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Articolo estratto con il permesso dell’autore dal testo di Daniele TrevisaniIl potenziale umano. Metodi e tecniche di coaching e training per lo sviluppo delle performance”. Franco Angeli editore, Milano.

Guardarsi dentro per evolvere

L’apertura al cambiamento è spesso confusa con l’intenzione di “acquistare” o “comprare” il cambiamento. Ad esempio, un manager può sperare di aumentare la produttività del suo reparto acquistando un nuovo software, senza rendersi minimamente conto del fatto che la produttività sia bloccata da qualche suo errore di leadership, di people management, o di comunicazione interna, o da cattiva organizzazione.

L’apertura al cambiamento è da intendersi come accettazione della necessità di osservarsi interiormente, di scoprire i propri punti di forza e debolezza.

Il pensiero “tutti sbagliano, tranne me”, lo stereotipo “io sono praticamente perfetto” mettono in crisi qualsiasi introspezione.

In “Regie di Cambiamento” (Trevisani, 2007) ho potuto evidenziare che il cambiamento contiene tre specifiche zone di lavoro o “operazioni”:

Zona 1: rimuovere, abbandonare, disapprendere, lasciare, disfarsi di…

Zona 2: consolidare, mantenere, aggrapparsi a, rafforzare, ancorarsi a…

Zona 3: acquisire, imparare, apprendere, assimilare, far entrare…

Il lavoro mentale di focusing (identificare, localizzare, far luce, diradare la nebbia, far emergere) consiste nella ricerca di quali siano i contenuti delle tre aree. Senza un focusing adeguato, un’azione che intende produrre cambiamento può diventare persino controproducente o avere effetti opposti a quelli desiderati, come un pugno sferrato nel buio può rischiare di colpire un amico.

Guardarsi dentro, chiedersi cosa sarebbe bene disapprendere, e cosa sarebbe bene disimparare, richiede coraggio, un vero coraggio, superiore a quello necessario per lanciarsi da un paracadute.

Il coraggio di guardarsi dentro consiste nel mettere in discussione la propria presunzione di perfezione, ricercare i prototipi di pensiero disfunzionali che ci circolano dentro, le modalità di ragionare improduttive o dannose per sé e per gli altri. Localizzare bene cosa non va è più difficile rispetto a risolverlo.

Figura 4 – Il cambiamento e le zone del di cambiamento

La cattiva localizzazione genera dispersione di energie. Molto spesso siamo nella condizione di “confusione sul vero target di cambiamento”, come se un pompiere gettasse acqua sul lato opposto in cui si trova il fuoco, e non riuscisse a capire dove il getto d’acqua va diretto.

Serve una forte capacità di capire dove è bene lavorare e migliorare. Il contrario produce un “assediarsi entro uno schema” che il più delle volte significa bloccarsi, non evolvere.

Il coraggio riguarda anche il comportamento del coach che intenda utilizzare un approccio analitico per andare sino in fondo, e:

analizzare cosa il soggetto (persona o sistema) deve disapprendere, abbandonare, eliminare dal proprio modo di essere, di agire o pensare; valutare le difficoltà sottostanti nel farlo, gli ancoraggi che rendono il cambiamento difficile, le pulsioni profonde;

analizzare e rafforzare gli ancoraggi di identità, di comportamento e di atteggiamento, sui quali si costruisce la propria solidità interiore;

valutare i bisogni di apprendimento, sia come conoscenza da immettere, che come comportamenti o atteggiamenti da far entrare per produrre sviluppo positivo.

Tutte le volte che una persona rifiuta di mettersi in discussione, blocca la curiosità per la ricerca, pratica arroganza e senso di superiorità immotivati, mette in moto meccanismi che ostacolano la sua crescita.

Principio 13 – Relazione tra energie mentali e analisi interiore

Le energie mentali diminuiscono o si esauriscono quando:

  • non viene svolta un’analisi corretta rispetto a (1) ciò che sia bene disapprendere, lasciar andare, ripulirsi da…, (2) quali ancoraggi mantenere, e (3) quali apprendimenti sono necessari, sia in termini di concetti che di atteggiamenti;
  • l’individuo non accetta di mettere in discussione le proprie abitudini e prassi;
  • l’individuo si concentra sui rischi del cambiamento e non sui possibili vantaggi;
  • l’individuo non cerca aree per la propria crescita personale;
  • l’individuo non accetta di analizzare in modo critico i propri modi di pensare, di ragionare, i prototipi cognitivi e credenze che usa, le distorsioni e incongruenze, e le implicazioni negative che ne derivano per sé e per gli altri;
  • l’analisi interiore viene considerata di scarso valore o poco senso pratico, con una forte deriva materialistica.

Le energie mentali aumentano quando:

  • le proprie abitudini e prassi vengono sottoposte ad analisi periodica, al fine di suscitare analisi e cambiamento migliorativo;
  • viene esercitato il cambiamento verso fini positivi, la rottura della stasi, come condizione non pericolosa e vantaggiosa;
  • vengono svolte analisi per scoprire le proprie dissonanze e incongruenze, con supporto professionale, al fine di migliorare il grado di integrazione tra i diversi elementi psichici e comportamentali;
  • vengono localizzati ed analizzati: 1) i bisogni di rimozione (disapprendimento, pulizia), 2) di apprendimento, e 3) gli ancoraggi di identità cui non si intende rinunciare.

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La necessità di crescita personale e professionale

L’individuo ha la capacità di apprendere costantemente dall’ambiente e dall’esperienza, date condizioni adeguate.

Per sbloccare i percorsi di apprendimento è necessario attivare gli strumenti della formazione esperienziale, basati sui principi dell’andragogia (scienza della formazione dell’adulto), che valorizzano il “fare attivo” come strumento per apprendere, opposto ad un “ascolto passivo”.

Le relazioni tra apprendimento ed energie mentali sono quindi sia di tipo interno (responsabilità dell’individuo) che di tipo esterno (responsabilità dei formatori, insegnati, pedagogisti e istituzioni preposte alla formazione).

Principio 12 – Capacità e condizioni di apprendimento

Le energie mentali diminuiscono o si esauriscono quando:

  • l’individuo non vede nella propria esperienza alcun elemento di apprendimento e accetta passivamente questa condizione;
  • l’individuo non sente bisogno di apprendere;
  • l’individuo non attiva percorsi autonomi ed esperienze guidate di riflessione sull’esperienza tali da generare apprendimento;
  • l’individuo perde curiosità verso il mondo, verso il sapere e verso l’acquisizione di nuova conoscenza (fattori interni);
  • i metodi formativi e di insegnamento utilizzati inibiscono il ruolo attivo del soggetto nell’apprendimento;
  • le tecniche di formazione e apprendimento non riescono a risvegliare curiosità, volontà e motivazione verso la crescita e acquisizione di saperi, abilità fare o nuovi atteggiamenti (fattori esterni).

Le energie mentali aumentano quando:

  • l’individuo riesce a creare esperienze di apprendimento nel suo vissuto quotidiano;
  • nasce o viene stimolato il bisogno di apprendere e il piacere di apprendere;
  • aumenta il bisogno di conoscenza e di ricerca;
  • vengono utilizzate tecniche che facilitano l’apprendimento in modo attivo, partecipativo, esperienziale.

La condizione primaria dell’apprendimento è la volontà di apprendere e la curiosità, una condizione naturale dell’essere umano che i bambini manifestano chiaramente, chiedendo in continuazione “perché” e ponendo ogni altro genere di domanda.

Le modalità distorte della pedagogia reale, i metodi utilizzati per insegnare, portano spesso ad una condizione in cui apprendimento equivale a noia e frustrazione.

Per questo, alcuni individui finiscono per compiere l’equazione “apprendimento = studio = noia = sofferenza”, e interrompono il proprio percorso di ricerca e di crescita.

Risvegliando la curiosità verso il mondo e verso la conoscenza in sé intesa come scoperta, è possibile attivare nuove energie mentali.

Ogni individuo possiede il bisogno fondamentale di ricevere stimolazioni ambientali e di sentire di procedere nella propria crescita professionale e umana. Quando questo bisogno si spegne, siamo di fronte all’inizio di una nuova patologia di abulia, apatia, riduzione larvale della natura umana a macchina biologica e vegetale senza anima, senza speranza, senza aspirazioni. Anche un appagamento illusorio di questo bisogno (ad esempio, accontentarsi di un lavoro o di un ruolo nel quale non si apprende più niente, e “raccontarsela”) produce apatia.

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Le tecniche del metodo HPM per potenziare la memoria

La memoria è la capacità di immagazzinare informazione, fissare il flusso esperienziale e i dati, e avere accesso ad entrambi. La memoria è centrale per lo svolgimento della performance, in quanto, come evidenzia Baddeley:

senza la memoria saremmo incapaci di vedere, di udire o di pensare. Non avremmo un linguaggio per esprimere la nostra situazione, e di fatto neppure un senso della nostra identità personale. In breve, senza memoria saremmo dei vegetali, intellettualmente morti[1].

[1] Baddeley, A. (1990), La memoria, Laterza, Bari.

Vi sono migliaia di pubblicazioni e ricerche sulla memoria, un materiale sterminato impossibile da trattare in questa sede. Per i nostri fini vogliamo evidenziare alcuni tipi di memoria rilevanti per la performance e lo sviluppo delle energie mentali, sottolineando che non esiste una memoria singola ma molte tipologie di memoria.

  • Memoria a breve temine: mantenimento dell’informazione per pochi secondi dal suo ingresso.
  • Memoria a lungo termine: la funzione di immagazzinamento delle informazioni, superata la memoria a breve termine.
  • Memoria episodica: capacità di ricordare i dettagli di un evento, il ricordo di fatti particolari, come ciò che abbiamo mangiato a colazione il giorno precedente, o i dettagli di un evento anche remoto.
  • Memoria associativa: es.: ricordare i nomi delle persone vedendone il volto, associare un rumore ad una precisa auto.
  • Memoria semantica: creazione di significati associati a eventi o input. Fa parte della memoria semantica ad esempio la capacità di ricordare un certo odore e capire che si tratta di gomma bruciata.

Il movente scatenante energie mentali può essere associato alla memoria negativa o alla memoria positiva.

La memoria negativa riguarda eventi passati negativi e il tentativo di far si che non si ripetano, mentre la memoria positiva riguarda il ricordo di eventi positivi e il tentativo di far riaccadere quelle sensazioni.

Notiamo da questo passaggio, dal film: “Proposta Indecente” di Adrian Lyne, un esempio di associazione che crea movente per un comportamento:

Ricordo una volta quando ero giovane, e stavo tornando da non so dove, un cinema o forse qualcos’altro… c’era una ragazza che era seduta di fronte a me, indossava un vestito che era abbottonato quasi fin quassù… “era la cosa più bella che avessi mai visto”…

Allora ero timido, così quando lei mi guardava abbassavo gli occhi… poi dopo, quando ero io a guardarla li abbassava lei…

Arrivai dove dovevo scendere, e scesi, le porte si chiusero, e quando il treno stava ripartendo lei mi guardò negli occhi e mi fece un incredibile sorriso… fu terribile… volevo aprire per forza le porte… tornai ogni sera alla stessa ora… per 2 settimane… ma non l’ho più vista…

Questo è stato 30 anni fa… e non credo che passi giorno senza che io non rivolga un pensiero a lei…

Non voglio che succeda di nuovo!

Dal film: “Proposta Indecente”, frase recitata dall’attore Robert Redford

La memoria di lavoro (buffer mnemonico) consente il mantenimento di uno stimolo in ingresso per pochi secondi, necessari alla elaborazione mentale (cognitiva) dello stimolo stesso. È la memoria necessaria a ricordare un informazione per il tempo necessario allo svolgimento di un compito, per poi disfarsene poiché inutile. Tutti gli “scarti di lavorazione” della memoria (i vari sottoprodotti) verranno abbandonati e dispersi.

Lavorare sulla memoria è quindi importante non tanto per aumentarne la capacità, stiparla di informazioni come un magazzino sovraccarico, ma soprattutto per aiutare a consolidare i passaggi di vita, episodi positivi e negativi, da cui si può ricavare apprendimento.

La mente non è un vaso da riempire ma un legno da far ardere perché s’infuochi il gusto della ricerca e l’amore della verità.

Plutarco

Uno dei problemi della psicoenergetica è la perdita di focus su quali siano le informazioni utili e quali invece trattenere. Se sbagliamo, non presteremo attenzione a dati di reale utilità, trattati come rifiuti o sottoprodotti, e ci concentreremo invece su ciò che non serve. Ad esempio, in una negoziazione sarà indispensabile cogliere anche singole parole, memorizzarle e compararle ad altre emissioni verbali dette in seguito dalla persona, per far emergere eventuali dissonanze, e usarle nella nostra strategia.

Un altro aspetto mnemonico interessante è la capacità di ricordo dei sogni, che se recuperati ed analizzati consentono di avere accesso ad una preziosissima fonte di rappresentazioni delle paure (blocchi, ansie, timori, preoccupazioni) e desideri inconsci dell’individuo.

È stato evidenziato da ricerche sulla comunicazione interculturale che il difficile ricordo del sogno è un problema di comunicazione tra stati di coscienza. Lo stato della vigilanza parla un linguaggio diverso rispetto allo stato del sonno, e i due non possono comunicare bene tra di loro. La memoria dei sogni richiede l’acquisizione di uno stato intermedio (una sorta di terza lingua) tra lo stato di coscienza del sonno e lo stato della veglia.

Nel metodo HPM si utilizzano tecniche di meditazione consapevole praticate in fasi specifiche del training, ma anche immediatamente dopo il risveglio, per poter portare allo stato cognitivo lucido aspetti del sogno e dell’inconscio che andrebbero altrimenti dispersi (tecniche ReMeA: recupero e metabolizzazione in stato alfagenico). Lo stato alfagenico è uno stato di rilassamento nel quale l’individuo produce onde cerebrali alfa, è tranquillo e rilassato, ed è in grado di generare un pensiero più libero, creativo e associativo.

Tra le tecniche alfageniche si colloca anche la pratica di generare ricordi guidati di eventi positivi, anche durante la giornata, riservandosi spazi appositi (tecniche RSP: Training Mentale di Ricordo Selettivo Positivo).

Queste tecniche sono l’esatto contrario dei tentativi di fuga dai ricordi spiacevoli, o dello scorrere sopra gli eventi positivi anziché sentirli a fondo. Occorre la consapevolezza che non serve a nulla fuggire da un ricordo finché non lo si è capito e accettato. Allo stesso tempo, serve capacità per cogliere gli aspetti positivi della vita, che altrimenti ci scorrono accanto inosservati, poco gustati o assaporati. A forza di non notare ciò che di positivo ci accade o esiste, le nostre capacità si atrofizzano, e il pensiero si chiude.

Le tecniche si prefiggono di analizzare i vissuti quotidiani, i problemi occorsi in passato, i momenti positivi, e metabolizzarli in una condizione alfagenica (di rilassamento), nella quale essi possano esprimersi meglio, essere affrontati, elaborati, assaporati, metabolizzati, e portati a livello cosciente.

In questo modo i problemi non verranno lasciati alla sola metabolizzazione notturna, riducendo il carico di lavoro mentale e liberando il sonno da una dose di affanno elaborativo. Allo stesso tempo, l’individuo apprende a gustare eventi che altrimenti rischiano di andare persi e dimenticati per sempre.

Le tecniche possono andare anche verso la rivisitazione degli eventi positivi della giornata o di un periodo specifico, es., la settimana, per consolidare elementi del vissuto positivo che altrimenti verrebbero dispersi, ridotti, dati per scontati (tecniche di concentrazione sugli eventi positivi e consolidamento mnemonico di episodi positivi).

Oltre a questo beneficio, le tecniche di Training Mentale consentono di entrare nell’esperienza passata con un maggiore grado di introspezione assimilandone aspetti più profondi.

Un ulteriore problema di psicoenergetica è la connessione tra flusso di esperienza e memorizzazione selettiva. Possiamo ricordare – di una esperienza di lavoro o di vita – solamente alcuni episodi caratterizzati da fatti curiosi, oppure possiamo cercare di far uscire dalla memoria i nostri errori (ricerca selettiva), ed ancora far uscire dalla memoria, estrapolare, i comportamenti e atteggiamenti che sono stati produttivi e positivi.

Senza questa attività di ricerca, elaborazione e fissazione, il flusso di esperienza ha valore minore e diventa meno utile per l’apprendimento.

Sempre rispetto alla memorizzazione selettiva, notiamo che essa può travalicare il punto della semplice selezione e giungere alla distorsione (immettere infor­ma­zioni che non c’erano) nel quadro memonico.

Questo avviene soprattutto come meccanismo di auto-protezione dalla dissonanza (“devo aver fatto questo, altrimenti non sarei stato io”, “mi avrà certamente detto così, altrimenti non avrei reagito in quel modo”, e altre distorsioni di questo tipo). Le persone arrivano tranquillamente ad inventare aspetti dell’esperienza inesistenti e distorcere involontariamente (senza coscienza di farlo) interi brani di realtà, pur di mantenere in piedi i castelli di carta mentali che le sorreggono.

Principio 11 – Relazione tra memoria ed energie mentali

Le energie mentali diminuiscono o si esauriscono quando:

  • l’individuo coglie dal piano della realtà meno informazioni rilevanti di quante ve ne siano (lacune e gap di percezione selettiva) e non le utilizza per arricchire la propria esperienza;
  • l’individuo non dedica tempo sufficiente all’elaborazione del flusso di esperienza per ricercarne elementi di positività (auto-feedback positivo) ed elementi di errore (auto-feedback negativo) per ricavarne apprendimento ed immetterlo poi immetterli in una memoria di lavoro permanente;
  • l’individuo possiede un ricordo alterato di eventi e situazioni, e se lo auto-rappresenta in modo distorto (memorizzazione selettiva e distorsiva);
  • l’individuo non riesce a praticare ponti mnemonici tra stati di coscienza (soprattutto sonno-veglia, ma anche tra stati coscienti, subcoscienti e inconscio) che gli consentano di recuperare informazioni preziose sui propri desideri, aspirazioni, paure, sfondi pulsionali;
  • l’individuo possiede in memoria eventi episodici ed emotivi non sufficientemente analizzati e metabolizzati, al fine di ridurne l’impatto negativo o ampliare quello positivo.

Le energie mentali aumentano quando:

  • l’individuo apprende a cogliere numerose informazioni dal piano di realtà (ricchezza percettiva) e a gestirle correttamente;
  • viene dedicato tempo sufficiente all’elaborazione del flusso di esperienza per ricercarne lezioni e apprendimenti (lessons learned), elementi di positività (auto-feedback positivo) ed elementi di errore (auto-feedback negativo) per poi immetterli in una memoria di lavoro permanente;
  • i propri successi e positività sono percepiti e consolidati (visualizzazione della propria storia di successi) e non banalizzati;
  • viene speso tempo per il recupero di elementi positivi dalla memoria, facilitando il ricordo positivo (rivisitazione positiva degli eventi), aumento della capacità di osservare e percepire positività;
  • l’individuo sa praticare ponti mnemonici tra stati di coscienza (sonno-veglia, tra stati coscienti, subcoscienti e inconscio) che gli consentano di recuperare informazioni preziose sui propri desideri, aspirazioni, paure, sfondi pulsionali;
  • l’individuo apprende a riconoscere ed elaborare le proprie sensazioni, gli stati sentiti a livello emozionale, fisico, umano e sentimentale, disambiguare le sensazioni, capire meglio le sensazioni provate e vissute (focusing ed experiencing).

Un coaching finalizzato a lavorare sul funzionamento della memoria emotiva dovrà utilizzare tecniche particolari di allenamento di componenti specifiche della memoria stessa.

Ad esempio, un “diario delle positività” aiuterà la persona a fissare quali aspetti della giornata, anche minimi, sono degni di maggiore attenzione e possono diventare qualcosa da apprezzare, piuttosto che materiale mnemonico da non trattenere o al quale non prestare nemmeno attenzione.

L’esperienzialità (experiencing) va catturata, in caso contrario la vita rischia di scorrerci via senza sentirla a pieno in noi.

Per scopi di approfondimento, è possibile ricorrere alle tecniche di focusing sviluppate da Gendlin, centrate sull’elaborazione della “sensazione sentita” soprattutto sul piano fisico, sino a sviscerarla completamente in ogni sua sfumatura.

Il lavoro di Gendlin sul focusing e sull’experiencing (esperienzialità) è decisamente importante è ha una nutrita letteratura[1]. Ricordiamo tuttavia che queste tecniche partono da una scuola e volontà psicoterapeutica, mentre nel nostro caso le tecniche di training mentale ed esperienziale hanno volontà di crescita del potenziale umano in senso ampio, e non sono centrate solo su aspetti terapeutici.

Non occorre stare male per forza per praticare focusing ed experiencing, anzi, ne avremo un beneficio anche partendo da condizioni di benessere o medianità e in azioni quotidiane, non solo competitive o manageriali. Le competenze psicologiche esistenziali devono diventare competenze sociali diffuse in tutte le persone, perché ogni persona merita di vivere a pieno e fino in fondo. Quale che sia la condizione di partenza, nello spirito del metodo HPM ogni piccolo passo ha senso. La stasi, invece, uccide.


[1] Tra le opere, la pubblicazione divulgativa più nota è edita solo nel 2001: Gendlin, E.T (2001), Focusing. Interrogare il corpo per cambiare la psiche, Astrolabio, Roma. Le pubblicazioni  in lingua inglese del metodo del focusing sono invece sintetizzabili nelle seguenti:

Gendlin, E.T. (2007). Focusing. [Reissue, with new introduction]. New York: Bantam Books.

  Gendlin, E.T. (1997). Language beyond postmodernism: Saying and thinking in Gendlin’s philosophy. Edited by David Michael Levin. Evanston: Northwestern University Press.

  Gendlin, E.T. (1997). A process model. New York: The Focusing Institute.

  Gendlin, E.T. (1996). Focusing-oriented psychotherapy. A manual of the experiential method. New York: Guilford.

  Gendlin, E.T. (1991). Thinking beyond patterns: Body, language and situations. In B. den Ouden & M. Moen (Eds.), The presence of feeling in thought, pp. 21-151. New York: Peter Lang.

  Gendlin, E.T. (1986). Let your body interpret your dreams. Wilmette, IL: Chiron.

  Gendlin, E.T. (1962). Experiencing and the creation of meaning. A philosophical and psychological approach to the subjective. New York: Free Press of Glencoe. Reprinted by Macmillan, 1970.

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L’esperienza magica dello stato di flusso

Lo stato di flusso (flow) è caratterizzato dal procedere di una azione o serie di azioni che “scorre liscia”, in cui tutto avviene perfettamente (non necessariamente senza ostacoli, ma spesso con ostacoli anche forti che vengono superati), in cui vi è la netta sensazione di controllo sugli eventi ed un senso di euforia e potenza accompagnato da una forte felicità interiore e benessere.

La condizione che ne deriva è simile all’esperienza di qualcosa che scorre bene, un fluire (flow experience) che si deposita in memoria e al quale si può imparare ad attingere per migliorare se stessi, il proprio benessere e le prestazioni/esperienze future.

Lo stato di flusso non è una condizione puramente atletica o prestazionale, ma essenzialmente esistenziale. Può entrare in ogni condizione di vita, negli elementi e momenti più vari, quali l’esperienza di leggere un libro o di vedere un tramonto o di conversare attorno ad un tavolo, sciare, giocare a calcio, combattere, meditare, o nell’insegnamento, o nel sesso. Ogni stato esistenziale può essere vissuto in condizione di flusso.

Lo stato di flow può essere sperimentato dagli atleti durante alcuni allenamenti (non in ogni momento, e non da tutti gli atleti). Può emergere anche nella vita di relazione, in un comunicatore durante un discorso (o docente durante una lezione), nel momento in cui senta che il pensiero fluisce con energia, l’espressività si sblocca, si apre un magnetismo speciale sulla platea e il pubblico lo segue intensamente.

Ancora, può sperimentare lo stato di flusso una coppia, durante atti amorosi o momenti particolarmente romantici, o in atti sessuali vissuti come scambi di emozioni e non come prestazioni ginniche.

Ancora, può sperimentare questo stato un terapeuta che riesca a stabilire una netta empatia con il cliente e a far emergere qualcosa di buono (scoperte, insights), durante la seduta.

In campo sportivo, osserviamo un brano è utile per analizzare come lo stato di flusso sia aiutato da rituali preparatori, e capire quanta “presenza mentale” sia raggiunta dall’atleta in questo stato. Si evidenzia inoltre la grande capacità di “contatto con se stessi”, di auto-percezione:

I Quadricipiti secondo Rühl. Esercizio n. 1: Squat.

Quando sento di essere riscaldato a fondo e sono ansioso di cominciare, vado dritto alla rastrelliera per gli squat, senza pensare ad altro che alla percezione di decine di chili sulla schiena e a contrarre i quadricipiti scendendo fino al pavimento, gonfiandoli fino a farli raddoppiare di volume.

Mi assicuro sempre di controllare bene il movimento, di tenere la schiena dritta e gli addominali tesi. Non mi sbilancio mai in avanti né utilizzo la zona lombare come leva. Salendo e scendendo, spingo il carico sfruttando il perfetto asse di potenza che attraversa il centro del torace, il centro del bacino, il centro dei quadricipiti e il centro dei talloni. Nel primo set cerco di ottenere un forte bruciore muscolare, per assicurarmi di aver stimolato la zona giusta, eseguendo anche 30 ripetizioni se necessario.

Dopo aver allungato e strofinato i muscoli per eliminare in parte l’acido lattico, aggiungo un’altra piastra per lato e ricomincio daccapo, sempre in con una tecnica di esecuzione perfetta, per inondare i quadricipiti di sangue. Nel frattempo, Marc Arnold, mio amico di lunga data e training partner, continua ad urlarmi di rimanere dritto, di tenere i muscoli contratti, di pompare, di fare un’altra ripetizione. Se c’è qualcuno che riesce a darmi la spinta giusta, quello è Marc.

Ora il tempo e i numeri non esistono più. Continuo semplicemente ad aggiungere pesi e a contrarre i quadricipiti, scendendo molto, in modo da sentire la forza sempre più esplosiva nei muscoli interessati. Tra un set e l’altro, me la prendo comoda: non passo al set seguente se prima non riesco a percepire di nuovo i quadricipiti e a sentire che c’è ancora spazio per un nuovo afflusso di sangue. Seguo questo schema per almeno dieci set, spesso dodici, fino a raggiungere il cedimento dopo tre ripetizioni nell’ultimo set. A me piace allenarmi così[1].

[1] Ruhl, M. (2002), Quadricipiti bestiali, Flex, giugno, n. 44, p. 78.

“Ora il tempo e i numeri non esistono più”, sostiene il campione mondiale Rühl, e da quel momento inizia lo stato di flusso.

Questa esperienza di perdita completa del senso del tempo e dello spazio, l’immersione totale nell’esperienza, assume tratti comuni e trasversali sia nelle attività sportive ad alto tasso di “passione e immersività” così come può prodursi in attività lavorative, o in attività creative (dipingere, suonare), sociali (stare assieme, conversare), sentimentali (sognare assieme).

Può riguardare sia attività fisiche in rapido movimento che attività statiche quali l’ingresso in una meditazione profonda e ben riuscita, o attività di modesta entità fisica ma alta passionalità, quali una partita di carte.

Si può sperimentare lo stato di flusso durante la scrittura di un libro o di una lettera, o la stesura di un disegno, quando parole, segni ed idee sembrano uscire da sole senza sforzo. Al contrario, il blocco del flow viene vissuto come la “pagina bianca” (il vuoto da cui non si sa come muoversi) o una “pagina nera”, densa di ansia, di emozioni negative, in cui ogni gesto costa fatiche immense, e persino l’inizio sembra opera ciclopica.

Il flow può essere vissuto anche durante un momento di abbandono completo ad un massaggio, in cui il tempo sembra fermarsi. I pensieri estranei e le ruminazioni mentali che interferiscono con la concentrazione sull’atto, impediscono al flow di manifestarsi. Imparare a bloccarli per vivere a pieno le esperienze è difficile ma può essere appreso. E tutto questo è complicato dal fatto che non si tratta di un apprendimento che si ottiene una volta per tutte. Esso può sparire in determinate condizioni e rilasciare spazio al pensiero invasivo e alla ruminazione mentale che interferisce.

Apprendere a generarlo anche in condizioni difficili è una vera conquista e un percorso umano sacro per il quale le culture occidentali sono decisamente impreparate. È quindi anche una sfida didattica e pedagogica per un’umanità migliore.

Lo stato di flusso è un “momento magico” che rappresenta più l’ecce­zio­ne che la norma. Vi sono persone che non hanno mai sperimentato lo stato di flusso in tutta una vita, altre che non lo vivono da almeno dieci anni, immersi fino al collo in problemi, in disagi esterni e auto-creati, o da uno stile di vita o approccio culturale/cognitivo sbagliato.

Trovare lo stato di flusso spesso, idealmente all’interno di ogni giornata e prestazione fisica o comunicativa, è l’obiettivo di una pratica energetica e professionale seria che non abbia l’unico scopo di “arrivare a sera in qualche modo”.

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Articolo estratto con il permesso dell’autore dal testo di Daniele TrevisaniIl potenziale umano. Metodi e tecniche di coaching e training per lo sviluppo delle performance”. Franco Angeli editore, Milano.

La presenza mentale per l’aumento delle performance

A volte per ottenere il meglio da se stessi è necessario staccare.

Il professionista Martinez così racconta la sua preparazione:

A luglio 2005, l’atleta trentenne ha lasciato l’isola frenetica e soffocata dal traffico di Manhattan per trasferirsi temporaneamente nel distretto di South Street di Philadelphia. Nella sua nuova città, si è buttato anima e corpo nella preparazione per l’Olympia, camminando per le strade di Philadelphia come un novello Rocky intento a prepararsi per il match decisivo della sua carriera agonistica.

“Le mie giornate – spiega – erano dedicate soltanto all’allenamento e alla preparazione. Niente attività extracurricolari”[1].

[1] Berg, M. (2006), La svolta di Victor, Flex, n. 4, pp. 70-79. Rif., p. 75.

Rompere con l’ambiente circostante di sempre, cambiando il frame spazio-temporale abitudinario, è una tecnica usata nello sport e nell’impresa, quando si vuole ottenere massima dedizione e concentrazione. La tecnica del cambiare città temporaneamente o del cambiare stile di vita, o del cambiare palestra, o luogo di lavoro, o del “ritiro”, è una pratica vincente per molti professionisti sportivi e team, ma anche di artisti e pensatori che cercano di ottenere uno stacco totale dallo stile di vita o da aspetti particolari dell’am­bien­te precedente (fisico e sociale), per trovare nuova linfa e concentrazione.

Ciò che rimane nel non detto, è da cosa esattamente si stia sfuggendo. Spesso si tratta di una coltre di nebbia mentale, di uno smog psicologico non ben definito, di abitudini o climi psicologici che è persino difficile identificare. Quello che conta è che la tecnica del ritiro e/o del cambiamento di ambiente funzioni, e che possa essere utilizzata per ottenere nuova linfa vitale e nuova concentrazione rompendo con gli schemi precedenti.

La concentrazione, lo stacco dagli schemi abitudinari della vita quotidiana, la separazione mentale delle attività, sono forti strumenti per la ricarica delle energie psicologiche. Nel caso precedente abbiamo visto l’esempio di uno stacco estremo, cambiare città, ma in molti altri casi lo stacco può essere ottenuto anche durante la giornata.

Vediamo questa testimonianza in ambito sportivo, su come nelle arti marziali (quando condotte da maestri preparati, non da dilettanti) si vada alla ricerca di quella condizione interiore che permette al partecipante di “cambiare registro” ed entrare in una dimensione più profonda:

Spesso la meditazione ha luogo alla fine e all’inizio delle lezioni. Tuttavia il fatto stesso di arrivare al Dojo, di liberarsi degli indumenti quotidiani per indossare il nostro Gi, Dobok o quello che è, metterci la nostra cintura, è in se un atto di preparazione per adattare la nostra mente all’altro spazio-tempo che compone la nostra pratica nel Do-jo (il posto del risveglio).

La meditazione ed i saluti iniziali sono un passo in più nel già citato processo. Persino nella loro pratica esclusivamente formale tali cerimonie facilitano il transito dalla stressante quotidianità, fino ad un atteggiamento diverso, dove i valori, i tempi e persino la misura del nostro sforzo sono molto differenti. Qui il denaro non comanda, comanda il Maestro; il nostro tempo non ci appartiene, è gestito dal Maestro e dalla dinamica del gruppo; il corpo, spesso trascurato nel nostro quotidiano, acquisisce ora un protagonismo distinto, diventa presente e richiama la mente e le emozioni a condividere lo sforzo. Uno sforzo che non si realizza per ottenere denaro, oggetti o sesso, uno sforzo che ci porterà un unico regalo, l’autosuperamento[1].

Se esiste una capacità dimenticata oggi in azienda è la presenza mentale, la concentrazione strategica.


[1] Tucci, A. (2005), Concentrazione e meditazione nelle arti marziali, Budo International, settembre, p. 62.

Principio 10 – Energie mentali, presenza mentale e mono-tasking

Le energie mentali diminuiscono o si esauriscono quando:

  • le risorse attentive non sono pienamente presenti e concentrate;
  • l’individuo utilizza le proprie energie attentive (cognitive) ed emotive su più fronti contemporanei (multitasking);
  • l’individuo sottostima il grado di difficoltà insito nel compiere bene un’azione o affrontare un problema;
  • l’individuo non riesce ad isolare le attività prioritarie, o a rinunciare alla dedizione verso tempi estranei al goal, durante il tentativo di perseguire il goal stesso;
  • viene utilizzato uno stile di pensiero errato rispetto al compito.

Le energie mentali aumentano quando:

  • vengono allenate le capacità di concentrazione e presenza mentale;
  • vengono praticate attività atte a favorire la lucidità mentale (rilassamento, meditazione, tecniche di training mentale condotte da professionisti);
  • l’individuo concentra le attenzioni ed energie su un problema o progetto, evitando la dispersione (rimozione del multitasking);
  • l’individuo apprende a svolgere stime corrette rispetto al dispendio di energie mentali di attenzione e concentrazione necessarie, senza sopravvalutarle (ingigantimento della sfida) o sottovalutarle (sottostima);
  • l’individuo apprende a compiere azioni sfidanti con maggiore efficienza mentale, utilizzando stili di pensiero (stili cognitivi) postivi e risolutivi.

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Per aumentare le performance, bisogna vivere slot temporali separati

Vivere in multitasking (distribuire l’attenzione contemporaneamente su più fronti) riduce le energie mentali e non consente di assorbire energie positive dagli eventi.

Il multitasking è possibile solo su compiti estremamente semplici, ma anche in questo caso l’effetto sulle energie mentali è drenante. Per incrementare le performance è ottimale vivere le esperienze in slot temporali separati.

Uno dei temi principali per lo sviluppo energetico tramite la via pedagogica è la riduzione del multitasking: diminuire l’impegno contemporaneo su più fronti.

Le società industriali e post-industriali spingono le persone sempre più verso il multitasking, e persino alcuni corsi mal impostati di time-management e sviluppo personale arrivano al punto di proporre metodi per fare più cose contemporaneamente. Niente di più sbagliato. Il cervello umano, al contrario del computer, non lavora bene su più compiti. Può farlo, ma lavorando in modo disarmonico e dispersivo.

Mangiare mentre si legge un giornale, si guarda la tv e si cerca di avere una conversazione con i familiari è un esempio classico di multitasking in cui: (1) non si apprezzerà il cibo realmente, (2) non si leggerà il giornale se non in modo disattento, e (3) si avrà una conversazione familiare di livello estremamente superficiale. Questo produrrà litigi dovuti ai momenti di non ascolto reciproco che tale situazione produce. Non vi sarà quindi alcuna efficacia della conversazione.

Una delle capacità più critiche per le performance è quella di ripulirsi dall’eccesso di attività, riconoscere le dispersioni, concentrarsi su poche cose significative, fare pulizia nella propria vita delle cose inutili e dispersive.

Ogni giorno qualcosa di meno, non qualcosa di più:

sbarazzati di ciò che non è essenziale.

Bruce Lee

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La mente può essere allenata

Se equipariamo (grezzamente) la mente umana ad un processore informatico, possiamo distinguere due grandi sfere di prestazione: la potenza del processore (che determina la velocità di elaborazione dei dati) e l’utilizzo della potenza: concentrato su un singolo task o programma (monotasking) oppure distribuito su compiti multipli e più programmi (multitasking).

In termini mentali, la potenza del processore equivale alla rapidità cognitiva o rapidità del pensiero (soprattutto, la capacità di cogliere collegamenti tra variabili), mentre l’applicazione (monotasking vs. multitasking) equivale alla capacità di concentrazione mentale su un singolo problema o obiettivo.

L’abilità di ragionamento ha una componente genetica ma anche e soprattutto una forte componente esercitabile, praticabile, un’area di crescita che dipende da ciò che la nostra mente apprende a fare dalla nascita in poi.

All’interno di questa area, la parte relativa agli stimoli familiari, scolastici e dei media, ha un forte influsso: individui che hanno vissuto in un clima relazionale povero, che hanno avuto poche stimolazioni, pochi input sensoriali ed esperienziali, sono meno rapidi nel risolvere i problemi. La rapidità cognitiva richiede allenamento. Ma l’allenamento si può praticare.

Principio 9 – Rapidità cognitiva e problem solving

Le energie mentali diminuiscono o si esauriscono quando:

  • l’individuo cresce in un ambiente apatico, che non stimola ad inquadrare i problemi da analizzare (problem setting) e a risolvere problemi (problem solving);
  • l’individuo non mantiene un allenamento adeguato (per frequenza e intensità) sul problem setting e problem solving, o si fissa entro una sola delle due attività;
  • i problemi di grande portata non vengono scissi in sub-problemi affrontabili;
  • l’individuo non dispone di tools adeguati (strategie mentali) per risolvere i problemi in modo più rapido ed efficiente;
  • i materiali posti sotto forma di problema sono di quantità e complessità tale da superare le capacità individuali e si genera overload (sovraccarico mentale);
  • i materiali posti sotto forma di problema sono sgradevoli affettivamente per il soggetto, o sono estremamente lontani dalle proprie inclinazioni, interessi e attitudini.

Le energie mentali aumentano quando:

  • vengono acquisite abilità di problem setting (saper fissare i problemi, saperli localizzare, saperli inquadrare) e di problem-solving (risoluzione);
  • si ricerca equilibrio e distinzione tra le due attività (localizzare e risolvere problemi);
  • i problemi affrontati sono di misura e quantità gestibile;
  • viene allenata la flessibilità cognitiva tramite tecniche (stretching mentale);
  • esiste collimazione tra le proprie inclinazioni e il tema su cui applicare le proprie capacità o i problemi da risolvere.

Una delle forme di allenamento più utili nel determinare rapidità cognitiva e pensiero logico nel metodo HPM è la ricerca della precisione e chiarezza del linguaggio, svolta con appositi esercizi. Il training consiste nell’esercitarsi a produrre frasi brevi e compiute, con un effetto di riverbero forte sulla capacità di pensare in modo conciso e concentrato.

Le teste vuote hanno lingue lunghe.

 Bruce Lee

Dobbiamo notare che questa tecnica allena la capacità di sintesi e di essere rapidi e concisi nel pensiero, mentre altre devono invece allenare la capacità di allargamento e creatività.

Le performance richiedono entrambe, ma al momento giusto.

Al di là di quanto sia ampio il patrimonio genetico, e al di là dell’accul­turazione individuale, ciascuna persona può autonomamente dedicare parte del proprio tempo ad allenare la mente al ragionamento.

Nel training dedicato al problem solving sarà indispensabile procedere per gradi, assimilare strumenti di problem setting (imparare a fissare bene i termini del problema). Impegnarsi ed allenarsi in una tecnica di analisi dei problemi (es.:, il DCE, Diagramma di Causa-Effetto) allena la mente ad affrontarli.

È necessario evitare di esporre all’elaborazione mentale una mole eccessiva di dati o problematiche (sovraccarico o overload), a meno che non si tratti di una precisa strategia allenante di sovraccarico intenzionale (overreaching), che va ingegnerizzata e non deve accadere nella normalità.

Dobbiamo inoltre considerare il tema del piacere insito nelle varie attività. La sgradevolezza affettiva differenzia notevolmente l’operato freddo di un computer da quello di un essere umano vivo. Per un PC non si pone il problema se i dati o problemi da elaborare siano o meno affini con le proprie inclinazioni, mentre per un essere umano sì, e questo influisce sulle energie mentali che si riescono ad attivare sul task.

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Trovare un equilibrio tra autodeterminazione e fatalismo

Il Locus of Control è una variabile psicologica che tratta il rapporto di un individuo con il destino e le forze esterne.

Quando prevale un Locus of Control interno l’individuo tende a percepire un forte controllo personale sul proprio destino (“il mio destino è qualcosa su cui posso influire e dipende soprattutto dalle mie scelte”).

Quando prevale un Locus of Control esterno, il soggetto tende invece a pensare che il proprio destino dipenda soprattutto dalla fortuna, dalla sorte, e dagli altri (“il mio destino è qualcosa che non posso controllare, dipende tutto dalla fortuna, o da quello che Dio vuol fare di me”).

Si tratta di due polarità estreme, all’interno delle quali si trovano un’am­pia serie di sfumature e gradi intermedi.

Possiamo in qualche misura identificare nel LOC interno un forte senso di autodeterminazione e autoefficacia, e nel LOC esterno un senso di fatalismo, che nei casi estremi sfocia nella rassegnazione, abbandono, vittimismo.

Una persona che assorba completamente l’uno o l’altro dei poli, e si chiuda in esso, rischia di sfociare nella patologia.

Il nostro locus of control, che sia interno o esterno, determina la quota di fatti ed eventi che noi pensiamo dipendano dalla nostra personalità e dalle nostre scelte ed azioni.

Dalle ricerche emerge che i soggetti con un LOC interno sono generalmente più felici, in salute, e hanno più successo, ma oltretutto sono più produttive professionalmente. Esclusi i casi di LOC fanaticamente interno, in cui ogni avvenimento del mondo venga visto come responsabilità della persona.

Il passaggio dallo stadio bambino-adolescente allo stadio adulto produce in genere una crescita del LOC interno. Mentre si cresce, si sviluppa maggiore controllo sugli eventi, a meno che non si sia cresciuti in famiglie e ambienti oppressivi, o in culture di natura fatalista.

In questo caso, si sviluppa una la fobia di essere puniti qualsiasi cosa si faccia (nella famiglia oppressiva) o la paura di iniziative individuali.

L’iniziativa individuale viene punita nelle culture oppressive, nei comunismi fondamentalisti, nelle religioni punitive, là dove pensare con la propria testa diventa offesa e peste psicologica. Questo scatena un virus di oppressione mentale che si trasforma quindi in paura di fare impresa, di avviare iniziative autonome, di compiere avventure professionali o aziendali, socialmente derise o represse dall’ambiente circostante.

Agire nonostante questi vincoli negativi è eroico.

Per sviluppare un LOC interno gli individui devono riguadagnare il senso di controllo sulle proprie vita attraverso piccoli passi, ed emanciparsi dall’esterno.

Per un adulto, si potrà partire dalla dimostrazione che è possibile ottenere un controllo su alcuni impulsi, o influenzare alcune interazioni interpersonali.

I coach, i genitori e i leader delle imprese hanno tra le proprie aree di intervento quella di aiutare gli individui a credere in se stessi e sviluppare il proprio potere personale positivo. Anche quando questo significa andare contro la propria cultura.
Esistono comunque rischi associati ad un LOC eccessivamente interno: farsi carico di ogni problema esistente, anche dei problemi non propri, sentirsi in colpa di qualsiasi cosa non vada. Ed inoltre: assumersi le responsabilità altrui anche quando non è dovuto, non riuscire a staccare dai propri impegni, non accettare le perdite, non riuscire a staccare dai propri obiettivi per rilassarsi, auto-sfruttarsi e schiavizzarsi, non concedersi tregua, cercare il perfezionismo assoluto anche quando non ha senso farlo.
I rischi opposti del LOC eccessivamente esterno sono: scarsa propensione all’impresa, pressappochismo, poca voglia di fare, nessuna iniziativa, abbandono precoce alle prime difficoltà, ricerca di soluzioni magiche o miracolistiche, scarso ricorso al pensiero logico o scientifico, scaricare le responsabilità sugli altri e non riconoscere le proprie.

Principio 8 – Locus of Control
Le energie mentali diminuiscono o si esauriscono quando:
• l’individuo è sbilanciato su un LOC esterno, assegna a forze esterne l’intera responsabilità degli eventi che lo riguardano, senza percepire quali siano i confini della propria area di azione possibile e di autodeterminazione;
• l’individuo è sbilanciato sul LOC interno oltre la soglia di ragionevolezza, e non accetta margini di errore, assumendosi responsabilità individuale anche su eventi verso i quali non ha reale potere di intervento (rischio di autoflagellazione ingiustificata).

Le energie mentali aumentano quando:
• l’individuo prende coscienza dei confini della propria possibilità di azione e li differenzia correttamente rispetto a quelli cui non ha accesso (fortuna, scenari, caso);
• la persona evita di assumere un atteggiamento di responsabilizzazione inutile verso variabili che non può controllare, e si attiva per quelle che può invece gestire;
• aumenta l’emancipazione personale da modelli genitoriali e culturali appresi e si decide in autonomia quale atteggiamento verso il destino assumere e cosa deve rientrare nelle proprie sfere di autonoma decisionalità e “tentabilità”.

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Essere consapevoli dei propri strumenti operativi (tools funzionali) e dei propri strumenti analitici e conoscitivi di base (meta-strumenti)

Se credo di poterlo fare,

acquisirò sicuramente la capacità di farlo,

anche se all’inizio non dovessi averla

Mahatma Gandhi

L’autoefficacia è un concetto che fa riferimento al “senso delle proprie possibilità”. La coscienza di ciò che è veramente nella sfera delle nostre possibilità e quello che non lo è in un certo momento, ci permette di fare letture corrette della situazione e dei compiti che ci attendono, senza cadere vittima di demoralizzazione precoce o inutile.

Bandura[1], sviluppatore del concetto sul piano scientifico, considera che l’autoefficacia percepita sia un insieme di credenze che le persone possiedono rispetto alle loro capacità di produrre livelli designati di performance specifiche (non generali), esercitare influenza sugli eventi e sulle proprie vite.

Include, inoltre, l’atteggiamento positivo verso la capacità di raccogliere sfide o porsi nuove sfide.

Nel nostro metodo, riteniamo che l’autoefficacia dipenda largamente dall’autostima ma anche dalla consapevolezza corretta, non distorta, dei repertori di esperienze e competenze possedute e di ciò che con quei repertori possiamo fare. Spesso queste possibilità sono enormi e inesplorate.

L’autoefficacia produce il fatto di non abbandonare di fronte a punti d’arresto, perseverare (resilienza),  lavorando per ottimizzare i propri progetti, consapevoli della forza intrinseca che essi possono avere.

Come evidenziato in un articolo del Wall Street Journal, in un brano dal titolo illuminante: “Se all’inizio non hai successo, sei in una azienda eccellente”, i veri successi sono spesso preceduti da dinieghi o porte chiuse[2].

Tra i casi citati: il libro di J. K. Rowling rifiutato da 12 editori prima che una piccola casa editrice londinese lo pubblicasse come “Harry Potter e la Pietra Filosofale”, un successo mondiale. La Decca Records che, in uno dei primi provini dei Beatles, disse “non ci piace il loro suono”. Walt Disney fu licenziato da un editor di un giornale, dicendo che egli “mancava di immaginazione.” Michael Jordan (il più grande giocatore di basket della storia) non venne considerato da ragazzino all’altezza del team di basket della sua scuola superiore.

Senza una sana dose di autoefficacia e di resilienza, queste persone avrebbero abbandonato la propria strada.

L’autoefficacia richiede la consapevolezza dei propri strumenti operativi (tools funzionali) e dei propri strumenti analitici e conoscitivi di base (meta-strumenti). Sapere di poter imparare vale più della conoscenza in sé.

Se diminuisce la percezione di disporre di tali strumenti, prevalgono atteggiamenti di rinuncia, la continua richiesta di aiuto anche su ciò che è invece nel nostro campo di fattibilità, l’immagine di “non essere ancora pronto per…”, o il sentimento negativo “non fa per me, e non ci posso nemmeno provare, o prepararmi per…”.

L’autoefficacia richiede un certo grado di accettazione ragionata del rischio e la consapevolezza che – per molti task – non è indispensabile la perfezione prima di poter passare all’azione. Spesso è sufficiente una dose di comprensione (attuale o potenziale) della materia, un buon spirito di adattamento e una buona capacità generale di problem solving, per poter affrontare larga parte dei problemi o sfide manageriali, sportive, o personali.

La consapevolezza delle proprie meta-competenze è un punto basilare.

Non è necessario avere già fatto qualcosa per sentire di poterlo fare, ma è indispensabile avere coscienza della propria capacità di generare soluzioni, di analizzare problemi, di comprendere dinamiche, e sapere di poter apprendere. Questi meta-fattori aiutano ad accettare anche sfide e compiti sui quali non esiste ancora esperienza specifica diretta o consolidata.

L’autoefficacia non deve diventare sensazione di onnipotenza o delirio, va dovutamente bilanciata con la saggezza e senso pratico, ma questi ancoraggi al realismo non devono impedire di perseguire un sogno difficile che abbia qualche probabilità di successo. La paura di fallire o incontrare difficoltà non deve fermare aspirazioni giuste e sogni sfidanti.

Il caso di un docente cui viene chiesto di fare una lezione su temi non esattamente pertinenti alla propria formazione, ma vicini, è un esempio concreto. La flessibilità mentale è un fattore vincente.

Un docente che insegna statistica ed ha basso livello di autoefficacia non accetterà di insegnare una materia come la Qualità Totale (trovandovi molte differenze rispetto alla propria), mentre al contrario sarebbe assolutamente fattibile. Tale materia è ampiamente basata su metodi statistici. Aumentando l’autoefficacia, la stessa persona potrà lanciarsi verso l’insegnamento di Qualità Totale, ma anche altro, es.: Metodi di Ricerca, sapendo di avere sia una buona base e soprattutto le capacità di apprendimento che servono per poter acquisire ciò che manca.

In sostanza, quel docente conosce già almeno il 90% di un possibile programma, e sa che potrà apprendere il rimanente 10% con poco sforzo. Un individuo con bassa autoefficacia si concentrerà sul 10% da apprendere e sul come apprenderlo, un individuo con bassa autoefficacia lo vedrà come “quel 10% che manca, per cui non si può fare”. Una differenza notevole!

Lo stesso vale per un istruttore di karatè cui viene richiesto di insegnare difesa personale. Un istruttore con alto livello di autoefficacia capirà immediatamente che le sue skill di base sono ampiamente sufficienti ad insegnare a qualcuno come difendersi, e se percepisce una lacuna nel suo set di conoscenze si adopererà per colmarla. Un istruttore con basso livello di autoefficacia coglierà ogni possibile “scusa” per non farlo: “non è la mia materia”, “non so come si faccia”, “non sono preparato” etc.

Un’alta autoefficacia è basata sull’orientamento a cogliere, in ogni sfida, ciò che è fattibile, ciò che è realizzabile o quantomeno tentabile, e la ricerca autonoma di strumenti per colmare le eventuali carenze.

Una bassa autoefficacia vede la dominanza di un orientamento a cogliere la parte negativa della sfida, la concentrazione prevalente sulle proprie lacune e non sulle proprie possibilità, l’assenza di sforzi per dotarsi di strumenti ulteriori che permetterebbero di sentirsi all’altezza.

Allo stesso tempo, l’autoefficacia si correla alla consapevolezza di dove, quanto e come siamo in grado di potercela fare da soli. Questo punto (indipendenza e autonomia) non deve essere confuso con una chiusura verso l’esterno e verso l’aiuto. Autoefficacia anzi significa anche capire e volere l’aiuto che serve a compiere un progetto, ma con una consapevolezza di dove realmente si colloca il confine delle proprie capacità autonome e dove è importante ricercare aiuto. Coltivare coscienza di sé è fondamentale.

Le persone che sviluppano un alto livello di autoefficacia hanno credenze positive sulle loro capacità di raggiungere i goal, accettano sfide superiori, e provano con maggiore forza e impegno a raggiungere i loro obiettivi, dando il massimo delle loro capacità.

Chi ha una alta autoefficacia, pensa, agisce e affronta una sfida come se stia per avere successo. Chi ha bassa auto efficacia intraprende la sfida dandosi per perdente dall’inizio.

Diventa essenziale per ogni coach o counselor capire a quali modelli di autoefficacia sia stata esposta una persona, quali abbia assimilato, quali siano attivi, e soprattutto se vi siano dissonanze interiori o modeling negativi da fonte genitoriale o sociale, attivi sulla persona.


[1] Bandura, A. (1994), Self-efficacy, in V. S. Ramachaudran (Ed.), Encyclopedia of human behavior (vol. 4, pp. 71-81), Academic Press, New York (Reprinted in H. Friedman [Ed.], Encyclopedia of mental health, San Diego, Academic Press, 1998).

Bandura, A. (1986), Social foundations of thought and action: A social cognitive theory, Englewood Cliffs, NJ, Prentice-Hall.

Bandura, A. (1991a), Self-efficacy mechanism in physiological activation and health-promoting behavior, in J. Madden, IV (Ed.), Neurobiology of learning, emotion and affect (pp. 229- 270), Raven, New York.

Bandura, A. (1991b), Self-regulation of motivation through anticipatory and self-regulatory mechanisms, in R. A. Dienstbier (Ed.), Perspectives on motivation: Nebraska symposium on motivation (Vol. 38, pp. 69-164), University of Nebraska Press, Lincoln.

[2] Beck, M. (2008), If at First You Don’t Succeed, You’re in Excellent Company, The Wall Street Journal, April 29, p. D1.

Alcune domande chiave da porsi o da porre in termini di coaching:

  • Che desideri stai frenando per colpa di competenze che ti mancano?
  • In quali campi ti senti efficace e in quali meno?
  • Guardandoti indietro, cosa tenteresti adesso? Quali progetti, idee o ambizioni hai frenato perché non ti consideravi all’altezza?
  • Guardando avanti, cosa ti darebbe soddisfazione, cosa vorresti dire di aver fatto tra 10 anni?
  • Di cosa ti pentiresti se dovessi pensare di morire senza aver fatto qualcosa cui tieni? Cosa in particolare?
  • Cosa vorresti poter dire di aver fatto di buono, la prossima settimana?
  • Facciamo un elenco di idee o progetti anche ambiziosi che ti darebbero gratificazione, sogniamo ad occhi aperti per un pò.
  • Se dovessimo pensare ad una tua giornata ideale, come sarebbe?
  • In un anno ideale, cosa faresti?
  • Quanto siamo lontani adesso da (… sentirsi bene, sentirsi felici, sentirsi gratificati, aver raggiunto i tuoi scopi, etc…), e perché secondo te?

Nell’osservare i propri ragionamenti, o quelli di un cliente, ci si potrà concentrare non solo sui contenuti, ma anche sul senso generale di possibilità, di autoefficacia, di padronanza, sulle auto-percezioni, sulle credenze che trasudano, sugli archetipi di sè che emergono, sullo spirito di avventura e ricerca, o invece di rinuncia e disfattismo che permeano la persona. Su questi sarà importante lavorare seriamente, ancor più che sui contenuti.

Principio 7 – Autoefficacia

Le energie mentali diminuiscono o si esauriscono quando:

  • l’individuo non è consapevole delle proprie potenzialità reali;
  • l’individuo non è consapevole di come le proprie meta-competenze possano trasformarsi in competenze applicative su nuovi compiti;
  • l’individuo coglie prevalentemente gli aspetti di difficoltà di una sfida e non quelli di fattibilità;
  • l’individuo non si attiva in una ricerca autonoma di strumenti per colmare i propri gaps percepiti;
  • l’individuo sviluppa eccessiva dipendenza sugli altri per portare a termine un compito e non sa contare sulle proprie forze interiori, o percepirle correttamente.

Le energie mentali aumentano quando:

  • l’individuo prende coscienza delle proprie potenzialità, sia teoriche, che per prova diretta;
  • l’individuo prende coscienza delle proprie meta-competenze e della possibilità di tradurle in competenze applicative in campi nuovi;
  • l’individuo tiene in considerazione i margini di fattibilità di una sfida e non solo quelli di difficoltà, applicandosi per aumentare le opzioni positive;
  • l’individuo è proattivo e si adopera attivamente in interventi che aumentano le proprie risorse o colmano gap, e in progetti di apprendimento e accrescimento;
  • l’individuo ha pieno accesso alla proprie forze interiori, sa individuare bene quante e quali sono le proprie energie, competenze e abilità.

Altri materiali su Comunicazione, Coaching, Formazione, Potenziale Umano, Crescita Personale e Professionale, disponibili in questi siti e link:

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Articolo estratto con il permesso dell’autore dal testo di Daniele TrevisaniIl potenziale umano. Metodi e tecniche di coaching e training per lo sviluppo delle performance”. Franco Angeli editore, Milano.

Alcuni esempi di format motivazionale

Tra i temi fondamentali da trattare si trova quello della percezione del task da compiere. Ogni task (compito) può avere letture diverse.

Un task può essere demotivante se affrontato con lo spirito sbagliato, e motivante se si trova lo spirito giusto con cui affrontarlo.

Non tutti i tipi di “spirito” o disposizione mentale funzionano nello stesso modo, e ciascuno dovrà trovare in sé o con l’aiuto del coach l’assetto mentale o format che più riesce a motivarlo.

Ad esempio, Victor Martinez, professionista di bodybuilding, afferma:

Io affronto una sfida contro me stesso e sono un gran lavoratore. Quando mi dicono di divertirmi alle gare, io penso che non è affatto così, perché è il mio lavoro. Nessuno dice a uno di andarsi a divertire in ufficio tutti i giorni alle nove di mattina, no? Io faccio il mio lavoro con il massimo impegno, e anche di più[1].

[1] Berg, M. (2006), La svolta di Victor, Flex, n. 4, pp. 70-79. Rif. p. 75.

In questa testimonianza notiamo che il format motivazionale operativo, che funziona su questo atleta, è il costruire un concetto di “lavoro serio” nel suo programma di allenamento, una professionalizzazione di quello che per altri è un normale svago o passione (la palestra), facendolo diventare sfida contro se stesso, e non necessariamente un divertimento.

Per altri, questo format può invece essere distruttivo.

Questo atleta ha trovato un formato motivazionale che funziona su di sé, ma lo stesso formato applicato ad un suo collega potrebbe non funzionare o essere invece fonte di frustrazione continua e portare all’abbandono.

Su ogni persona è necessario un grande lavoro di personalizzazione.

Personalizzare la motivazione è un forte lavoro di coaching e formazione.

La motivazione si ritrova per molti nel format della sfida contro altri: per alcuni, il senso della sfida rimanda ad una visione di sé epica, maestosa, leggendaria, ed è il driver interiore più forte quando si tratta di produrre una performance in alcuni campi di battaglia professionale. In altri casi, il format si arricchisce di più strati motivazionali, ad esempio, sfida + contributo.

Nel caso seguente notiamo come si vadano a stratificare il format della sfida contro il nemico assieme al format della sfida contro la lesa maestà (sfida all’immagine di sé). I due motori psicologici, sommati, aumentano l’effetto.

La testimonianza è tratta da un’intervista ad un combattente professionista, nella quale possiamo notare come l’energia della sfida, se ben canalizzata, possa produrre un dose supplementare di energie per la preparazione di se stessi:

Intervistatore: Quasi tutti ti davano per spacciato contro Tito Ortiz…

Tutti lo credevano imbattibile, tutti credevano che nessuno lo potesse battere nella categoria dei 93 chili, ma io ero li…. Ero anche pronto ad affrontarlo senza ricompensa, volevo questo titolo. Seriamente, mi ha fatto incazzare essere li e sentirli parlare come se io non rappresentassi la benché minima minaccia per lui.

Ciò ti ha offeso? Ma, non veramente. Ciò mi ha dato ancora più energia, mi ha fatto allenare ancora più intensamente[1].

[1] AA.VV. (2004), IceMan Chuck Liddell, Reportage da “Fight Sport”, n. 2, ottobre, p. 30.

I format motivazionali non devono essere unicamente o necessariamente mossi dal motore psico-agonistico. Altri possono trovare motivazione su un fronte opposto, nel format della “relazione di aiuto” (aiutare gli altri), o nell’espiazione (impegnarsi per scontare una pena), o nella vendetta (impegnarsi contro), o per una causa in cui credono (impegnarsi per).

In ogni caso, il lavoro del coach deve consistere nel trovare quale format motivazionale possa meglio funzionare sul soggetto, ma anche localizzare e rimuovere i format attivi sbagliati, che agiscono ora come modello errato e possono risultare distruttivi o controproducenti per la persona stessa, sebbene essi possano risultare buoni per altri, o aver funzionato in passato.

Ciò che ha funzionato in passato, in un contesto diverso può non avere più lo stesso effetto, o diventare persino controproducente. L’esame qui deve essere assolutamente situazionale e personalizzato.

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