperto, devastante per il novizio.

Lo scontro con la realtà può provocare uno shock al quale segue:

  • Un processo positivo, fatto di analisi delle diversità, di accettazione di quanto può essere accettato (senza incorrere negli estremismi dell’accettazione incondizionata radicale), e una crescita delle proprie conoscenze culturali; oppure…
  • un processo negativo, fatto di caduta dello stato emotivo, rifiuto della realtà e chiusura nella propria arena culturale, il cui esito è spesso il ritiro.

Per attivare un percorso di crescita e non di involuzione, è necessario agire sul Saper Essere del negoziare, attraverso: 

  • Cognitive learning & knowledge acquisition: apprendere i contenuti di ciò che caratterizza la cultura con la quale si vuole interagire.
  • Cognitive restructuring: ristrutturazione cognitiva, trasformazione della percezione dell’atto comunicativo stesso da elemento ansiogeno a fonte di energie positive. Tale pratica richiede l’identificazione dei self-statements negativi (es: “andrà male sicuramente”, “sono inadatto”, “non riuscirò”), e l’apprendimento di self-statements positivi (positive replacements), es: “andiamo tranquillamente a vedere se esistono le condizioni per fare business”, “andiamo a confrontare senza paura le nostre reciproche posizioni”, o ancora “andiamo ad aiutare il cliente a capire come noi ragioniamo” L’analisi dei self-statementsconsiste quindi nel lavorare su come un negoziatore “entra” nella negoziazione, quale spirito lo anima. 
  • Behavioral learning & communication skills acquisition: apprendere le abilità necessarie a “performare” o realizzare un determinato goal comportamentale o comunicativo, utilizzando tecniche drammaturgiche, espressive e dinamiche relazionali.
  • Emotional control skills: sviluppo delle abilità di gestire le emozioni e canalizzare le energie emozionali verso direzioni positive, riconoscere e rimuovere lo stress da negoziazione, “ricaricare le batterie” e gestire i tempi personali, presentarsi in condizioni psicofisiche ottimali alle negoziazioni[3].

La gestione dell’immagine nella negoziazione

In ogni negoziazione diventa inevitabile confrontare i rispettivi status. Gli status tuttavia sono elementi intra-culturali e non cross-culturali. Non possiamo dare per scontato che una persona appartenente ad una cultura “altra” riconosca uno status che proviene da un sistema ad egli sconosciuto.

Una gestione più o meno consapevole della propria “faccia sociale” è presente in ogni negoziazione. Tuttavia, a livello interculturale, è facilissimo lanciare messaggi inconsapevoli e produrre danni negoziali.

Principio – Gestione dello status proprio e dell’interlocutore, giochi di “faccia” e impressions management interculturale

Il successo della negoziazione interculturale dipende:

  • dalla capacità di creare una percezione di status adeguato, all’interno del sistema di giudizio dell’interlocutore;
  • dalla capacità di creare impressioni positive (identity management e impression management);
  • dalla capacità di acquisire status e faccia senza ricorrere a meccanismi di attacco indebito alla faccia altrui (aggressione alla “faccia” o riduzione dell’immagine, evitazione dell’approccio top-down “a priori”);

Tante, troppe volte, i negoziatori non si rendono conto di praticare un abuso di posizione dominante (ostentare una superiorità eccessiva a danno dell’altro) o di praticare una “presunzione di posizione dominante” (pensare di se in termini superiori). 

La comunicazione fa trasparire queste concezioni di sè e della relazione anche senza volerlo.

La cultura del metodo ALM sostiene che deve esistere un certo grado di comunalità di valori affinché un progetto possa prendere piede.

Dobbiamo sempre considerare che la nostra cultura non è automaticamente quella degli altri. La strategia giusta è quindi di evitare di mettere la controparte in condizioni di presunta inferiorità o di assegnarsi automatiche superiorità.

Non dobbiamo stupirci, quindi, se in una negoziazione entrambe le parti cerchino di affermare il proprio status e soffrano di ansia da status. Tuttavia, dobbiamo chiederci quali sono i meccanismi utili alla negoziazione, e quali quelli distruttivi. Dobbiamo chiederci – e saper riconoscere – i meccanismi altrui di scalata allo status e di conquista del potere nella negoziazione, e le contromosse difensive. Dobbiamo evitare – con la consapevolezza di chi sa – di far predominare l’ansia da status e sforzarci di ricercare una soluzione negoziale utile per entrambi.

Le principali domande della negoziazione interculturale sono quindi:

  • Quali sono le affermazioni da evitare, quelle che possono produrre attacco allo status del mio interlocutore, lette dal punto di vista della sua cultura di appartenenza?
  • Come ri-bilanciare le posizioni quando l’interlocutore si mette in posizione di superiorità?
  • Come posso io stesso produrre un’immagine positiva mia e della mia azienda, senza dare la sensazione di superiorità e scatenare risentimenti e meccanismi vendicativi?
  • Come la cultura cui mi rivolgo valuta lo status, cosa conferisce status?
  • Quanta parte della negoziazione dedicare alla negoziazione dello status e quanta alla valutazione delle materie di discussione?
  • Quando si ripresentano le questioni di status nella negoziazione, oltre che nella fase di conoscenza reciproca? Nella negoziazione delle condizioni? Nella fissazione dei prezzi o della logistica, nelle prassi legali, nelle frasi inserite all’interno dei contratti?

La forza e il potere contrattuale

Saper trattare nuovi soggetti, spesso dalle grandi dimensioni ed elevato potere economico e politico, significa saper proporre il proprio valore come partner (vendita dell’immagine globale dell’impresa, piuttosto che la semplice vendita di un prodotto) e questo rappresenta una novità per molte aziende, un difficile orizzonte

Per vendere prodotti di scarso valore (caramelle, cioccolatini..) in un punto vendita – quindi nella vendita distributiva – è sufficiente cortesia ed una minima dose di competenza comunicativa front-line, ma nella creazione di partnership e nella negoziazione avanzata servono forti competenze negoziali e studio della strategia stessa. 

Soprattutto per le PMI, risulta difficile trattare sul piano interculturale. Abituate in passato ad un rapporto con reti distributive frammentate e divise, clienti singoli e poco rilevanti, concorrenza scarsa o debole, in cui la leva di forza era prevalentemente dalla parte del produttore, queste imprese hanno serie difficoltà a passare dalla vendita alla negoziazione. Imprese, oltretutto, abituate a vendere all’estero tramite agenti esteri e a perdere gran parte del margine verso la distribuzione, senza mai addentrarsi realmente nelle negoziazioni interculturali vere.

La negoziazione competitiva richiede la creazione di forza contrattuale.

La forza contrattuale dipende dal livello di unicità dell’offerta (o dalla mancanza di alternative valide o succedanee) e dal livello di bisogno esistente nella controparte, mediati dalle abilità comunicative.

Le competenze negoziali competitive richiedono training alla negoziazione e alla gestione delle mosse strategiche dell’interazione. 

Le tecniche negoziale divengono ancora più complesse quando le trattative avvengono tra gruppi (es.: gruppi di acquisto contro gruppi di vendita) poiché la dimensione comunicativa si allarga, richiedendo competenze nell’affiatamento tra i partner e coordinamento nelle mosse dell’interazione tra i membri dell’equipe[4].

Gestire la trattativa richiede preparazione e role-playing. Una singola parola può rovinare un incontro (Trevisani, 2000)[5].

Per questi motivi riproponiamo qui il principio della leva contrattuale :

Principio – Del potere contrattuale e negoziale

Il vantaggio competitivo dipende dalla forza contrattuale nella trattativa.

Per il venditore o proponente, la forza dipende:

  • Dall’unicità dell’offerta: un’offerta non comparabilità con altre offerte ha più valore;
  • dalla mancanza di alternative prossime: l’impossibilità di trovare con ragionevole sforzo soddisfazione tramite altrove;
  • dalla mancanza di beni succedanei (beni diversi che possono svolgere una funzione simile, es: treno al posto dell’aereo);
  • dall’impellenza del bisogno nel destinatario: un bisogno importante genera minori freni e incertezze;
  • dal prestigio di cui gode il proponente: un proponente credibile e prestigioso crea minori barriere legate alla valutazione a priori del partner;
  • dalla forza dei fattori oggettivi dell’offerta: le caratteristiche della prestazione – la sua tecnologia, il servizio reale.
  • Ciascuna di queste leve anche se presente in misura elevata non si dispiega automaticamente ma richiede abilità di valorizzazione e comunicazione.
  • Il dispiego ottimale della forza contrattuale (per chi offre) si correla positivamente con il livello di competenze comunicative specifiche del negoziatore (abilità negoziale del venditore) e negativamente con le competenze dell’acquirente (abilità del buyer).

[1] Tinsley, C. H. (2001). How negotiators get to yes: predicting the constellation of strategies used across cultures to negotiate conflict. Journal of Applied Psychology, 2001 Aug; 86(4):583-93.

[2], per un esempio di ricerche sugli stress da negoziazione interculturale diretta, vedi Kim Hughes, Wilhelm (1995). Intercultural Communication and the Decision-Making Process: Americans and Malaysians in a Cooperative University Setting. Paper presented at the meeting of the Teachers of English to Speakers of Other Languages (29th, Long Beach, CA, March 28-April 1, 1995) and at an International Conference on “Intercultural Communication: The Last Twenty-Five Years and the Next” (Rochester, New York, July 13-15, 1995).z

[3] Rispetto alle correlazioni tra emozioni, condizioni psicofisiche e performance, si consiglia di visualizzare l’approfondimento nella pubblicazione apposita sul sito www.studiotrevisani.it

[4]  Vedi Goffman, E. (1969) Strategic Interaction. Philadelphia, University of Pennsylvania Press. Trad. it. Modelli di interazione, Bologna, Il Mulino, 1971.

[5] Trevisani, 2000

Altri materiali su Comunicazione, Coaching, Formazione, Potenziale Umano, Crescita Personale e Professionale, disponibili in questi siti e link:

Altre risorse online

Siti in sviluppo

Le parole chiave di questo articolo La formazione dei negoziatori interculturali sono :

  • Active training
  • Approccio ALM
  • Communication training
  • Competenza situazionale
  • Competenza trasversale
  • Competenze comunicative
  • Forza contrattuale
  • Ground-level
  • Leva contrattuale
  • Misunderstanding
  • Patto psicologico
  • Performance comunicativa
  • Reality shock
  • Saper essere
  • Saper fare
  • Saperi
  • Status
  • Vantaggio competitivo

 

© Articolo estratto dal libro di Daniele Trevisani “Negoziazione interculturale. Comunicare oltre le barriere culturali. Dalle relazioni interne sino alle trattative internazionali”. Franco Angeli editore, Milano. Pubblicato con il permesso dell’autore

I tempi negoziali

La negoziazione è una sequenza di attività comunicative nella quale i partecipanti si impegnano per raggiungere un risultato reso possibile solo da una forma di accordo tra le parti. Trovare l’accordo che soddisfi entrambi, e capirsi bene, sono quindi fattori di successo evidenti, e impegnano il tempo comunicativo.

Ogni negoziazione si può considerare interculturale quando i soggetti che vi partecipano provengono da culture diverse, sono portatori di un bagaglio di esperienze diverse o utilizzano linguaggi diversi.

La diversità immette nel campo negoziale ampi margini di errore e fraintendimento: ogni messaggio che funziona nella propria cultura rischia di essere frainteso nelle culture diverse dalla propria. Una delle dimensioni di maggiore variabilità culturale è il “senso del tempo” e la gestione del tempo (time management), e questo lo ritroviamo anche nei tempi della negoziazione.

Ogni cultura ha i propri “tempi negoziali” e prassi negoziali latenti. Per gli statunitensi (generalizzando molto), ciò che conta è il business, un’azienda che sia nata da poco e quindi giovane può essere trattata come un’azienda che esista da un secolo. Ma questa cultura ha anche altre manifestazioni. Poiché ciò che conta è il contenuto e il merito, negli USA uno studente universitario preparato può esporre una sua ricerca o paper a un convegno, a fianco di rettori dell’accademia, se il lavoro vale. Il suo paper verrà inizialmente selezionato senza nemmeno sapere chi ne è l’autore (metodo del “blind review”).

In Italia è invece importante capire prima con chi si ha a che fare (analisi della storia, ricerca della contestualizzazione, ricerca del network), di chi è “amica” o “nemica” la persona, chi la “sponsorizza”, da dove viene. Un giovane studente “non sponsorizzato” difficilmente riuscirà ad esporre le proprie ricerche in un convegno al di là del loro valore. Il tempo ha valori e strutture diverse.

Così per un negoziatore italiano può essere necessario concentrarsi sulla storia di chi ha di fronte, valutare la sua credibilità, e fare dei test, dei piccoli passi di avvicinamento prima di concludere qualcosa di grosso. 

Per un negoziatore statunitense invece avremo una diagnosi del potenziale del soggetto, una valutazione di quanto l’accordo con questo soggetto può rendere, e un immediata concretizzazione.

Per un interlocutore giapponese, avremo una analisi della storia, e una elevatissima importanza dei ruoli, e il rispetto dell’onore.

Per un interlocutore sudamericano, sarà importante passare tempo assieme e diventare amici, guadagnarsi la fiducia, conoscersi, entrare nella “famiglia”.

Teniamo sempre in considerazione che questi timelines sono estremamente variabili anche all’interno della stessa cultura, è che nulla garantisce che un brasiliano si comporti secondo il timeline stereotipico e sia “maschera” della propria cultura.

La collisione dei timelines negoziali

Quando la negoziazione interculturale prende piede, i diversi modi di concepire il contatto rischiano di trasformarsi in scontro, o in disagio per entrambe le parti. 

Il contrasto tra culture appare evidente quando un europeo si reca in un paese africano, o asiatico, ma l’invito di questa opera, il nostro focus, è evidenziare come la dimensione interculturale entri prepotentemente in ogni negoziazione, anche quelle tra marito e moglie nella stessa casa, o tra aziende della stessa nazione. 

Ogni volta che un diverso sistema culturale (valori, credenze, pensieri, convinzioni, modi di espressione) viene a contatto, abbiamo un certo grado di interculturalità, e la diversità è spesso molto più ampia di quanto pensiamo.

Il contatto tra culture è una dimensione sia di stress che di crescita formidabile per l’essere umano. I risultati della diversità possono produrre creatività ed eccitazione, ma anche incomprensione e disaccordo. 

All’estremo negativo, incomprensione (misunderstanding) e disaccordo (disagreement) generano conflitto, impedendo di raggiungere obiettivi sia personali che comuni.

Uno dei suggerimenti più importanti per i negoziatori interculturali è quello di cercare di condividere un timeline negoziale, cercare un’intesa sul metodo per collaborare efficacemente, ed evitare disaccordo e incomprensione.

Le radici del disaccordo sono da ritrovare sia :

  1. nell’incomprensione, nel non capire i segnali lanciati dall’altro, decodificarli erroneamente, o
  2. nelle divergenze ideologiche di fondo.

Le radici dell’incomprensione stanno invece nella complessità dello scambio informativo umano, nella dimensione tecnica della comunicazione.

Le persone che operano nella stessa cultura sanno muoversi all’interno di un timeline condiviso, sono generalmente in grado di comprendere le sottili differenze sottostanti l’uso delle parole, i segnali non verbali, i gesti, le espressioni corporee, mentre chi non condivide questo bagaglio ne è spesso al di fuori.

Il lavoro di communication training e di coaching sulla comunicazione interculturale si prefigge quindi di far emergere il livello invisibile della comunicazione, sia nella dimensione nazionale (apparentemente intra-culturale), che in quella internazionale.

Esistono molte situazioni che possono portare una persona (A) a dialogare con un’altra persona (B) partendo da basi diverse e inter-culturali. Queste diverse basi di partenza, se non ben comprese da entrambi gli interlocutori, generano una situazione interculturale latente che può portare all’inefficacia della relazione (nei casi migliori) o al conflitto (nel caso peggiore).

Allo stesso tempo troviamo similarità culturali anche a distanza di decine di migliaia di chilometri – un agente di borsa di Milano vive linguaggi e problemi simili a quelli di un collega di Parigi o di Sidney.

Dobbiamo quindi disilluderci dalle apparenze (diversità = distanza chilometrica e linguistica) ed entrare nella realtà (diversità = diversa concezione del mondo).

In ogni conversazione o negoziazione, idealmente, gli interlocutori devono essere consapevoli delle diversità culturali in gioco. 

Il grado di comprensione della dimensione interculturale dovrebbe essere – a livello ottimale – presente in entrambi gli interlocutori. È sufficiente tuttavia che anche solo uno di questi avvii una consapevolezza aumentata affinché aumentino le chance di migliorare la comunicazione. 

Da un lato, quindi, la consapevolezza delle dimensione interculturale è un fattore positivo per il rapporto. Da un altro lato, essa diviene leva di potere. Il potere della conoscenza (power of knowledge) delle dinamiche di comunicazione interculturale si traduce nel vantaggio pratico del capire – meglio dell’altro interlocutore – “cosa sta succedendo qui”, e determina quindi potere della consapevolezza (power of awareness).

Strutturare i tempi della comunicazione e negoziazione

Il tempo soggettivo può scorrere attraverso un libero fluttuare dell’esperienza, o – sul lato opposto – entro schemi rigidi e strutturati.

Esistono vere e proprie patologie derivanti da:

  • strutturare tempi che andrebbero lasciati fluttuare (es: strutturare eccessivamente una vacanza che si vorrebbe rilassante);
  • non strutturare tempi che andrebbero strutturati (es: lasciare svolgere nel caos comunicazionale una riunione decisionale che deve invece produrre un esito preciso entro una esatta scadenza).

L’utilizzo efficiente dei tempi comunicativi negoziali

Ogni interazione avviene attraverso tempi interni che ne delimitano i diversi frame.

L’economia della comunicazione interpersonale può far emergere le disfunzioni nella gestione dei tempi comunicativi.

Spesso i tempi comunicativi non seguono un format condiviso tra i due interlocutori, creando problemi all’efficienza ed efficacia.

Negli incontri professionali e negli incontri critici (es: negoziazione di carriera, negoziazione commerciale), è necessario impostare un format efficiente ed efficace, comunicarlo e condividerlo (impostare e negoziare il format vs. subire il format).

E’ importante darsi dei tempi all’interno di una conversazione negoziale con la consapevolezza che il tempo è una risorsa scarsa e spesso poco valorizzata. 

Ogni negoziazione vive diversi “tempi interni”. Come un film può essere diviso in puntate, o un libro in capitoli, anche una negoziazione o trattativa può essere sezionata in fasi specifiche. 

E’ importante decodificare i momenti relazionali salienti dell’interazione di vendita, disaggregando il flusso continuo di comunicazione in porzioni dotate di senso e valenze specifiche.

Principio – Strutturazione dei tempi negoziali

La comunicazione negoziale efficace richiede:

  • La capacità di dare struttura ai tempi negoziali, identificando le fasi attraverso le quali si intende procedere; 
  • La capacità di immettere nelle strutture dei tempi negoziali sia una struttura adeguata ai nostri goals che un grado di adattamento alla cultura della controparte.

Quello che sembra un flusso ininterrotto di comunicazioni, uno scambio di dati continuo tra due persone, domande e risposte, proposte e chiarimenti, è in realtà sezionabile in specifici “momenti psicologici” che vive sia il venditore che l’acquirente.

In particolare dobbiamo sensibilizzarcii nel percepire:

  • “frame-shifts”, i cambi di gioco che avvengono durante la negoziazione: quando avvengono, chi li ha provocati, che mossa relazionale li ha determinati, che effetti hanno prodotto;
  • il vissuto emotivo dell’acquirente.

Altri materiali su Comunicazione, Coaching, Formazione, Potenziale Umano, Crescita Personale e Professionale, disponibili in questi siti e link:

Altre risorse online

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Le parole chiave di questo articolo Le Culture e i tempi negoziali sono :

  • Cambi di gioco
  • Coaching
  • Communication training
  • Comunicazione negoziale
  • Consapevolezza aumentata
  • Dimensione interculturale
  • Disaccordo
  • Disagreement
  • Gestione del tempo
  • Incomprensione
  • Leva di potere
  • Misunderstanding
  • Momenti psicologici
  • Negoziazione interculturale
  • Potere della conoscenza
  • Potere della consapevolezza
  • Sistema culturale
  • Tempi comunicativi negoziali
  • Tempi negoziali
  • Timeline negoziale

 

Copyright. Articolo estratto dal libro “Direzione Vendite e Leadership. Coordinare e formare i propri venditori per creare un team efficace” di Daniele Trevisani, Franco Angeli editore, Milano. Pubblicato con il permesso dell’autore.

Coordinare l’attività del venditore e del Team

Coordinare l’attività del venditore significa:

  • sul piano dei tempi, inquadrare cosa fare e quando, adottando uno stile di direzione orientato alle azioni;
  • agire sul piano della struttura di personalità e manageriale del venditore: come sei, e come lavori – stile di direzione orientato alla persona.

Ogni persona è un universo a sé stante e quindi lo stile di leadership deve essere “situazionale”, cioè un approccio generale valido per tutti più un intervento mirato su ciascuno dei membri del team, a seconda delle proprie caratteristiche.

Coordinare significa capire il motivo di essere di ciascuno, isolare la sua specifica missione all’interno della matrice territori/servizi, e mantenere una visione dall’alto sulle operazioni complessive.

Coordinare un gruppo di diversi venditori significa averne assolutamente chiara la mission individuale, il contributo distintivo che deve essere apportato, e soprattutto i confini di ruolo e i limiti operativi (geografici, merceologici) di ciascun venditore.

Il metodo HPM per inquadrare lo stato delle energie del venditore e del team

Nel metodo HPM sviluppato da Studio Trevisani, è stata posta attenzione scientifica e di ricerca sul concetto di Performance (prestazione) e di Wellness (benessere) applicati a chiunque opera professionalmente, nel lavoro o nello sport, nella vendita e nella leadership.

Porsi il problema della performance seriamente significa chiedersi quali sono le condizioni che la permettono, i fattori che la rendono possibile. Per ottenere performance di vendita è necessario che la struttura organizzativa sia ben funzionante e che il “sistema-uomo” (il venditore in questo caso) sia carico di energia, di competenze e di volontà di raggiungere risultati, e di obiettivi ben inquadrati e profilati.

Il metodo HPM “Human Performance Modeling” si prefigge di evidenziare i fattori principali che permettono al sistema-uomo di fornire prestazioni.

Le sei aree di lavoro del Metodo HPM

Approfondiamo le sei specifiche aree di lavoro di un percorso di crescita personale nel metodo HPM, come esposte le testo “Il Potenziale Umano” e in “Personal Energy”.

  1. Energie fisiche (stato bioenergetico): le energie corporee sono il substrato fondamentale per mettere in atto qualsiasi azione o volontà, anche intellettuale e di vendita. Persino il pensiero e le attività mentali sono processi che utilizzano energie biologiche; la nostra vita e persino il nostro pensiero dipendono dalla qualità del sangue, dall’ossigeno, dai nutrienti, dal respiro – tutti fattori che incidono sulla lucidità e sul benessere anche mentale. Pensare, progettare, ideare, comunicare, negoziare, richiede energie e biologia attiva, ben funzionante.
  2. Energie mentali (stato psicoenergetico): se il “poter fare” dipende in larga misura dal livello di energie fisiche, il “voler fare” richiede accesso alle energie mentali. Un venditore senza motivazione non vende nemmeno a chi vuole comprare. È indispensabile quindi esaminare il fronte psicologico della prestazione e del benessere individuale. Quali sono i fattori che generano motivazione e demotivazione? Quali interventi concreti sono possibili? Se riusciamo ad isolare variabili in grado di generare o ridurre le energie mentali avremo aperto una via determinante per capire meglio come funziona l’uomo e cosa si rompe nel funzionamento della persona e delle organizzazioni quando essi non riescono a raggiungere i propri obiettivi.
  3. Micro-competenze: le energie diventano utili e concrete quando le sappiamo tradurre in azione, e questo richiede competenze a livello micro. Ad esempio, durante una trattativa di vendita, sapere in quale esatta frazione di secondo fermare chi parla per saper introdurre delicatamente il tema di conversazione che ci interessa trattare, è un insieme di micro-competenze, inclusa la tecnica del “Repair” o mossa di riparazione (es: mi permetto di suggerire, se consente, di trattare questo tema ora, per poi tornare su X…). Senza queste micro-mosse della conversazione, il cliente si sentirebbe solo interrotto e maltrattato. Ogni azione è preceduta dal pensiero di fare quell’azione, quindi se con il Training Mentale riusciamo a cogliere il pensiero che precede l’zione, e valutare se sia opportuno, siamo ad uno stato di micro-competenze molto elevato e sottile. Si tratta di una vera e propri “caccia” ai dettagli lavorabili ed allenabili, alle cose che altrimenti sfuggono. Nuove competenze, nuove sfide.
  4. Macro-competenze: i dettagli di un singolo atto sono importanti, ma lo è anche possedere un buon ventaglio di conoscenze, una conoscenza chiamata “enciclopedica”, nel senso di “non limitata” ad uno spazio troppo stretto e angusto, solo iperspecialistico. Se vendi auto, è molto, ma molto bene, che ti intendi anche di gomme, e di energie rinnovabili, e di altre forme di propulsione come l’elettrico, l’ibrido. Devi saper interagire con il cliente non solo sul prezzo. Per capire le “connessioni tra le cose” occorre conoscere più campi del sapere, e metterli in relazione.  Se ci liberiamo dal male della presunzione, tutti noi possiamo diventare consapevoli di non sapere. Spesso gli incidenti personali di vita (critical incidents), le fasi di malessere, i test di realtà, le cadute, ci segnalano che qualcosa non va. Sia in questi casi, che nella vita quotidiana, chiediamoci cosa è bene imparare. Rimaniamo aperti. Howell[1], nell’introdurre il concetto di unknown incompetence (ciò che non sappiamo di non sapere) ha fatto un regalo ad ogni essere umano, stimolandolo ad andare a cercare i suoi punti ciechi nascosti. L’analisi del livello macro ci porta inoltre a ragionare sul tema dell’entropia delle competenze, il degrado progressivo che subisce la nostra preparazione per via dell’ambiente che cambia ed evolve, e come fronteggiarlo.
  5. Progettualità e concretizzazione: stupende idee che non trovino mai soddisfazione e applicazione, distruggono anziché costruire. Niente è più deleterio del rimanere costantemente in uno stato di tensione latente, di pulsione bloccata, un tendere a…sempre incompiuto, ogni idea forte o desiderio di attivazione incompiuto produce danni, una vita castrata, un adagiarsi nella sofferenza senza che mai si provi un avvicinamento all’oggetto o condizione desiderata, ad uno stato superiore. Concludere una trattativa in modo positivo, chiudere una vendita, fa bene allo spirito. Giorno dopo giorno soffoca chi non tenta di vivere una vita a pieno e lascia le cose sempre a metà. Occorre quindi trovare sfogo applicativo, liberazione progettuale, determinazione, sviluppare le tecniche per canalizzare le energie in goal concreti. Nessuno può pretendere che ogni sogno si concretizzi, ma nemmeno accettiamo la castrazione di ogni nostro sogno. Nessuno pretende record mondiali o progetti forzatamente fantastici, ma piccoli passi si, ricerca di significati si, ricerca di scopi praticabili si. Ogni micro-goal raggiunto ci fa pensare di poterne raggiungere un altro ancora e rinforza la nostra autostima. Ogni piccolo passo conta.
  6. Visione e ideali: il quadro dei valori in cui crediamo, il futuro che vogliamo costruire, una causa alla quale vogliamo contribuire, ciò che riteniamo sia degno, qualcosa per cui lottare.

L’aspetto della visione, dei valori e degli ideali è senza dubbio il più distante da un mondo massificato e materialistico. Il solo pensiero di aiutare e lasciare una piccola traccia verso un mondo migliore nobilita la nostra vita e la riempie di significati.

Vogliamo fare alcune riflessioni che estendono questo ragionamento alla formazione aziendale, coaching e percorsi di sviluppo:

  1. Energie e competenze sono importanti, ma senza passione, senza il motore di una causa nobile, tutto è inutile. 
  2. “A cosa serve il mio sforzo?”… è una domanda che deve trovare risposte.
  3. Tante persone sono come auto pronte al via, ma con il parabrezza talmente sporco da non consentire di vedere “verso dove”, andiamo. Auto senza un guidatore, viandanti senza una meta e senza un perché.
  4. Occorre stimolare e riscoprire gli ancoraggi profondi ai valori, e ad una causa, la sacralità di una missione, persino la sacralità dell’esistenza.
  5. Le performance, le nostre giornate, le nostre ore, sono piene di atti vuoti o sono ancorati ad un disegno superiore? Esiste una “spiritualità” delle performance o del fare, un “fuoco sacro” che alimenta energie e motivazione?
  6. Diamo un senso a quello che facciamo? Ci proviamo? Possiamo cogliere un motivo denso di significato?
  7. Credere in quello che si fa è determinante per l’auto-immagine. Se ci sentiamo inutili venditori di fumo non andremo mai da nessuna parte. Se troviamo invece il modo di essere di aiuto a qualcuno, di dare senso, o di lottare per qualcosa, diventiamo pieni di forze.
  8. Ancorare l’azione a ideali significa riconoscere il bisogno di esistere per un fine. Le performance sono destinate a svanire nell’istante, mentre invece una causa è eterna.
  9. Vi sono persone e atleti che sperimentano il contatto con una realtà superiore ogni volta che entrano nelle quattro mura di una palestra o di un Dojo, e sanno che il loro allenamento sarà una forma di preghiera e di contatto con il proprio Dio, o anche solo con le forze primordiali della natura. Lo stesso può accadere nell’impegnarsi in un progetto aziendale o personale, e in una vendita.

La visione di una causa per cui lottare o di un senso in quanto facciamo è un motore potente. Quando questo collegamento denso di valori, mistico o sacro, accade, le energie si sprigionano, i miracoli sono dietro l’angolo.

I fattori da cui dipende la performance personale e lo stato del venditore

Il metodo HPM sostiene che le performance sono ampiamente correlate ai seguenti punti:

  • alle energie fisiche (stato di carica organismico);
  • alle energie mentali (stato di carica motivazionale, forza di volontà);
  • alle macro-competenze insite nel ruolo (i saperi, i saper essere, e i saper fare che certo ruolo richiede);
  • alle micro-competenze: i dettagli e le micro-attenzioni correlate alle macro-competenze (es: sapere bene come aprire una riunione di vendita o negoziazione, come gestirne i contenuti, e come chiuderla);
  • alla fissazione di goal intesi come proposizioni di risultato quantificabili ed oggettivabili;
  • alla visione, intesa come motore ispirativo dell’orizzonte futuro cui si guarda (o al passato da cui si sfugge), alla means-end-chain (catena mezzi-fini) che costituisce la visione personale (il “perché” facciamo le cose).

I fattori da cui dipende la performance del team e lo stato del team

Ogni team si può considerare come la sommatoria ed interazione tra più sistemi di energie personali (sistemi piramidali HPM,) che interagiscono tra di loro. Ogni team ha due grandissimi nemici:

  1. le incomprensioni tra membri del team e
  2. il calo di energie di uno o più membri del team.

Il metodo HPM richiede di porre attenzione, da parte della direzione vendite, ai seguenti punti:

  • lo stato di ciascun soggetto per quanto riguarda le 6 aree identificate;
  • i rapporti di interazione tra soggetti, a livello orizzontale (rapporti tra colleghi interni al team);
  • i rapporti di comunicazione e la qualità comunicativa dal leader verso ogni singolo membro del team;
  • i rapporti di comunicazione e la qualità comunicativa posta in essere dai membri del team verso il leader (comunicazione bottom-up, flussi di ascolto dal cliente verso la direzione vendite, mediata dal venditore);
  • le comunicazioni interne al gruppo;
  • i rischi di disallineamenti nei goal tra membri del team e leader: è pericoloso avere idee diverse su ciò che sia un goal o cosa si debba fare – in pratica – sul campo;
  • i rischi di disallineamenti nella visione e nella prospettiva temporale – ad esempio gli orientamenti a lungo periodo nella costruzione di un parco clienti di qualità vs gli orientamenti di breve termine verso il raggiungimento di un budget di vendita anche con clienti di bassa qualità e progetti a basso valore;
  • i disallineamenti comunicativi: comprendersi male, fraintendimenti (misunderstanding), disaccordi (disagreement);
  • cali energetici che coinvolgono un membro del team, che se non compresi e compensati, si ripercuotono a cascata sia sul leader che sul gruppo;
  • i cali energetici del leader, che si ripercuotono su tutto il gruppo.


[1] Howell, William S. (1982). The empathic communicator. University of Minnesota: Wadsworth Publishing Company.

Altri materiali su Comunicazione, Ascolto, Empatia, Potenziale Umano e Crescita Personale disponibili in questi siti e link:

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