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Articolo estratto con il permesso dell’autore, dott. Daniele Trevisani, dal testo “Team leadership e comunicazione operativa. Principi e pratiche per il miglioramento continuo individuale e di team

Riconoscere gli stati conversazionali

Una delle competenze comunicative più centrali nella direzione è l’abilità nel riconoscere e gestire gli stati conversazionali nei gruppi.

In ogni gruppo o riunione circolano dosi massicce di comunicazioni inutili o controproducenti, veicolate con stili distruttivi. Mescolate a messaggi utili ai processi e al clima. Questi due aspetti vanno osservati e distinti.

leadership conversazionale

Osservando la comunicazione come un flusso di liquido, è come se dal rubinetto del­l’acqua potabile vedessimo uscire sabbia, fango, veleni, che si mescolano al­l’acqua, o ancora se l’acqua uscisse a getti, alternata a bolle d’aria e spruzzi. Non sarà molto facile o piacevole bere da quel rubinetto.

In una riunione aziendale, per esempio, possiamo riconoscere quando qualcuno attiva dinamiche di “chiacchiera da bar” o propone un “teorema da piccolo professore” con affermazioni non supportate da alcun dato. Se il riconoscimento funziona, possiamo attivamente decidere di ricercare uno stato conversazionale più adeguato.

La leadership conversazionale consiste anche nel respingere i tentativi di alcuni membri di produrre una conversazione malata, riconoscendo quando avviene il boicottaggio della riunione, il boicottaggio di un’analisi seria del problema, o quando accade il tentativo di attacco al ruolo, e qualsiasi altra forma di azione distruttiva.

Processi specifici della leadership conversazionale

La leadership conversazionale applicata richiede che si attivino i seguenti processi.

Osservare per capire

•     Chi sta gestendo la conversazione, chi attua linee d’azione finalizzate a conquistare il potere nella conversazione.

•     Come vengono presi i turni di parola (per concessione di un leader, con tecniche di richiesta di permesso, con sovrapposizione e intrusione aggressiva sul parlato altrui).

•     Valutare se vi sono soggetti che monopolizzano la conversazione e altri che rimangono passivi nel gruppo.

•     Capire se vengono interrotti brani conversazionali inopportunamente, e da parte di chi.

•     Di che cosa si parla (argomento, argomenti multipli, contenuti centrali e laterali, sfumature di contenuto).

•     Se l’argomento è centrato, decentrato o completamente sfocato rispetto agli obiettivi della conversazione (centratura della conversazione).

•     Se viene tenuto il focus su un argomento o si cambia argomento (opportunamente o inopportunamente).

•     Se il tempo in cui un argomento è trattato è adeguato.

•     Se il luogo in cui un argomento è trattato è adeguato.

•     Se il contesto relazionale in cui un argomento è trattato è adeguato.

•     Se lo stile e l’approccio utilizzati nella conversazione sono produttivi.

Intervenire sugli elementi

•     Riappropriazione del potere conversazionale fissando le regole dal­l’inizio (imprinting della leadership conversazionale).

•     Gestione diretta dei turni di parola, concessione dei turni a terzi (turn taking e turn management).

•     Sanzione delle interruzioni, sovrapposizioni e intrusioni aggressive sul parlato altrui, sollecitazione al­l’intervento di partecipanti che non stanno intervenendo, ove necessario (rinforzi negativi);

•     Apprezzamento per stili conversazionali positivi, contributi attivi e atti conversazionali produttivi (rinforzi positivi).

•     Content management (fissazione del­l’argomento, della scaletta, dei contenuti centrali e laterali, delle sfumature di contenuto).

•     Ricentraggio conversazionale: se l’argomento è centrato, decentrato o completamente sfocato rispetto agli obiettivi della conversazione (centratura della conversazione).

•     Topic shifting: cambio di argomento quando opportuno.

•     Conversational timing e time management: decisione del tempo adeguato per trattare un certo argomento, inteso sia come durata necessaria che come momento nel giorno, settimana, mese o anno, o altri parametri temporali.

•     Intervento assertivo per bloccare conversazioni che cercano di avviarsi fuori dai tempi ideali o fuoriuscire dai tempi ideali o fissati (fuoriuscite conversazionali).

•     Setting management: valutazione del luogo e ambiente in cui un argomento viene trattato. Intervento assertivo per bloccare conversazioni che cercano di avviarsi in ambienti dai climi inadeguati (rumore, temperatura, umidità, affollamento, disturbi esterni).

•     Climate management: valutazione del contesto relazionale in cui un argomento è trattato (propensione alla collaborazione, clima disteso o ricettivo vs. indisponibilità al dialogo o clima tossico e ostile che rende la conversazione impossibile). Analisi dei rumor psicologici che intervengono sulla conversazione e interventi di eliminazione.

•     Azione assertiva sullo stile ottimale atteso dai partecipanti e rilevazione, persona per persona, sul fatto che l’approccio o stile utilizzato nella conversazione sia o meno produttivo (azione sul code switching, il cambio di codice comunicativo).

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Articolo estratto con il permesso dell’autore, dott. Daniele Trevisani, dal testo “Team leadership e comunicazione operativa. Principi e pratiche per il miglioramento continuo individuale e di team

L’urgenza di un approccio conversazionale ed emozionale

Non potremmo mai dirci arrivati come razza umana finché il lavoro non sarà un piacere per tutti, un’esperienza piacevole da condividere, e non qualche cosa che cerchi disperatamente se non l’hai e arrivi a odiare quando l’hai. Al centro del­l’analisi si collocano i “climi comunicativi” e le problematiche connesse alla gestione di gruppi (leadership), la performance (capacità di raggiungere obiettivi), il vissuto emotivo e la qualità del tempo trascorso al­l’interno dei gruppi (ecologia della comunicazione).

ecologia della comunicazione

Perché affrontare questi temi?

Per troppo tempo le scienze manageriali hanno messo da parte il “problema delle emozioni” nella conduzione delle organizzazioni.

La speranza che l’essere umano potesse “anestetizzarsi emotivamente” durante il tempo lavorativo ha tenuto poco e la prova dei fatti l’ha rapidamente distrutta.

I contributi della scuola nordamericana si basano su culture organizzative completamente diverse da quelle europee e latine (e asiatiche) e su iniezioni di suggerimenti rapidi, a volte al limite del ridicolo se lette da interlocutori maturi, dando per scontato che le persone condividano un progetto e abbiano solo bisogno di strumenti rapidi e indolori per raggiungerlo.

La realtà è fatta spesso di gruppi che non riescono a condividere obiettivi, visioni e persino la missione fondamentale che li dovrebbe accomunare. È fatta da leader o conduttori di team che non hanno alcuna capacità o volontà di leggere le emozioni dei propri “uomini” e “donne”, e non riescono a sintonizzarsi con i membri del team, a far cooperare il gruppo, a dare motivazione e ispirazione. È fatta da persone disattente al “clima di comunicazione” che s’instaura nel gruppo, manager che equalizzano la leader­ship con il “dare ordini”, anche se confusi e poco chiari, o ancora abbandonano un gruppo immaturo a un’autogestione utopica e improduttiva.

In altri “universi manageriali”, invece, assistiamo a insiemi di persone in grado di compiere imprese fuori dalla portata del­l’immaginazione, a gruppi nei quali ogni soggetto esce “ricaricato” dal­l’esperienza stessa di lavorare assieme, a leader che riescono a far crescere le persone con cui lavorano e a generare contributi importanti alla crescita delle aziende e di intere comunità, e persino della razza umana e del pianeta.

La distanza tra questi universi manageriali può essere di pochi metri (fisicamente), ma di anni luce dal punto di vista della qualità comunicativa e di vita.

Qualsiasi organizzazione, azienda o persino gruppo familiare, qualsiasi sistema, se intende progredire verso una qualità di vita superiore e verso i propri risultati, deve sviluppare nuove sensibilità.

Queste sensibilità (alla comunicazione, alle emozioni, ai climi umani e relazionali) si traducono nel­l’opportunità concreta di far evolvere il gruppo verso i propri obiettivi (fronte della produttività), ma anche, e soprattutto, verso un tempo psicologico positivo (fronte del­l’ecologia della comunicazione), nel quale il lavoro e lo “stare assieme” diventano momenti autorealizzativi.

L’impegno che si presenta è notevole. Lo sforzo sottostante è quello di utilizzare un approccio ampio e multidisciplinare, nel quale far convergere discipline diverse, secondo una concezione “olistico-pragmatica” che permea altre pubblicazioni sul metodo ALM (vedi Trevisani 2000).

Vale la pena impegnarsi in questo sforzo, nella consapevolezza che da esso possono nascere contributi importanti per la qualità della vita delle persone nei gruppi e nelle organizzazioni.

Vi sono poi ripercussioni forti sulla qualità dei sistemi familiari, e in generale in ogni gruppo o organizzazione in cui le persone debbano “vivere assieme”. La possibilità di fornire un contributo a questo immenso campo di problemi rende indispensabile un impegno forte e diretto.

Un lavoro serio sul­l’ecologia della leadership serve anche alla direzione aziendale, verso chi opera con compiti di responsabilità nella conduzione di team (direzione di gruppi marketing e vendite, direzione tecnica o di stabilimento, direzione risorse umane e altri comparti aziendali), e per chi agisce come formatore o consulente in qualità di change agent (formazione risorse umane, direzione di gruppi di miglioramento, consulenti, formatori, terapeuti, coach).

Servono ampi momenti di focalizzazione (autoriflessione) ed esercitazione applicativa, destinati a rendere le persone coscienti su come stanno operando, con prove di miglioramento esercitabili e praticabili nella “pa­lestra quotidiana della vita”

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  • Conduzione di team
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Articolo estratto con il permesso dell’autore, dott. Daniele Trevisani, dal testo “Team leadership e comunicazione operativa. Principi e pratiche per il miglioramento continuo individuale e di team

Riconoscere le emozioni

La leadership emozionale propone di inserire tra i fattori di successo della gestione di un gruppo la capacità del leader nel “leggere le persone” sotto il profilo emozionale, capire i propri stati interiori e quelli altrui.

leadership emozionale

Questo permette di muovere il cursore della comunicazione con consapevolezza tra le polarità (entrambe necessarie) della direttività (fronte hard) e del­l’empatia e della relazione d’aiuto (fronte soft).

Quali le implicazioni pratiche nella direzione dei team? La prima e più forte considerazione viene dalla natura biologica del­l’essere umano che opera in azienda. Le emozioni sono risposte psicobiologiche del­l’organi­smo e non possono essere “spente” a comando.

A un livello “immaturo” di leadership emozionale, possiamo al massimo pensare di attutire e “camuffare” la manifestazione esterna delle emozioni, ma non impedire il loro prodursi. A un livello “intermedio” possiamo affinare le sensibilità propriocettive (la percezione interna) e agire sulle intensità emotive diventando più abili nel gestirle. A un livello “avanzato” possiamo ristrutturare completamente le nostre risposte emotive agli stimoli esterni.

Quando predominano emozioni negative, la produttività scende al di sotto di qualsiasi soglia di accettazione, la leadership stessa viene vissuta come una condizione di frustrazione e la partecipazione al gruppo diventa sempre più un obbligo (dal quale sfuggire prima possibile). Se predominano emozioni positive possiamo invece aspirare alla “condizione di flusso”, uno stato nel quale il lavoro viene vissuto come una gioia – una sensazione piacevole dello scorrere del tempo e dei rapporti con le persone, una condizione esistenziale che trasforma il lavoro: da gabbia a luogo di espressione e autorealizzazione.

Le implicazioni per la produttività sono immediate, enormi, ma questo è nulla a fronte della rivoluzione sociologica che questo passaggio può implicare: il lavoro come liberazione cessa di essere utopia ed entra nella sfera del possibile. Ovviamente, non bastano trucchi e scorciatoie per raggiungere questo stato, e chiunque creda/proponga soluzioni “da un minuto” o altre ricette facili e pronte per l’uso sta compiendo un grave falso e un errore di sottovalutazione.

Le implicazioni pratiche

Rispetto alle possibili interrelazioni tra i diversi temi, il metodo HPM evidenzia come il successo nel gestire un team dipenda largamente dalla capacità di riconoscere e valorizzare le dinamiche conversazionali che avvengono nelle interazioni quotidiane dei gruppi. Allo stesso tempo, viene evidenziata la necessità di sviluppare la componente emotiva che inevitabilmente accompagna le relazioni umane e le comunicazioni interne.

La qualità della vita al­l’interno di un gruppo è fortemente influenzata da due fattori.

•     L’ecologia della comunicazione: l’analisi e gestione del clima psicologico al­l’interno di un gruppo dipende largamente dalla comunicazione e dagli stati conversazionali che intercorrono tra i membri. Non possiamo pensare di “acquistare” climi positivi: si tratta di una merce non in vendita. È invece necessario sforzarsi nella direzione del­l’ampliamento delle competenze comunicative e conversazionali.

•     La leadership emozionale, la capacità di attingere con successo alle risorse emotive della persona e del gruppo per coordinare e dirigere i team e i progetti, richiede competenze comunicative ad hoc. Larga parte del lavoro richiede un dis-apprendimento (unlearning) di schemi mentali assimilati durante la crescita, nei quali è stato creato il “blocco espressivo emozionale” (tappo, o coperchio al­l’espressione delle emozioni) che l’adulto trascina con sé come un fardello per il resto della sua esistenza.

Date queste premesse, è necessario approfondire gli strumenti operativi e pragmatici che permettono di agire su due fronti.

Sul versante aziendale:

•     cambiare la qualità della vita e i risultati aziendali agendo sulle variabili comunicative dei gruppi;

•     produrre climi comunicativi positivi in un gruppo di lavoro intento a raggiungere un obiettivo;

•     migliorare la prontezza di risposta aziendale verso le sfide esterne, agendo sui processi di comunicazione interna e direzione.

Sul piano individuale e della crescita personale:

•     capire i fattori del proprio successo al­l’interno delle dinamiche di gruppo;

•     dotarsi di strumenti operativi nella direzione dei team;

•     crescere sotto il profilo della capacità di creare relazioni profonde, empatiche, emozionalmente ricche, nei rapporti umani, relative ai gruppi personali o familiari di cui si faccia parte.

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Gestione strategica della conversazione

Se è vero che la leadership non è un “certificato burocratico” che si possa acquistare, ma si guadagna sul campo, è altrettanto evidente che la leadership reale richiede modalità di comunicazione interpersonale specifiche. La comunicazione interpersonale deve concretizzare il carisma, la capacità di motivare e guidare, monitorare e dare feedback, in ogni singola conversazione.

leadership

La psicolinguistica studia l’acquisizione del linguaggio nel­l’uomo e l’uso che egli ne fa nelle relazioni interpersonali. Una psicolinguistica della leadership dovrà quindi analizzare come il leader acquisisce il “linguaggio da leader”, lo studio del­l’acquisizione del linguaggio, il suo uso in relazione alle variabili psicologiche ed emotive che si connettono al­l’“essere leader”.

Uno degli effetti più concreti della teoria è la sua capacità di mettere in luce la necessità di un training adeguato dei leader e dei manager (di qualsiasi essere umano intento a raggiungere obiettivi) sul­l’allargamento dei propri repertori di stile comunicativo, riconoscimento degli stati conversazionali in corso e sulla capacità di gestione strategica degli stili conversazionali.

Un secondo effetto concreto è lo spostamento del problema della leadership da una “generica strategia leadership” a una “strategia di comunicazione per la leadership”, attenta al funzionamento delle comunicazioni quotidiane, giornaliere, sino ai singoli brani e spezzoni di interazione (attenzione al livello micro della leadership).

Senza attenzione agli stati conversazionali, qualsiasi riunione, meeting, discussione o incontro di direzione, qualsiasi interazione interpersonale in azienda rischia di disperdere le proprie energie lungo rivoli improduttivi anziché canalizzarsi nella risoluzione di problemi o nella progettualità.

Lo stesso vale per ciò che accade durante un pranzo o cena al­l’interno di una famiglia. Quali modelli di conversazione prendono piede inconsapevolmente durante una cena? Quali sono positivi per il clima? Quali negativi?

La teoria degli stati conversazionali ci aiuta anche a prendere consapevolezza dei rapporti tra conversazione e contesto della comunicazione.

Nel setting della “famiglia a tavola”, la presenza di una televisione accesa facilita o inibisce lo stato conversazionale desiderato? È accesa forse proprio per evitare di avviare conversazioni più profonde? È forse solo un’abitudine?

Qualsiasi sia la risposta, il problema non è la scelta (chiunque può scegliere di tenere o meno accesa una televisione a tavola) ma la consapevolezza di che cosa la scelta produce, che cosa genera, quali sono gli effetti di un elemento di setting sul­l’esito della conversazione.

Creare conversazioni strategiche significa costruire attivamente il setting. Quanto incide la presenza altrui in un chiarimento tra persone? Quanto i rumori di fondo, il momento della giornata, e ogni altra variabile di contesto?

Ecologia della conversazione

La teoria è sviluppata nel metodo HPM come contaminazione tra (1) gli studi di microsociologia del­l’interazione (soprattutto la Frame Analysis di Goffman) e (2) l’analisi degli stili comunicativi (codici e sottocodici), con riferimento principale alla scienza semiotica. Sullo sfondo di questa teoria si collocano (3) i contributi derivanti dagli studi sul­l’analisi della conversazione, che vedono tra i protagonisti Bercelli (per il contesto italiano) e altri autori nel contesto internazionale (Antaki 1998; Bazzanella 2002; Bercelli, Leonardi e Viaro 1999; Drew ed Heritage 1992; Fasulo e Pontecorvo 1999; Galatolo e Pallotti 1999; Goffman 1987 [1981]; Mizzau 2002; Ochs e Capps 2001).

La teoria del­l’ecologia della comunicazione intende far riflettere sul­l’effetto che assumono gli stati conversazionali al­l’interno dei climi dei gruppi, producendo emozioni positive o negative, vissuti sereni o ambienti avvelenati.

L’ecologia studia il grado di salubrità degli ambienti nei quali vive l’uomo, inclusa la presenza di agenti inquinanti e altri elementi che danneggiano la salute o il benessere. Il tema del­l’ecologia della comunicazione evidenzia come tra gli agenti esterni si debbano considerare i messaggi che il soggetto riceve, minuto dopo minuto, ora dopo ora, giorno dopo giorno.

La sommatoria e stratificazione di messaggi, input comunicativi ricevuti e scambi determina per la persona un progressivo avvelenamento o (sul fronte opposto) una progressiva depurazione del­l’organismo inteso come sistema corpo-mente.

Le implicazioni pratiche per la direzione d’impresa vanno diritto al cuore del­l’azienda. Prestando attenzione al­l’ecologia della comunicazione aziendale possiamo intervenire sul­l’“aria che si respira in azienda”, sulla produttività dei gruppi, possiamo limitare la fuga dei cervelli aziendali e avvicinare le migliori menti. Sempre che le si cerchi veramente.

L’azienda come luogo nel quale si possa vivere ed esprimersi creativamente, e per il quale vale la pena di sforzarsi e impegnarsi, non è solo immagine pubblicitaria, può diventare concreta realtà.

Le implicazioni sulla famiglia sono altrettanto forti: disagio, fuga, abbandono, separazione vs. amore, unità, serenità, piacere del vivere assieme.

Senza attenzione a questi elementi i climi aziendali possono sfuggire di mano, il tempo del personale diventa sempre meno produttivo e sempre più dedicato al conflitto interno, e si attivano i meccanismi di fuga o conflitto.

Ci sembra che queste tematiche richiedano una certa attenzione.

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Stili comunicativi per una conversazione efficace

La teoria degli stati conversazionali nasce al­l’interno del percorso di ricerca del­l’autore sui temi della comunicabilità e incomunicabilità (Trevisani 1992).

La teoria evidenza che gli individui impegnati in una conversazione utilizzano prototipi e schemi comunicativi, modelli di conversazione che possono essere funzionali (efficaci) o disfunzionali (inefficaci) rispetto agli obiettivi.

stati conversazionali

Per esempio, affinché una conversazione tra terapeuta e cliente sia efficace è necessario che la modalità conversazionale del terapeuta sia di ascolto attivo, mentre il cliente si applichi in un prototipo grezzamente assimilabile al “confessionale”. Se il terapeuta diviene “giudice” e il cliente “difensore di se stesso” la conversazione avrà scarsi risultati.

Allo stesso modo, se un leader affronta un insuccesso con un proprio dipendente utilizzando il modello “proviamo a capire le cause del problema”, il risultato sarà certamente diverso (più positivo) del­l’esito di un dialogo “accusa-difesa”. Nulla proibisce di passare al modello accusa-difesa in una fase successiva del dialogo, ma ciò che conta è che questo sia frutto di una scelta consapevole e non di un errore.

E ancora, immaginiamo una coppia (marito-moglie) nelle conversazioni personali che avvenivano durante il fidanzamento. Poi confrontiamole con le conversazioni che avvengono durante il decimo anno di matrimonio, o nel ventesimo. Noteremo, in molti casi, che la conversazione (inizialmente basata su un carico emozionale forte, nei contenuti e nei toni) diviene sempre più “amministrativa”, sempre più orientata a risolvere problemi quotidiani, o al conflitto (nei casi peggiori), e sempre meno al “sognare assieme”.

Ogni rapporto evolve in base a come evolvono gli stati conversazionali tra due persone. Se la conversazione diviene sempre più amministrativa, anche il rapporto lo diverrà.

Gli stati conversazionali si applicano anche a modalità di conversazione allargata o mediata. Possiamo immaginare una comunicazione in pubblico (public speaking) sotto forma di “sequenza di minuti interminabili nei quali sono sotto esame da parte di tutti” (modello di comunicazione come prestazione) vs. “uno spazio di tempo nel quale vorrei aiutare il mio pubblico a capire un concetto” (modello di comunicazione come relazione d’aiuto).

La teoria quindi analizza gli esiti conversazionali strategici, i risultati di un’interazione, il successo o fallimento nel raggiungimento degli obiettivi, evidenziando come essi dipendano largamente dagli stili comunicativi adottati dai vari membri del gruppo, e, nel caso della leadership, soprattutto da parte della direzione (team leader).

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La ricerca dell’eccellenza per il raggiungimento degli obiettivi

eccellenza operativa.1

L’eccellenza operativa si colloca in una posizione molto precisa della scala manageriale: al di sopra dell’esecuzione “mediocre” e “media”, e al di sotto del blocco dovuto all’ossessione per la perfezione maniacale per il dettaglio. Entrambi gli stati, precedente e successivo, portano al blocco del­l’eccellenza operativa. Gli errori principali sono:

•     un’esecuzione mediocre annulla qualsiasi vantaggio strategico;

•     un’attenzione ossessiva al dettaglio porta alla sola attenzione tecnica che fa perdere di vista la visione d’insieme e le variazioni situazionali.

Come evidenziato nel volume Il potenziale umano:

Due elementi fondamentali di una prestazione umana sono: (1) gli scopi (obiettivi) e (2) il loro grado di raggiungimento (nullo, intermedio, totale).

Rispetto agli scopi, ci concentriamo soprattutto su quelle prestazioni o performance che hanno un senso di contributo, di liberazione, di espressione, di emancipazione. In altre parole, le prestazioni non solo meccaniche.

Rispetto al grado di raggiungimento, consideriamo che esso sia una funzione strettamente dipendente dal tipo di potenziale raggiunto (dalla persona, dal team, dal­l’organizzazione), e che per l’eccellenza bisogna lavorare sulla crescita strutturale più che sui risultati immediati (Trevisani 2009, p. 34).

Il tema del­l’Eccellenza, nel potenziale umano, si ritrova anche al­l’interno della filosofia orientale dei samurai, in particolare negli scritti di Musashi, dal Libro dei cinque anelli:

Ottavo: non essere trascurato neppure nelle minuzie.

Come abbiamo osservato, questo precetto segnala il bisogno di entrare nelle microcompetenze, la ricerca dell’eccellenza, l’abbandono di un atteggiamento di pressapochismo e banalizzazione.

Attenzione ai dettagli che contano, amore per quello che si fa e per come lo si fa.

Occorre quindi trovare la posizione corretta all’interno di un continuum. Torniamo quindi a quanto sviluppato in Il potenziale umano, sulla differenza tra l’eccellenza e i perfezionismi inutili.

Chi si occupa di performance è spesso portato a confondere due piani distinti di una prestazione: la perfezione e l’eccellenza.

Una prestazione eccellente è quella che offre contributi significativi a chi ne deve fruire, mentre una prestazione perfetta è spesso autoreferenziale, forzatamente ed esasperatamente sovraccarica di attenzione, anche nei dettagli nei quali nessuno può percepire un contributo in più o vantaggi ulteriori veri.

La vera eccellenza si misura sul valore vero prodotto, non in finezze snob.

I performer non possono essere danneggiati dalla ricerca della perfezione ma devono essere stimolati dalla ricerca del­l’eccellenza.

Si tratta di una differenza sottile ma importante.

Perfezionismo e ricerca del­l’eccellenza sono atteggiamenti diversi. Il perfezionismo assorbe energie in modo maniacale anche oltre il livello in cui un contributo diventa significativo. Consuma energie inutilmente.

Le attività dei cercatori di perfezione non sono mai finite, mai terminate, mai perfette, esiste sempre una ragione per non completarle o non essere soddisfatti di sé.

L’eccellenza richiede che le energie vengano investite là dove un contributo produce effetti, e sino al livello in cui un miglioramento è reale, percepibile, dotato di senso, creatore di valore buono, e non oltre.

Il perfezionismo non aumenta il successo delle persone, è uno stato di maniacalità. Il successo è determinato da talento, energia, impegno, non dal perfezionismo o dalla testardaggine verso i dettagli inutili.

Il successo avviene nonostante il perfezionismo, non a causa di esso. Come evidenzia Greenspon (2008), il perfezionismo è una sorta di malattia: “Il perfezionismo non è fare del proprio meglio, o ricercare l’eccellenza. È una convinzione emotiva sul fatto che la perfezione sia la sola via all’accettazione personale. È la convinzione emotiva che solo essendo perfetto uno sarà finalmente accettato come persona”.

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La consapevolezza emotiva per una comunicazione di qualità

I team ad alte performance, siano essi sportivi, aziendali, civili, affrontano situazioni che altre persone non incontreranno mai nella vita.

Una finale di calcio in uno stadio gremito da 80.000 persone, o il tentativo di salvare persone in una casa che brucia, liberare degli ostaggi da persone armate, o rivoluzionare e rimuovere i parassitismi di un’azienda, sono sfide enormi.

Queste situazioni mettono in gioco inevitabilmente le emozioni.

Comunicazione di qualità.1

•     In molte situazioni bisogna ricorrere alla capacità di suscitare emozioni (altrui) e reagire con consapevolezza delle proprie emozioni.

•     La leadership è una sfida. Come ogni sfida, può essere affrontata tramite la fuga (reazione di evitazione), tramite l’attacco (reazione aggressiva), il blocco (stallo) o il problem solving (reazione analitica). La mancanza di consapevolezza emotiva provoca reazioni incontrollate di fuga o, al contrario, di blocco o di aggressività ingiustificata.

•     La leadership emotiva consente di attivare flussi di comunicazione interna (intrapersonale) e tra membri di un team, dove le emozioni smettono di essere considerate “accessori” per divenire pilastri portanti di una comunicazione di qualità.

•     Tramite la formazione e il coaching, è possibile affinare le tecniche e capacità, aprire il dialogo emozionale sia interno che esterno, ottimizzare i flussi operativi e migliorare sensibilmente le proprie capacità direzionali, far leva sulla componente di fattore umano insita in ogni team vincente o forza speciale per ottenere risultati superiori.

Diventano quindi importanti, essenziali, nuovi strumenti per ottenere partecipazione e risultato. Tra questi, anticipiamo alcune aree di attenzione che svilupperemo nel capitolo dedicato alla leadership emozionale e al test EmLead, da noi elaborato.

Temi avanzati di leadership emozionale nel modello EmLead 72:

•     analisi e gestione del­l’aggressività;

•     analisi e gestione della passività;

•     competenze e sviluppo delle abilità nelle relazioni di aiuto (coaching, training, counseling, mentoring);

•     ascolto emotivo interiore;

•     capacità di espressione esterna ed espressione degli stati emozionali;

•     microanalisi comportamentale, analisi dei frame comportamentali;

•     locus of control emozionale;

•     bioenergetica della performance professionale nella leadership;

•     gestione e recupero dello stress emotivo;

•     autoefficacia e sviluppo del­l’efficacia personale.

Una squadra che vince tiene ai suoi membri. Sapere che sei in un gruppo dove non verrai abbandonato, non verrai lasciato indietro, dà forza e coraggio a tutti.

Volando in formazione le oche aumentano del 71 per cento la portata del loro volo rispetto al viaggiare da sole. Le oche emettono suoni per mantenersi coordinate in volo. Se chi tira la formazione si stanca, scala e un’altra oca la sostituisce. Se un’oca si ammala o è ferita e deve lasciare lo stormo, due oche la scortano e rimangono con lei fin quando si riprende o muore (http://ancoralearning.com.au/ blog/can-geese-teach-us-teams).

Se questo sanno fare le oche, possiamo noi fare almeno altrettanto, e addirittura di più?

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  • Coaching
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  • Ascolto emotivo interiore
  • Espressione degli stati emozionali
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  • Locus of control emozionale
  • Bioenergetica
  • Stress emotivo
  • Efficacia personale

Articolo estratto con il permesso dell’autore, dott. Daniele Trevisani, dal testo “Team leadership e comunicazione operativa. Principi e pratiche per il miglioramento continuo individuale e di team

tecniche di comunicazione

La gestione dei team richiede tecniche di comunicazione efficaci a vari livelli:

•     fase direzionale-> comunicazione top-down: dare ordini, istruzioni, direttive, delegare bene;

•     capacità di interiorizzazione dei ruoli-> empowerment, dare potere ai ruoli, dargli piena capacità operativa e gradi di autonomia;

•     capacità di sviluppo della relazione-> equilibrio tra empatia, saper ascoltare gli altri, e assertività, saper imporre una visione e tirare le somme;

•     capacità motivazionale-> comunicazione persuasiva, alimentare energie positive, forza, coraggio, motivazione;

•     capacità di sviluppare leadership in azione-> comunicazioni operative, ordini, direttive chiare, deleghe chiare, informazioni chiare, quando servono, a chi servono, evitando noise (rumore e degrado informativo) e riducendo il rumore di fondo.

Le tecniche necessarie per gestire un team sono molte, e cito solo alcune delle principali:

•     diagnosi organizzativa e dei flussi di comunicazione: chi comunica che cosa e a chi, a chi servono informazioni, quando, perché;

•     diagnosi degli stili di comunicazione: “Comunichi nel modo giusto per poter stare in questo team?”;

•     diagnosi dei climi emotivi: “Che aria tira?” “Chi porta energie positive?”;

•     valutazione dei potenziali dei singoli;

•     valutazione della corretta attribuzione dei ruoli: “Ci sono le persone giuste al posto giusto?”;

•     combat readiness e team readiness; valutare se un individuo sia o meno “pronto al combattimento” (in senso metaforico), ovvero nello stato di forma fisico e mentale per eseguire la performance, per ricevere un certo compito, entrare in azione e dare il reale contributo necessario.

Gli interventi che bisogna apprendere a svolgere per incrementare le capacità di un team sono anch’essi diversificati:

•     interventi correttivi diretti su singoli;

•     interventi di comunicazione informativa all’intero team;

•     condivisione di piani e strategie;

•     condivisione di visioni e obiettivi;

•     mentoring; counseling, training, coaching e ogni processo utile ad alimentare di competenze le persone.

Tutte le diverse tecniche formative, peculiari, sono da assorbire e studiare per affilare le armi della capacità di dirigere un vero team.

Se prendiamo un gruppo di persone accatastate in un autobus, persone che non si conoscono, questo non fa di loro una forza speciale e nemmeno un team. Ma anche persone che si conoscono e comunicano tra di loro poco e male non potranno essere una forza speciale, un vero team ad alte prestazioni.

Ogni team, e ogni persona, ha una propria psicologia e struttura caratteriale, un certo livello di competenze, valori, energie, forze e debolezze.

Essere a capo di un gruppo (una squadra, un’azienda, un’area) non equivale a possederne la leadership. Esistono numerose realtà nelle quali gli organigrammi del potere e del carisma reale non corrispondono agli organigrammi ufficiali.

La leadership reale, il carisma e il potere, sono nelle mani di chi è più abile nel gestire la comunicazione sul campo, applicando la leadership conversazionale ed emozionale in ogni singolo contatto.

Un leader si distingue per la capacità di capire quando è bene frenare l’azione e quando è bene saper agire subito.

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Articolo estratto con il permesso dell’autore, dott. Daniele Trevisani, dal testo “Team leadership e comunicazione operativa. Principi e pratiche per il miglioramento continuo individuale e di team

Guidare l’esplorazione umana su Marte è un atto mitico, non solo tecnico e scientifico. Produrre energia pulita e arrivare ad avere case che producono energia anziché consumare petrolio e risorse rare, è un atto mitico.

Nella leadership vera il mito si fonde con la realtà perché i leader veramente visionari sanno volare con la fantasia e vedere possibili cose che per altri sono utopiche.

leadership e vision

Questo meccanismo era ben conosciuto a chi ha saputo costruire grandi movimenti sia religiosi che politici. Senza giudicarne i valori, possiamo notare come il comunismo abbia nel lavoro, nello stesso simbolo della falce (il lavoro nei campi) e del martello (il lavoro nella fabbrica) un valore mitologico.

Il nazismo ha anch’esso avuto storicamente un’enorme attenzione alla costruzione scientifica di mitologie, andando a recuperare un’identità mitica dalle tradizioni greche e romane, identità chiaramente visibile nei “costumi di scena” e nelle parate (Lacoue-Labarthe e Nancy 1992, p. 47).

Il fascismo ha utilizzato il mito del lavoro nei campi, della forza fisica, del coraggio e del­l’ardimento, obbligando i gerarchi a dare essi stessi prova di coraggio anziché chiederne solo ai sottoposti. In questo, il sistema di leadership aveva funzionato bene.

Il mito diventa necessario e indispensabile per costruire un “sogno” (nel nazismo il sogno germanico del dominio del pianeta, nel comunismo la ricerca dell’egualitarismo che tuttavia annullava le pulsioni individuali).

Nelle aziende e nei team non è molto diverso: un sogno (vincere un campionato, diventare ed essere chiamati campioni, passare alla storia) funge da motore ispirativo e viene usato dai leader come motore della motivazione.

Il mito comprende diverse caratteristiche:

•     un’adesione fideistica, ciò che rende vero il mito è l’adesione del sognatore al suo sogno, fino a che il mito non si impossessa del­l’uomo nella sua interezza;

•     la credenza totale, l’adesione immediata e senza riserve alla figura sognata, qualcuno che incarni la figura, qualcuno che la manifesti, qualcuno che le permetta di prendere forma. Il mito è un elemento molto “ico­nico”, costruisce immagini, le idealizza, le pone come punti di arrivo.

Il martellamento mitico-simbolico crea una sorta di “ambiente culturale” che possiamo chiamare “mitosfera”, un insieme di messaggi comunicativi, visivi, uditivi, polisensoriali, che riempiono la vita e il quotidiano delle persone sino a fondersi con esse. Un ambiente in cui si creano figure idealizzate, miti positivi da imitare e ricercare, per i quali dare tutto, tutte le proprie energie, persino la vita, e miti negativi da odiare, “cattivi” e nemici verso i quali combattere con tutte le proprie forze.

Bene, possiamo apprezzare questo stato di cose o averne ribrezzo, ma il meccanismo sociale della leadership ha dei propri funzionamenti che un buon ricercatore deve riuscire a osservare, capire, isolare, indossando un “camice bianco” da analista. Dopo, e solo dopo averli capiti, potrà confrontare questi meccanismi con i propri valori e dire “mi piace” o “non mi piace”, sono d’accordo o non sono d’accordo.

Di un fatto possiamo essere certi. La leadership dipende ampiamente dalla capacità comunicativa dei leader. La leadership è nulla se non vi sono persone disposte a credere nei principi e valori del gruppo di cui vogliono far parte.

Nessuna persona “ordinaria” diventa forza speciale solo perché immessa in un gruppo in modo burocratico o iscrittasi, volontariamente o persino “costretta ad appartenere”.

Ciò che rende veramente speciale una persona e un team sono la qualità del pensiero, la lucidità tattica, la capacità di focalizzazione, le capacità di comunicazione (sia emozionale che coordinativa), i valori che si seguono, e il continuo lavoro per migliorare sé stessi.

Puntare a costruire un tassello del puzzle con cui l’umanità intera potrà migliorare ha in sé un lato mitico. Essere leader di una squadra di persone che scava un grande buco per poi ricoprirlo con la stessa terra, e altre azioni inutili, è una forma di leadership dispregiativa, persino ripugnante quando ci si fregia del titolo di “capo” o leader ma lo scopo sottostante a cui si lavora non vale nulla. Interi “burocratifici” sono stati costruiti con il solo scopo di nominare dirigenti e leader del nulla.

Il recupero della miticità della leadership consiste nella riscoperta dello “scopo nobile verso il quale lavoriamo”, per cui non esiste niente di veramente nobile nel costruire Ferrari se queste devono diventare il bene di lusso per pochi sceicchi e miliardari, e inquinare più di auto normali, mentre è molto più nobile l’ingegnere che guida la ricerca di un veicolo di trasporto pulito, sicuro, e che aiuta la razza umana e non pochi ricchi eletti.

La dimensione mitica della leadership deve tornare a fare i conti con i valori di fondo per cui si lotta o non si lotta. I valori che ci sono o non ci sono. Senza que­st’analisi, i miti dei leader e grandi condottieri diventano favole da raccontare ai bambini, ma solo finché non sono abbastanza grandi per capire la truffa che si nasconde dietro alle bugie.

La leadership può essere considerata una prosecuzione in età adulta di quella che Adler ha individuato come la “libera forza creatrice dell’individuo nella prima infanzia” (Adler 1933), e il senso della leadership arriva a coincidere con il “senso della vita” individuato da Adler, la voglia o meno di contribuire a qualche cosa che vada oltre la nostra vita materiale e limitata.

La leadership non può fare a meno di confrontarsi con il “senso” che si dà alla vita e alla propria vita in particolare. Voler essere utile a qualche cosa, adoperarsi per qualche cosa, e chiedersi se questo fare sia importante o meno.

Tutto va imparato non per esibirlo, ma per adoperarlo.

Georg Christoph Lichtenberg

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Articolo estratto con il permesso dell’autore, dott. Daniele Trevisani, dal testo “Team leadership e comunicazione operativa. Principi e pratiche per il miglioramento continuo individuale e di team

Se pensi di conoscerti davvero bene, sappi che di fronte a sfide nuove potranno emergere lati di te che non conoscevi. E che in ogni caso, per osservarsi o vedersi, serve una grande quantità di strumenti e tecniche.

Come faresti a conoscere il colore dei tuoi occhi se non esistesse in tutta la terra uno specchio per poterti osservare? Questo specchio sono esperienze speciali, sono i professionisti che ti aiutano a percepire te stesso in questi momenti di picco, sono momenti di analisi guidata, di confronto, di introspezione. Per compiere un’esplorazione guidata occorre “lasciarsi aiutare” in questo processo di autoconoscenza.

La crescita personale è il primo vero passo della leadership e dello stare in un gruppo che vuole crescere e gioire. Crescita personale significa anche sfidare il destino, decidere su che cosa lavorare di sé stessi anziché pensare di essere solo e unicamente frutto di decisioni ed eventi esterni.

Farsi aiutare in un percorso di esplorazione e autodeterminazione è un atto intelligente. Farsi aiutare non significa diventare quello che “altri” vogliono, ma anzi, essere i protagonisti e registi dei propri cambiamenti desiderati. Se sali su un treno e ti fidi del macchinista, ricorda sempre che la destinazione l’hai scelta tu, il macchinista e il treno ti servono come strumenti per arrivare prima dove tu vuoi. Lo stesso vale per una guida alpina o un GPS nell’esplorazione di zone sconosciute.

Chi mi porge una lampada per osservare la strada al buio non mi sta dicendo dove andare. Mi sta solo dando uno strumento perché io possa decidere se andare a destra o a sinistra anziché nel burrone.

Come per il colore degli occhi, non lo conoscerai mai fino a che non avrai strumenti esterni per osservarlo. E anche quando tu avrai preso coscienza del fatto che sono verdi, marroni o azzurri, non cambierai mai il colore dei tuoi occhi con la tua volontà. Ma potrai cambiare la potenza e massa dei tuoi muscoli allenandoli bene, potrai cambiare la flessibilità delle tue articolazioni, la tua resistenza aerobica, la tua massa grassa e magra, la resistenza dei tuoi tendini, perché queste caratteristiche sono soggette alle tue azioni quotidiane, alle abitudini, al fatto di “allenarle”, e non solo frutto del destino. E le tue abitudini sono qualche cosa su cui si può assolutamente lavorare.

Vi sono alcuni tratti del carattere che difficilmente potrai cambiare, ma tanti altri che invece sono lavorabili, “costruibili”, soggetti a essere costruiti e potenziati, e la leadership, o una buona capacità comunicativa quando la vuoi avere e nelle occasioni in cui ti serve, sono assolutamente tratti allenabili e potenziabili.

Principio 3 – Il Locus-of-Control

La crescita personale è il primo vero passo della leadership e dello stare in un gruppo che vuole crescere e gioire. Crescita personale significa anche sfidare il destino, decidere su che cosa lavorare di sé stessi (Locus-of-Control interno) anziché pensare di essere solo e unicamente frutto di decisioni esterne ed eventi esterni (Locus-of-Control esterno).

Chi crede e ha visto in azione i cambiamenti che le persone fanno grazie a processi formativi e di coaching ben fatti, non può che credere nel potenziale umano. Questo vale sia per atti a prevalenza fisica, come lo sport, che in attività soprattutto manageriali, mentali e culturali.

Nello sport, chi ha visto i cambiamenti positivi di atleti in seguito a programmi allenanti ben fatti non può che rimanere sbalordito. Chi ha visto gli effetti di un allenamento combinato fisico e mentale sarà ancora più sbalordito.

Nelle professioni manageriali, chi ha trovato su di sé o in altri il miglioramento nelle capacità di public speaking in seguito a training dedicati non può che credere nella grande “plasticità” del potenziale umano, nella sua immensa potenzialità, nel fatto che si possa passare dal­l’essere introversi o “orsi”, oppure vedersi dotati di bassa autoefficacia, a diventare grandi comunicatori, purché si abbia voglia di lavorarci, e ci si dedichi tempo pensando che sia il momento speso meglio della vita e non tempo residuale o un lusso per pochi.

Formarsi è un investimento sacro. Se dovesse servirti un’ora, o un mese, o un anno, per migliorare la tua capacità di sostenere un esame o un test, quanti esami ne trarrebbero beneficio, in tutta la tua vita? E parlo di esami non solo formali, ma anche di colloqui nei quali in ogni caso il tuo “essere” viene fuori, che tu voglia o meno, viene osservato e percepito e di fatto produce la percezione che gli altri hanno di te.

S’impara sia facendo sia ripassando mentalmente l’azione. Un buon coaching sa quando avviare un tipo di apprendimento o l’altro.

Ci sono cose che si imparano meglio nella calma, altre nella tempesta.

Willa Cather

Investire su di sé significa lavorare sulle proprie capacità mentali, prima ancora che sulle conoscenze. Puoi avere studiato psicologia per decenni ma ancora non capire te stesso e le persone. Puoi avere letto migliaia di libri ma non saperne raccontare la sintesi.

Quante ore di studio possono mai compensare un’esposizione scarsa? Quando hai mai creduto a un dietologo che vedi coi tuoi occhi avere un corpo disfatto e sovrappeso?

Quante “spalline” finte servono per compensare una scarsa attenzione al corpo, quante panciere potrai mai indossare per far finta di ridurre il giro vita anziché lavorare sul tuo corpo ogni singolo giorno? Quante frasi e da quanti libri potrai rubare se non hai niente di tuo da dire di vero? Quante bugie potranno esserci nei proclami di un’azienda se poi nei fatti e nei prodotti che usi vedi che non corrispondono al vero?

Come ha detto il grande Bob Marley “You can fool some people sometimes, but you can’t fool all the people all the times” (in una traduzione non letterale, “puoi fregare qualcuno qualche volta, ma non potrai fregare tutti e sempre”).

Chi lavora su di sé ha sempre meno bisogno di fingere. Questa è la verità della Scuola del potenziale umano. Una scuola di Verità, di Ricerca, di Conoscenza.

Ci sono molti modi per conoscersi. In molti casi serve un lavoro di gruppo e un feedback onesto, in altri casi è nella solitudine che si forgia il guerriero, è nella durezza della realtà che si costruisce la leadership. Questo vale anche per i leader veri che non possono delegare ad altri il lavoro che devono fare su di sé.

Il più grande samurai della storia, Miyamoto Musashi (1584-1645), fu certamente un leader e ancora oggi è culturalmente un leader dopo secoli. Arrivò ad avere più di tremila studenti che studiavano sotto di lui, oppure sotto la guida di suoi allievi diretti; e oggi in Giappone ci sono molte scuole che derivano dalla sua. Ma vediamo come vi è arrivato.

Si ritirò in meditazione e insegnamento a cinquant’anni, vagò nelle foreste più impervie dai 13 ai 29 anni, sopravvivendo e sfidando con un bastone di legno altri samurai dotati invece di katana d’acciaio. Se fosse stato “nominato” samurai o avesse ereditato il titolo, non avrebbe vinto nemmeno contro una mosca morta. Quanti leader di oggi si sono veramente “fatti le ossa” combattendo sul campo, lottando per una causa, spesso senza aiuti, senza raccomandazioni, senza rinunciare ai propri valori?

Musashi, cresciuto maneggiando un bastone, aveva certamente un vantaggio su chi si era formato con ben più di risorse di lui. Al­l’epoca dei samurai un guerriero (bushi) aveva due spade alla cintura: la katana (spada lunga) e la wakizashi (spada corta). Musashi insegnava ai suoi allievi che morire con una di queste armi ancora nel fodero significava non aver fatto tutto il possibile per vincere.

Musashi si forgiò e si formò combattendo, visse diversi anni in totale eremitaggio nelle foreste più impervie, dedicandosi esclusivamente al­l’affinamento delle tecniche marziali dai 13 anni (età del suo primo combattimento mortale).

Togli a un leader i servi, gli yes-man, i soldi, le persone e le risorse ipocritamente ubbidienti, gli agi, mettilo da solo e senza risorse, e vedremo di che pasta è fatto davvero.

Chi è leader e coordina team ad alte prestazioni lavora su di sé sempre, e deve farlo per possedere doti di leadership oltre la media, perché le sfide che compaiono sono speciali.

Due esercizi pratici:

•     esaminiamo quanti messaggi servono in un solo giorno, per tenere coordinata un’azienda, comandare una nave, coordinare un’operazione di polizia, essere il coach di un team agonistico, di una squadra di calcio o di volley, di tennis o sport di combattimento, dirigere un gruppo di vendita o un team di miglioramento della qualità. O anche solo per servire bene a un tavolo di ristorante;

•     osserviamo questi messaggi: come sono costruiti, se fanno bene al raggiungimento degli obiettivi, quali motivano e quanti invece demotivano o distruggono il gruppo, il clima e la “missione”. Avremo subito un indicatore della Qualità della comunicazione operativa.

Per fare vera comunicazione operativa occorre volere comunicare bene ma anche ripulirsi dal timore di sbagliare o decidere male perché non abbiamo tutta la vita a disposizione per decidere. La vera paura deve essere non decidere. Si tratta di entrare a far parte di un’élite, sia per lo spessore delle persone che si comandano che per la volontà di saper tirare fuori il meglio di sé e degli altri.

Occorre comprendere che in realtà ciò che rende “speciale” un team, ancora prima che le azioni compiute, sono i tipi di atteggiamenti mentali. Il grado di concentrazione e di qualità del pensiero che precede l’azione, la capacità di vedere se stessi e saper diventare “archetipi” di un modo di essere, persone speciali, membri di un team, dedicati a una causa nobile.

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