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Articolo estratto con il permesso dell’autore dal testo di Daniele TrevisaniIl potenziale umano. Metodi e tecniche di coaching e training per lo sviluppo delle performance”. Franco Angeli editore, Milano.

Le energie relazionali

Le relazioni umane possono assorbire (drenare) o dare e donare energie. Ogni dirigente di un gruppo può facilmente produrre una lista di membri del grup­po e chiedersi, per ciascuno, se questi stia dando energie o sottraendo e­ner­gie a se stesso e al gruppo. Lo stesso tipo di analisi è applicabile ai membri di una famiglia o comunità, o ai membri di un team sportivo.

Siamo sempre inseriti al centro di una rete di energie relazionali, in cui alcune persone ci ricaricano, e altre ci “assorbono” o scaricano.

Un’analisi importante consiste nel costruire un diagramma delle persone significative con cui abbiamo rapporti in un certo momento della vita, e associare un segno (+ o -) a ciascuno, per indicare se questo legame ci dà energia o ci toglie energie.

Ad un livello più raffinato, potremmo anche inserire segni multipli (es: due + e un -), per indicare che il rapporto con quella persona è sfaccettato, dona energie ma ne toglie anche.

È essenziale che vi sia consapevolezza di come le energie personali sono quotidianamente caricate o scaricate dal contatto con gli altri, e cosa accade nel nostro bilancio energetico personale.

Poter modificare e cambiare la rete di energie relazionali che ci circonda, è un grande atto di assertività. Questo può anche richiedere di tagliare i ponti con alcune persone, o cercare di modificare un rapporto che ci sta consumando o distruggendo, o anche solo una relazione che richiede troppa energia rispetto alle nostre volontà, e non ce ne lascia per altri spazi di vita.

Vediamo un altro esempio grafico di network relazionale nello schema seguente:

Figura 5 – Esempio di rete energetica personale

È facile osservare come il bilancio complessivo possa essere favorevole o sfavorevole per il proprio “conto energetico personale”. Se non si tiene conto di come funziona la propria rete, è facile comprendere come una persona possa uscire svuotata da una giornata o da un tempo speso all’interno di un gruppo nel quale troppe persone drenano energie, e poche ne apportano.

Il benessere relazionale di una società o gruppo proviene anche dalla reciprocità complessiva, per cui è sbagliato interpretare le energie relazionali solo a proprio vantaggio. Nella vita di relazione, e nei team, è produttivo e indispensabile porsi l’obiettivo etico del “dare” energie e non solo riceverle.

Principio 15 – Energie delle reti relazionali

Le energie mentali diminuiscono o si esauriscono quando:

  • L’individuo entra in relazione con singoli soggetti o più soggetti con i quali la relazione stessa risulta difficile/sgradevole e assorbe energie;
  • la relazione con soggetti che assorbono energie è prolungata o troppo frequente rispetto alle possibilità di recupero personale;
  • la relazione con soggetti ricaricanti e positivi è assente, ridotta, o infrequente;
  • sono assenti relazioni equilibrate e dotate di reciprocità.

Le energie mentali aumentano quando:

  • l’individuo apprende a staccare o distanziare il proprio rapporto con persone le quali assorbono le proprie energie in modo negativo e distruttivo;
  • l’individuo apprende a costruire reti di relazione selettive con persone la cui frequentazione e rapporto induce ricarica di energie mentali e positività;
  • viene ricercato un buon livello di equilibrio e di reciprocità nelle relazioni;
  • l’individuo riesce a costruire o sviluppare una rete di relazioni entro un gruppo le cui energie sono positive ed elevate (E-Group), traendone linfa vitale ed energia.

Il problema che poniamo qui va oltre quello della reciprocità: si può dare tanto anche a chi non ha nulla da restituire, e non lo restituirà mai (o quantomeno è scorretto farlo per aspettarsi una ricompensa), facendo ad esempio volontariato sociale.

L’appagamento morale può certamente considerarsi una forma di rientro comunque importante. Tuttavia, nelle relazioni interpersonali in azienda e o nello sport agonistico non si sta facendo volontariato, ma si perseguono obiettivi.

In questi contesti è essenziale porsi il problema di chi sta “rubando” energie, e che strategie o astuzie usa, chi sta dando contributi di energie, quante ne rimangano per i propri scopi personali o professionali. I flussi di energie devono avere una loro giustizia.

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Articolo estratto con il permesso dell’autore dal testo di Daniele TrevisaniIl potenziale umano. Metodi e tecniche di coaching e training per lo sviluppo delle performance”. Franco Angeli editore, Milano.

Saper riconoscere quando è utile essere vigili ed attenti

Le energie mentali sono correlate ad attenzione e vigilanza tramite un dop­pio legame: da un lato l’attenzione e la vigilanza aumentano le energie men­tali e incrementano il numero di input sensoriali, dall’altro lato il permanere di alti livelli di attenzione e vigilanza è stancante e consuma.

Occorre, in sintesi, apprendere ad “accendere” attenzione e vigilanza nei momenti utili e spegnerla per non consumarsi troppo, quando inutili.

L’ansia, ad esempio, viene anche dal mantenere sempre alto il livello di vigilanza, orientarla verso pericoli immaginari o che in non sono nemmeno ben localizzati, creando costante tensione o tensione cronica.

L’attenzione vigile, quando mantenuta elevata anche nei momenti di stacco, recupero e riposo, genera una iperattivazione e impedisce il buon funzionamento del processo di ricarica energetica.

Attenzione e vigilanza sono estremamente correlate agli stati bioenergetici dell’organismo, ad esempio la sonnolenza post-prandiale riduce ampiamente la capacità di attenzione, soprattutto se il pranzo è ad alto livello di carboidrati e zuccheri (dolci) o associato ad alcool. Questo produce un forte declino di energie mentali generali nell’istante.

Anche la stanchezza fisica e la ripetitività (routine) producono calo di vigilanza, per cui è possibile svolgere una prestazione pericolosa (quale guidare l’auto o un aereo) senza accorgersi di scivolare lentamente in uno stato di ipo-vigilanza (attenzione fortemente diminuita), con forti rischi per l’inco­lumità personale e altrui.

Un’ulteriore problematica forte connette le prestazioni umane alle risorse mentali: la presenza di disturbi provocati da rumori psicologici interni (es: ansia, dolore esistenziale, dispiacere per eventi accaduti, stress emotivi) o rumori fisiologici (es.: mal di testa, dolori articolari, digestione, intestino, palpitazioni cardiache) e il fatto che questi impediscono di concentrarsi sulla performance o sul flusso di esperienza.

In questo punto si può notare l’estrema correlazione tra risorse mentali e wellness bioenergetico, e questo rafforza il nostro voler accelerare la rimozione dei disturbi fisici che impediscono il buon funzionamento dell’orga­nismo e rendono difficile all’essere umano concentrarsi sul proprio obiettivo o gustare a pieno la vita.

Principio 14 – Gestione delle risorse attentive

Le energie mentali diminuiscono o si esauriscono quando:

  • si riduce la capacità di percepire i propri livelli attentivi e di vigilanza (self-monitoring energetico), per poter decidere se si è o meno in grado di svolgere un compito (es.: guidare) o se sia il caso di prendere una pausa di recupero;
  • viene meno la capacità di staccare nettamente la spina della vigilanza durante i momenti di ricarica e riposo: continuare a pensare ad un problema durante il riposo distrugge il meccanismo stesso del recupero;
  • il lifestyle personale (alimentazione, attività fisica e lavorativa, carichi di lavoro, momenti di recupero) è disequilibrato e si realizza un disallineamento tra momenti di disponibilità energetica e momenti di richiesta energetica;
  • le risorse attentive sono distratte dalla performance ai processi interni (rumori psicologici e disturbi fisiologici).

Le energie mentali aumentano quando:

  • l’individuo apprende a monitorare i propri livelli di capacità di attenzione e vigilanza, e gestisce attivamente le proprie risorse limitate;
  • le attività di ricarica psicologica e fisica non sono disturbate, interrotte o sequestrate da attività di ruminazione mentale negativa;
  • si apprende a “staccare la spina” da attenzione e vigilanza quando inutili;
  • viene conseguito uno stato di tranquillità sia mentale che fisica tale da rimuovere i rumori psicologici e disturbi fisici che possono inibire l’attenzione verso la performance, o impedire alla persona di gustare il flusso di esperienza.

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Guardarsi dentro per evolvere

L’apertura al cambiamento è spesso confusa con l’intenzione di “acquistare” o “comprare” il cambiamento. Ad esempio, un manager può sperare di aumentare la produttività del suo reparto acquistando un nuovo software, senza rendersi minimamente conto del fatto che la produttività sia bloccata da qualche suo errore di leadership, di people management, o di comunicazione interna, o da cattiva organizzazione.

L’apertura al cambiamento è da intendersi come accettazione della necessità di osservarsi interiormente, di scoprire i propri punti di forza e debolezza.

Il pensiero “tutti sbagliano, tranne me”, lo stereotipo “io sono praticamente perfetto” mettono in crisi qualsiasi introspezione.

In “Regie di Cambiamento” (Trevisani, 2007) ho potuto evidenziare che il cambiamento contiene tre specifiche zone di lavoro o “operazioni”:

Zona 1: rimuovere, abbandonare, disapprendere, lasciare, disfarsi di…

Zona 2: consolidare, mantenere, aggrapparsi a, rafforzare, ancorarsi a…

Zona 3: acquisire, imparare, apprendere, assimilare, far entrare…

Il lavoro mentale di focusing (identificare, localizzare, far luce, diradare la nebbia, far emergere) consiste nella ricerca di quali siano i contenuti delle tre aree. Senza un focusing adeguato, un’azione che intende produrre cambiamento può diventare persino controproducente o avere effetti opposti a quelli desiderati, come un pugno sferrato nel buio può rischiare di colpire un amico.

Guardarsi dentro, chiedersi cosa sarebbe bene disapprendere, e cosa sarebbe bene disimparare, richiede coraggio, un vero coraggio, superiore a quello necessario per lanciarsi da un paracadute.

Il coraggio di guardarsi dentro consiste nel mettere in discussione la propria presunzione di perfezione, ricercare i prototipi di pensiero disfunzionali che ci circolano dentro, le modalità di ragionare improduttive o dannose per sé e per gli altri. Localizzare bene cosa non va è più difficile rispetto a risolverlo.

Figura 4 – Il cambiamento e le zone del di cambiamento

La cattiva localizzazione genera dispersione di energie. Molto spesso siamo nella condizione di “confusione sul vero target di cambiamento”, come se un pompiere gettasse acqua sul lato opposto in cui si trova il fuoco, e non riuscisse a capire dove il getto d’acqua va diretto.

Serve una forte capacità di capire dove è bene lavorare e migliorare. Il contrario produce un “assediarsi entro uno schema” che il più delle volte significa bloccarsi, non evolvere.

Il coraggio riguarda anche il comportamento del coach che intenda utilizzare un approccio analitico per andare sino in fondo, e:

analizzare cosa il soggetto (persona o sistema) deve disapprendere, abbandonare, eliminare dal proprio modo di essere, di agire o pensare; valutare le difficoltà sottostanti nel farlo, gli ancoraggi che rendono il cambiamento difficile, le pulsioni profonde;

analizzare e rafforzare gli ancoraggi di identità, di comportamento e di atteggiamento, sui quali si costruisce la propria solidità interiore;

valutare i bisogni di apprendimento, sia come conoscenza da immettere, che come comportamenti o atteggiamenti da far entrare per produrre sviluppo positivo.

Tutte le volte che una persona rifiuta di mettersi in discussione, blocca la curiosità per la ricerca, pratica arroganza e senso di superiorità immotivati, mette in moto meccanismi che ostacolano la sua crescita.

Principio 13 – Relazione tra energie mentali e analisi interiore

Le energie mentali diminuiscono o si esauriscono quando:

  • non viene svolta un’analisi corretta rispetto a (1) ciò che sia bene disapprendere, lasciar andare, ripulirsi da…, (2) quali ancoraggi mantenere, e (3) quali apprendimenti sono necessari, sia in termini di concetti che di atteggiamenti;
  • l’individuo non accetta di mettere in discussione le proprie abitudini e prassi;
  • l’individuo si concentra sui rischi del cambiamento e non sui possibili vantaggi;
  • l’individuo non cerca aree per la propria crescita personale;
  • l’individuo non accetta di analizzare in modo critico i propri modi di pensare, di ragionare, i prototipi cognitivi e credenze che usa, le distorsioni e incongruenze, e le implicazioni negative che ne derivano per sé e per gli altri;
  • l’analisi interiore viene considerata di scarso valore o poco senso pratico, con una forte deriva materialistica.

Le energie mentali aumentano quando:

  • le proprie abitudini e prassi vengono sottoposte ad analisi periodica, al fine di suscitare analisi e cambiamento migliorativo;
  • viene esercitato il cambiamento verso fini positivi, la rottura della stasi, come condizione non pericolosa e vantaggiosa;
  • vengono svolte analisi per scoprire le proprie dissonanze e incongruenze, con supporto professionale, al fine di migliorare il grado di integrazione tra i diversi elementi psichici e comportamentali;
  • vengono localizzati ed analizzati: 1) i bisogni di rimozione (disapprendimento, pulizia), 2) di apprendimento, e 3) gli ancoraggi di identità cui non si intende rinunciare.

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La necessità di crescita personale e professionale

L’individuo ha la capacità di apprendere costantemente dall’ambiente e dall’esperienza, date condizioni adeguate.

Per sbloccare i percorsi di apprendimento è necessario attivare gli strumenti della formazione esperienziale, basati sui principi dell’andragogia (scienza della formazione dell’adulto), che valorizzano il “fare attivo” come strumento per apprendere, opposto ad un “ascolto passivo”.

Le relazioni tra apprendimento ed energie mentali sono quindi sia di tipo interno (responsabilità dell’individuo) che di tipo esterno (responsabilità dei formatori, insegnati, pedagogisti e istituzioni preposte alla formazione).

Principio 12 – Capacità e condizioni di apprendimento

Le energie mentali diminuiscono o si esauriscono quando:

  • l’individuo non vede nella propria esperienza alcun elemento di apprendimento e accetta passivamente questa condizione;
  • l’individuo non sente bisogno di apprendere;
  • l’individuo non attiva percorsi autonomi ed esperienze guidate di riflessione sull’esperienza tali da generare apprendimento;
  • l’individuo perde curiosità verso il mondo, verso il sapere e verso l’acquisizione di nuova conoscenza (fattori interni);
  • i metodi formativi e di insegnamento utilizzati inibiscono il ruolo attivo del soggetto nell’apprendimento;
  • le tecniche di formazione e apprendimento non riescono a risvegliare curiosità, volontà e motivazione verso la crescita e acquisizione di saperi, abilità fare o nuovi atteggiamenti (fattori esterni).

Le energie mentali aumentano quando:

  • l’individuo riesce a creare esperienze di apprendimento nel suo vissuto quotidiano;
  • nasce o viene stimolato il bisogno di apprendere e il piacere di apprendere;
  • aumenta il bisogno di conoscenza e di ricerca;
  • vengono utilizzate tecniche che facilitano l’apprendimento in modo attivo, partecipativo, esperienziale.

La condizione primaria dell’apprendimento è la volontà di apprendere e la curiosità, una condizione naturale dell’essere umano che i bambini manifestano chiaramente, chiedendo in continuazione “perché” e ponendo ogni altro genere di domanda.

Le modalità distorte della pedagogia reale, i metodi utilizzati per insegnare, portano spesso ad una condizione in cui apprendimento equivale a noia e frustrazione.

Per questo, alcuni individui finiscono per compiere l’equazione “apprendimento = studio = noia = sofferenza”, e interrompono il proprio percorso di ricerca e di crescita.

Risvegliando la curiosità verso il mondo e verso la conoscenza in sé intesa come scoperta, è possibile attivare nuove energie mentali.

Ogni individuo possiede il bisogno fondamentale di ricevere stimolazioni ambientali e di sentire di procedere nella propria crescita professionale e umana. Quando questo bisogno si spegne, siamo di fronte all’inizio di una nuova patologia di abulia, apatia, riduzione larvale della natura umana a macchina biologica e vegetale senza anima, senza speranza, senza aspirazioni. Anche un appagamento illusorio di questo bisogno (ad esempio, accontentarsi di un lavoro o di un ruolo nel quale non si apprende più niente, e “raccontarsela”) produce apatia.

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Le tecniche del metodo HPM per potenziare la memoria

La memoria è la capacità di immagazzinare informazione, fissare il flusso esperienziale e i dati, e avere accesso ad entrambi. La memoria è centrale per lo svolgimento della performance, in quanto, come evidenzia Baddeley:

senza la memoria saremmo incapaci di vedere, di udire o di pensare. Non avremmo un linguaggio per esprimere la nostra situazione, e di fatto neppure un senso della nostra identità personale. In breve, senza memoria saremmo dei vegetali, intellettualmente morti[1].

[1] Baddeley, A. (1990), La memoria, Laterza, Bari.

Vi sono migliaia di pubblicazioni e ricerche sulla memoria, un materiale sterminato impossibile da trattare in questa sede. Per i nostri fini vogliamo evidenziare alcuni tipi di memoria rilevanti per la performance e lo sviluppo delle energie mentali, sottolineando che non esiste una memoria singola ma molte tipologie di memoria.

  • Memoria a breve temine: mantenimento dell’informazione per pochi secondi dal suo ingresso.
  • Memoria a lungo termine: la funzione di immagazzinamento delle informazioni, superata la memoria a breve termine.
  • Memoria episodica: capacità di ricordare i dettagli di un evento, il ricordo di fatti particolari, come ciò che abbiamo mangiato a colazione il giorno precedente, o i dettagli di un evento anche remoto.
  • Memoria associativa: es.: ricordare i nomi delle persone vedendone il volto, associare un rumore ad una precisa auto.
  • Memoria semantica: creazione di significati associati a eventi o input. Fa parte della memoria semantica ad esempio la capacità di ricordare un certo odore e capire che si tratta di gomma bruciata.

Il movente scatenante energie mentali può essere associato alla memoria negativa o alla memoria positiva.

La memoria negativa riguarda eventi passati negativi e il tentativo di far si che non si ripetano, mentre la memoria positiva riguarda il ricordo di eventi positivi e il tentativo di far riaccadere quelle sensazioni.

Notiamo da questo passaggio, dal film: “Proposta Indecente” di Adrian Lyne, un esempio di associazione che crea movente per un comportamento:

Ricordo una volta quando ero giovane, e stavo tornando da non so dove, un cinema o forse qualcos’altro… c’era una ragazza che era seduta di fronte a me, indossava un vestito che era abbottonato quasi fin quassù… “era la cosa più bella che avessi mai visto”…

Allora ero timido, così quando lei mi guardava abbassavo gli occhi… poi dopo, quando ero io a guardarla li abbassava lei…

Arrivai dove dovevo scendere, e scesi, le porte si chiusero, e quando il treno stava ripartendo lei mi guardò negli occhi e mi fece un incredibile sorriso… fu terribile… volevo aprire per forza le porte… tornai ogni sera alla stessa ora… per 2 settimane… ma non l’ho più vista…

Questo è stato 30 anni fa… e non credo che passi giorno senza che io non rivolga un pensiero a lei…

Non voglio che succeda di nuovo!

Dal film: “Proposta Indecente”, frase recitata dall’attore Robert Redford

La memoria di lavoro (buffer mnemonico) consente il mantenimento di uno stimolo in ingresso per pochi secondi, necessari alla elaborazione mentale (cognitiva) dello stimolo stesso. È la memoria necessaria a ricordare un informazione per il tempo necessario allo svolgimento di un compito, per poi disfarsene poiché inutile. Tutti gli “scarti di lavorazione” della memoria (i vari sottoprodotti) verranno abbandonati e dispersi.

Lavorare sulla memoria è quindi importante non tanto per aumentarne la capacità, stiparla di informazioni come un magazzino sovraccarico, ma soprattutto per aiutare a consolidare i passaggi di vita, episodi positivi e negativi, da cui si può ricavare apprendimento.

La mente non è un vaso da riempire ma un legno da far ardere perché s’infuochi il gusto della ricerca e l’amore della verità.

Plutarco

Uno dei problemi della psicoenergetica è la perdita di focus su quali siano le informazioni utili e quali invece trattenere. Se sbagliamo, non presteremo attenzione a dati di reale utilità, trattati come rifiuti o sottoprodotti, e ci concentreremo invece su ciò che non serve. Ad esempio, in una negoziazione sarà indispensabile cogliere anche singole parole, memorizzarle e compararle ad altre emissioni verbali dette in seguito dalla persona, per far emergere eventuali dissonanze, e usarle nella nostra strategia.

Un altro aspetto mnemonico interessante è la capacità di ricordo dei sogni, che se recuperati ed analizzati consentono di avere accesso ad una preziosissima fonte di rappresentazioni delle paure (blocchi, ansie, timori, preoccupazioni) e desideri inconsci dell’individuo.

È stato evidenziato da ricerche sulla comunicazione interculturale che il difficile ricordo del sogno è un problema di comunicazione tra stati di coscienza. Lo stato della vigilanza parla un linguaggio diverso rispetto allo stato del sonno, e i due non possono comunicare bene tra di loro. La memoria dei sogni richiede l’acquisizione di uno stato intermedio (una sorta di terza lingua) tra lo stato di coscienza del sonno e lo stato della veglia.

Nel metodo HPM si utilizzano tecniche di meditazione consapevole praticate in fasi specifiche del training, ma anche immediatamente dopo il risveglio, per poter portare allo stato cognitivo lucido aspetti del sogno e dell’inconscio che andrebbero altrimenti dispersi (tecniche ReMeA: recupero e metabolizzazione in stato alfagenico). Lo stato alfagenico è uno stato di rilassamento nel quale l’individuo produce onde cerebrali alfa, è tranquillo e rilassato, ed è in grado di generare un pensiero più libero, creativo e associativo.

Tra le tecniche alfageniche si colloca anche la pratica di generare ricordi guidati di eventi positivi, anche durante la giornata, riservandosi spazi appositi (tecniche RSP: Training Mentale di Ricordo Selettivo Positivo).

Queste tecniche sono l’esatto contrario dei tentativi di fuga dai ricordi spiacevoli, o dello scorrere sopra gli eventi positivi anziché sentirli a fondo. Occorre la consapevolezza che non serve a nulla fuggire da un ricordo finché non lo si è capito e accettato. Allo stesso tempo, serve capacità per cogliere gli aspetti positivi della vita, che altrimenti ci scorrono accanto inosservati, poco gustati o assaporati. A forza di non notare ciò che di positivo ci accade o esiste, le nostre capacità si atrofizzano, e il pensiero si chiude.

Le tecniche si prefiggono di analizzare i vissuti quotidiani, i problemi occorsi in passato, i momenti positivi, e metabolizzarli in una condizione alfagenica (di rilassamento), nella quale essi possano esprimersi meglio, essere affrontati, elaborati, assaporati, metabolizzati, e portati a livello cosciente.

In questo modo i problemi non verranno lasciati alla sola metabolizzazione notturna, riducendo il carico di lavoro mentale e liberando il sonno da una dose di affanno elaborativo. Allo stesso tempo, l’individuo apprende a gustare eventi che altrimenti rischiano di andare persi e dimenticati per sempre.

Le tecniche possono andare anche verso la rivisitazione degli eventi positivi della giornata o di un periodo specifico, es., la settimana, per consolidare elementi del vissuto positivo che altrimenti verrebbero dispersi, ridotti, dati per scontati (tecniche di concentrazione sugli eventi positivi e consolidamento mnemonico di episodi positivi).

Oltre a questo beneficio, le tecniche di Training Mentale consentono di entrare nell’esperienza passata con un maggiore grado di introspezione assimilandone aspetti più profondi.

Un ulteriore problema di psicoenergetica è la connessione tra flusso di esperienza e memorizzazione selettiva. Possiamo ricordare – di una esperienza di lavoro o di vita – solamente alcuni episodi caratterizzati da fatti curiosi, oppure possiamo cercare di far uscire dalla memoria i nostri errori (ricerca selettiva), ed ancora far uscire dalla memoria, estrapolare, i comportamenti e atteggiamenti che sono stati produttivi e positivi.

Senza questa attività di ricerca, elaborazione e fissazione, il flusso di esperienza ha valore minore e diventa meno utile per l’apprendimento.

Sempre rispetto alla memorizzazione selettiva, notiamo che essa può travalicare il punto della semplice selezione e giungere alla distorsione (immettere infor­ma­zioni che non c’erano) nel quadro memonico.

Questo avviene soprattutto come meccanismo di auto-protezione dalla dissonanza (“devo aver fatto questo, altrimenti non sarei stato io”, “mi avrà certamente detto così, altrimenti non avrei reagito in quel modo”, e altre distorsioni di questo tipo). Le persone arrivano tranquillamente ad inventare aspetti dell’esperienza inesistenti e distorcere involontariamente (senza coscienza di farlo) interi brani di realtà, pur di mantenere in piedi i castelli di carta mentali che le sorreggono.

Principio 11 – Relazione tra memoria ed energie mentali

Le energie mentali diminuiscono o si esauriscono quando:

  • l’individuo coglie dal piano della realtà meno informazioni rilevanti di quante ve ne siano (lacune e gap di percezione selettiva) e non le utilizza per arricchire la propria esperienza;
  • l’individuo non dedica tempo sufficiente all’elaborazione del flusso di esperienza per ricercarne elementi di positività (auto-feedback positivo) ed elementi di errore (auto-feedback negativo) per ricavarne apprendimento ed immetterlo poi immetterli in una memoria di lavoro permanente;
  • l’individuo possiede un ricordo alterato di eventi e situazioni, e se lo auto-rappresenta in modo distorto (memorizzazione selettiva e distorsiva);
  • l’individuo non riesce a praticare ponti mnemonici tra stati di coscienza (soprattutto sonno-veglia, ma anche tra stati coscienti, subcoscienti e inconscio) che gli consentano di recuperare informazioni preziose sui propri desideri, aspirazioni, paure, sfondi pulsionali;
  • l’individuo possiede in memoria eventi episodici ed emotivi non sufficientemente analizzati e metabolizzati, al fine di ridurne l’impatto negativo o ampliare quello positivo.

Le energie mentali aumentano quando:

  • l’individuo apprende a cogliere numerose informazioni dal piano di realtà (ricchezza percettiva) e a gestirle correttamente;
  • viene dedicato tempo sufficiente all’elaborazione del flusso di esperienza per ricercarne lezioni e apprendimenti (lessons learned), elementi di positività (auto-feedback positivo) ed elementi di errore (auto-feedback negativo) per poi immetterli in una memoria di lavoro permanente;
  • i propri successi e positività sono percepiti e consolidati (visualizzazione della propria storia di successi) e non banalizzati;
  • viene speso tempo per il recupero di elementi positivi dalla memoria, facilitando il ricordo positivo (rivisitazione positiva degli eventi), aumento della capacità di osservare e percepire positività;
  • l’individuo sa praticare ponti mnemonici tra stati di coscienza (sonno-veglia, tra stati coscienti, subcoscienti e inconscio) che gli consentano di recuperare informazioni preziose sui propri desideri, aspirazioni, paure, sfondi pulsionali;
  • l’individuo apprende a riconoscere ed elaborare le proprie sensazioni, gli stati sentiti a livello emozionale, fisico, umano e sentimentale, disambiguare le sensazioni, capire meglio le sensazioni provate e vissute (focusing ed experiencing).

Un coaching finalizzato a lavorare sul funzionamento della memoria emotiva dovrà utilizzare tecniche particolari di allenamento di componenti specifiche della memoria stessa.

Ad esempio, un “diario delle positività” aiuterà la persona a fissare quali aspetti della giornata, anche minimi, sono degni di maggiore attenzione e possono diventare qualcosa da apprezzare, piuttosto che materiale mnemonico da non trattenere o al quale non prestare nemmeno attenzione.

L’esperienzialità (experiencing) va catturata, in caso contrario la vita rischia di scorrerci via senza sentirla a pieno in noi.

Per scopi di approfondimento, è possibile ricorrere alle tecniche di focusing sviluppate da Gendlin, centrate sull’elaborazione della “sensazione sentita” soprattutto sul piano fisico, sino a sviscerarla completamente in ogni sua sfumatura.

Il lavoro di Gendlin sul focusing e sull’experiencing (esperienzialità) è decisamente importante è ha una nutrita letteratura[1]. Ricordiamo tuttavia che queste tecniche partono da una scuola e volontà psicoterapeutica, mentre nel nostro caso le tecniche di training mentale ed esperienziale hanno volontà di crescita del potenziale umano in senso ampio, e non sono centrate solo su aspetti terapeutici.

Non occorre stare male per forza per praticare focusing ed experiencing, anzi, ne avremo un beneficio anche partendo da condizioni di benessere o medianità e in azioni quotidiane, non solo competitive o manageriali. Le competenze psicologiche esistenziali devono diventare competenze sociali diffuse in tutte le persone, perché ogni persona merita di vivere a pieno e fino in fondo. Quale che sia la condizione di partenza, nello spirito del metodo HPM ogni piccolo passo ha senso. La stasi, invece, uccide.


[1] Tra le opere, la pubblicazione divulgativa più nota è edita solo nel 2001: Gendlin, E.T (2001), Focusing. Interrogare il corpo per cambiare la psiche, Astrolabio, Roma. Le pubblicazioni  in lingua inglese del metodo del focusing sono invece sintetizzabili nelle seguenti:

Gendlin, E.T. (2007). Focusing. [Reissue, with new introduction]. New York: Bantam Books.

  Gendlin, E.T. (1997). Language beyond postmodernism: Saying and thinking in Gendlin’s philosophy. Edited by David Michael Levin. Evanston: Northwestern University Press.

  Gendlin, E.T. (1997). A process model. New York: The Focusing Institute.

  Gendlin, E.T. (1996). Focusing-oriented psychotherapy. A manual of the experiential method. New York: Guilford.

  Gendlin, E.T. (1991). Thinking beyond patterns: Body, language and situations. In B. den Ouden & M. Moen (Eds.), The presence of feeling in thought, pp. 21-151. New York: Peter Lang.

  Gendlin, E.T. (1986). Let your body interpret your dreams. Wilmette, IL: Chiron.

  Gendlin, E.T. (1962). Experiencing and the creation of meaning. A philosophical and psychological approach to the subjective. New York: Free Press of Glencoe. Reprinted by Macmillan, 1970.

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L’esperienza magica dello stato di flusso

Lo stato di flusso (flow) è caratterizzato dal procedere di una azione o serie di azioni che “scorre liscia”, in cui tutto avviene perfettamente (non necessariamente senza ostacoli, ma spesso con ostacoli anche forti che vengono superati), in cui vi è la netta sensazione di controllo sugli eventi ed un senso di euforia e potenza accompagnato da una forte felicità interiore e benessere.

La condizione che ne deriva è simile all’esperienza di qualcosa che scorre bene, un fluire (flow experience) che si deposita in memoria e al quale si può imparare ad attingere per migliorare se stessi, il proprio benessere e le prestazioni/esperienze future.

Lo stato di flusso non è una condizione puramente atletica o prestazionale, ma essenzialmente esistenziale. Può entrare in ogni condizione di vita, negli elementi e momenti più vari, quali l’esperienza di leggere un libro o di vedere un tramonto o di conversare attorno ad un tavolo, sciare, giocare a calcio, combattere, meditare, o nell’insegnamento, o nel sesso. Ogni stato esistenziale può essere vissuto in condizione di flusso.

Lo stato di flow può essere sperimentato dagli atleti durante alcuni allenamenti (non in ogni momento, e non da tutti gli atleti). Può emergere anche nella vita di relazione, in un comunicatore durante un discorso (o docente durante una lezione), nel momento in cui senta che il pensiero fluisce con energia, l’espressività si sblocca, si apre un magnetismo speciale sulla platea e il pubblico lo segue intensamente.

Ancora, può sperimentare lo stato di flusso una coppia, durante atti amorosi o momenti particolarmente romantici, o in atti sessuali vissuti come scambi di emozioni e non come prestazioni ginniche.

Ancora, può sperimentare questo stato un terapeuta che riesca a stabilire una netta empatia con il cliente e a far emergere qualcosa di buono (scoperte, insights), durante la seduta.

In campo sportivo, osserviamo un brano è utile per analizzare come lo stato di flusso sia aiutato da rituali preparatori, e capire quanta “presenza mentale” sia raggiunta dall’atleta in questo stato. Si evidenzia inoltre la grande capacità di “contatto con se stessi”, di auto-percezione:

I Quadricipiti secondo Rühl. Esercizio n. 1: Squat.

Quando sento di essere riscaldato a fondo e sono ansioso di cominciare, vado dritto alla rastrelliera per gli squat, senza pensare ad altro che alla percezione di decine di chili sulla schiena e a contrarre i quadricipiti scendendo fino al pavimento, gonfiandoli fino a farli raddoppiare di volume.

Mi assicuro sempre di controllare bene il movimento, di tenere la schiena dritta e gli addominali tesi. Non mi sbilancio mai in avanti né utilizzo la zona lombare come leva. Salendo e scendendo, spingo il carico sfruttando il perfetto asse di potenza che attraversa il centro del torace, il centro del bacino, il centro dei quadricipiti e il centro dei talloni. Nel primo set cerco di ottenere un forte bruciore muscolare, per assicurarmi di aver stimolato la zona giusta, eseguendo anche 30 ripetizioni se necessario.

Dopo aver allungato e strofinato i muscoli per eliminare in parte l’acido lattico, aggiungo un’altra piastra per lato e ricomincio daccapo, sempre in con una tecnica di esecuzione perfetta, per inondare i quadricipiti di sangue. Nel frattempo, Marc Arnold, mio amico di lunga data e training partner, continua ad urlarmi di rimanere dritto, di tenere i muscoli contratti, di pompare, di fare un’altra ripetizione. Se c’è qualcuno che riesce a darmi la spinta giusta, quello è Marc.

Ora il tempo e i numeri non esistono più. Continuo semplicemente ad aggiungere pesi e a contrarre i quadricipiti, scendendo molto, in modo da sentire la forza sempre più esplosiva nei muscoli interessati. Tra un set e l’altro, me la prendo comoda: non passo al set seguente se prima non riesco a percepire di nuovo i quadricipiti e a sentire che c’è ancora spazio per un nuovo afflusso di sangue. Seguo questo schema per almeno dieci set, spesso dodici, fino a raggiungere il cedimento dopo tre ripetizioni nell’ultimo set. A me piace allenarmi così[1].

[1] Ruhl, M. (2002), Quadricipiti bestiali, Flex, giugno, n. 44, p. 78.

“Ora il tempo e i numeri non esistono più”, sostiene il campione mondiale Rühl, e da quel momento inizia lo stato di flusso.

Questa esperienza di perdita completa del senso del tempo e dello spazio, l’immersione totale nell’esperienza, assume tratti comuni e trasversali sia nelle attività sportive ad alto tasso di “passione e immersività” così come può prodursi in attività lavorative, o in attività creative (dipingere, suonare), sociali (stare assieme, conversare), sentimentali (sognare assieme).

Può riguardare sia attività fisiche in rapido movimento che attività statiche quali l’ingresso in una meditazione profonda e ben riuscita, o attività di modesta entità fisica ma alta passionalità, quali una partita di carte.

Si può sperimentare lo stato di flusso durante la scrittura di un libro o di una lettera, o la stesura di un disegno, quando parole, segni ed idee sembrano uscire da sole senza sforzo. Al contrario, il blocco del flow viene vissuto come la “pagina bianca” (il vuoto da cui non si sa come muoversi) o una “pagina nera”, densa di ansia, di emozioni negative, in cui ogni gesto costa fatiche immense, e persino l’inizio sembra opera ciclopica.

Il flow può essere vissuto anche durante un momento di abbandono completo ad un massaggio, in cui il tempo sembra fermarsi. I pensieri estranei e le ruminazioni mentali che interferiscono con la concentrazione sull’atto, impediscono al flow di manifestarsi. Imparare a bloccarli per vivere a pieno le esperienze è difficile ma può essere appreso. E tutto questo è complicato dal fatto che non si tratta di un apprendimento che si ottiene una volta per tutte. Esso può sparire in determinate condizioni e rilasciare spazio al pensiero invasivo e alla ruminazione mentale che interferisce.

Apprendere a generarlo anche in condizioni difficili è una vera conquista e un percorso umano sacro per il quale le culture occidentali sono decisamente impreparate. È quindi anche una sfida didattica e pedagogica per un’umanità migliore.

Lo stato di flusso è un “momento magico” che rappresenta più l’ecce­zio­ne che la norma. Vi sono persone che non hanno mai sperimentato lo stato di flusso in tutta una vita, altre che non lo vivono da almeno dieci anni, immersi fino al collo in problemi, in disagi esterni e auto-creati, o da uno stile di vita o approccio culturale/cognitivo sbagliato.

Trovare lo stato di flusso spesso, idealmente all’interno di ogni giornata e prestazione fisica o comunicativa, è l’obiettivo di una pratica energetica e professionale seria che non abbia l’unico scopo di “arrivare a sera in qualche modo”.

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La presenza mentale per l’aumento delle performance

A volte per ottenere il meglio da se stessi è necessario staccare.

Il professionista Martinez così racconta la sua preparazione:

A luglio 2005, l’atleta trentenne ha lasciato l’isola frenetica e soffocata dal traffico di Manhattan per trasferirsi temporaneamente nel distretto di South Street di Philadelphia. Nella sua nuova città, si è buttato anima e corpo nella preparazione per l’Olympia, camminando per le strade di Philadelphia come un novello Rocky intento a prepararsi per il match decisivo della sua carriera agonistica.

“Le mie giornate – spiega – erano dedicate soltanto all’allenamento e alla preparazione. Niente attività extracurricolari”[1].

[1] Berg, M. (2006), La svolta di Victor, Flex, n. 4, pp. 70-79. Rif., p. 75.

Rompere con l’ambiente circostante di sempre, cambiando il frame spazio-temporale abitudinario, è una tecnica usata nello sport e nell’impresa, quando si vuole ottenere massima dedizione e concentrazione. La tecnica del cambiare città temporaneamente o del cambiare stile di vita, o del cambiare palestra, o luogo di lavoro, o del “ritiro”, è una pratica vincente per molti professionisti sportivi e team, ma anche di artisti e pensatori che cercano di ottenere uno stacco totale dallo stile di vita o da aspetti particolari dell’am­bien­te precedente (fisico e sociale), per trovare nuova linfa e concentrazione.

Ciò che rimane nel non detto, è da cosa esattamente si stia sfuggendo. Spesso si tratta di una coltre di nebbia mentale, di uno smog psicologico non ben definito, di abitudini o climi psicologici che è persino difficile identificare. Quello che conta è che la tecnica del ritiro e/o del cambiamento di ambiente funzioni, e che possa essere utilizzata per ottenere nuova linfa vitale e nuova concentrazione rompendo con gli schemi precedenti.

La concentrazione, lo stacco dagli schemi abitudinari della vita quotidiana, la separazione mentale delle attività, sono forti strumenti per la ricarica delle energie psicologiche. Nel caso precedente abbiamo visto l’esempio di uno stacco estremo, cambiare città, ma in molti altri casi lo stacco può essere ottenuto anche durante la giornata.

Vediamo questa testimonianza in ambito sportivo, su come nelle arti marziali (quando condotte da maestri preparati, non da dilettanti) si vada alla ricerca di quella condizione interiore che permette al partecipante di “cambiare registro” ed entrare in una dimensione più profonda:

Spesso la meditazione ha luogo alla fine e all’inizio delle lezioni. Tuttavia il fatto stesso di arrivare al Dojo, di liberarsi degli indumenti quotidiani per indossare il nostro Gi, Dobok o quello che è, metterci la nostra cintura, è in se un atto di preparazione per adattare la nostra mente all’altro spazio-tempo che compone la nostra pratica nel Do-jo (il posto del risveglio).

La meditazione ed i saluti iniziali sono un passo in più nel già citato processo. Persino nella loro pratica esclusivamente formale tali cerimonie facilitano il transito dalla stressante quotidianità, fino ad un atteggiamento diverso, dove i valori, i tempi e persino la misura del nostro sforzo sono molto differenti. Qui il denaro non comanda, comanda il Maestro; il nostro tempo non ci appartiene, è gestito dal Maestro e dalla dinamica del gruppo; il corpo, spesso trascurato nel nostro quotidiano, acquisisce ora un protagonismo distinto, diventa presente e richiama la mente e le emozioni a condividere lo sforzo. Uno sforzo che non si realizza per ottenere denaro, oggetti o sesso, uno sforzo che ci porterà un unico regalo, l’autosuperamento[1].

Se esiste una capacità dimenticata oggi in azienda è la presenza mentale, la concentrazione strategica.


[1] Tucci, A. (2005), Concentrazione e meditazione nelle arti marziali, Budo International, settembre, p. 62.

Principio 10 – Energie mentali, presenza mentale e mono-tasking

Le energie mentali diminuiscono o si esauriscono quando:

  • le risorse attentive non sono pienamente presenti e concentrate;
  • l’individuo utilizza le proprie energie attentive (cognitive) ed emotive su più fronti contemporanei (multitasking);
  • l’individuo sottostima il grado di difficoltà insito nel compiere bene un’azione o affrontare un problema;
  • l’individuo non riesce ad isolare le attività prioritarie, o a rinunciare alla dedizione verso tempi estranei al goal, durante il tentativo di perseguire il goal stesso;
  • viene utilizzato uno stile di pensiero errato rispetto al compito.

Le energie mentali aumentano quando:

  • vengono allenate le capacità di concentrazione e presenza mentale;
  • vengono praticate attività atte a favorire la lucidità mentale (rilassamento, meditazione, tecniche di training mentale condotte da professionisti);
  • l’individuo concentra le attenzioni ed energie su un problema o progetto, evitando la dispersione (rimozione del multitasking);
  • l’individuo apprende a svolgere stime corrette rispetto al dispendio di energie mentali di attenzione e concentrazione necessarie, senza sopravvalutarle (ingigantimento della sfida) o sottovalutarle (sottostima);
  • l’individuo apprende a compiere azioni sfidanti con maggiore efficienza mentale, utilizzando stili di pensiero (stili cognitivi) postivi e risolutivi.

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Per aumentare le performance, bisogna vivere slot temporali separati

Vivere in multitasking (distribuire l’attenzione contemporaneamente su più fronti) riduce le energie mentali e non consente di assorbire energie positive dagli eventi.

Il multitasking è possibile solo su compiti estremamente semplici, ma anche in questo caso l’effetto sulle energie mentali è drenante. Per incrementare le performance è ottimale vivere le esperienze in slot temporali separati.

Uno dei temi principali per lo sviluppo energetico tramite la via pedagogica è la riduzione del multitasking: diminuire l’impegno contemporaneo su più fronti.

Le società industriali e post-industriali spingono le persone sempre più verso il multitasking, e persino alcuni corsi mal impostati di time-management e sviluppo personale arrivano al punto di proporre metodi per fare più cose contemporaneamente. Niente di più sbagliato. Il cervello umano, al contrario del computer, non lavora bene su più compiti. Può farlo, ma lavorando in modo disarmonico e dispersivo.

Mangiare mentre si legge un giornale, si guarda la tv e si cerca di avere una conversazione con i familiari è un esempio classico di multitasking in cui: (1) non si apprezzerà il cibo realmente, (2) non si leggerà il giornale se non in modo disattento, e (3) si avrà una conversazione familiare di livello estremamente superficiale. Questo produrrà litigi dovuti ai momenti di non ascolto reciproco che tale situazione produce. Non vi sarà quindi alcuna efficacia della conversazione.

Una delle capacità più critiche per le performance è quella di ripulirsi dall’eccesso di attività, riconoscere le dispersioni, concentrarsi su poche cose significative, fare pulizia nella propria vita delle cose inutili e dispersive.

Ogni giorno qualcosa di meno, non qualcosa di più:

sbarazzati di ciò che non è essenziale.

Bruce Lee

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La mente può essere allenata

Se equipariamo (grezzamente) la mente umana ad un processore informatico, possiamo distinguere due grandi sfere di prestazione: la potenza del processore (che determina la velocità di elaborazione dei dati) e l’utilizzo della potenza: concentrato su un singolo task o programma (monotasking) oppure distribuito su compiti multipli e più programmi (multitasking).

In termini mentali, la potenza del processore equivale alla rapidità cognitiva o rapidità del pensiero (soprattutto, la capacità di cogliere collegamenti tra variabili), mentre l’applicazione (monotasking vs. multitasking) equivale alla capacità di concentrazione mentale su un singolo problema o obiettivo.

L’abilità di ragionamento ha una componente genetica ma anche e soprattutto una forte componente esercitabile, praticabile, un’area di crescita che dipende da ciò che la nostra mente apprende a fare dalla nascita in poi.

All’interno di questa area, la parte relativa agli stimoli familiari, scolastici e dei media, ha un forte influsso: individui che hanno vissuto in un clima relazionale povero, che hanno avuto poche stimolazioni, pochi input sensoriali ed esperienziali, sono meno rapidi nel risolvere i problemi. La rapidità cognitiva richiede allenamento. Ma l’allenamento si può praticare.

Principio 9 – Rapidità cognitiva e problem solving

Le energie mentali diminuiscono o si esauriscono quando:

  • l’individuo cresce in un ambiente apatico, che non stimola ad inquadrare i problemi da analizzare (problem setting) e a risolvere problemi (problem solving);
  • l’individuo non mantiene un allenamento adeguato (per frequenza e intensità) sul problem setting e problem solving, o si fissa entro una sola delle due attività;
  • i problemi di grande portata non vengono scissi in sub-problemi affrontabili;
  • l’individuo non dispone di tools adeguati (strategie mentali) per risolvere i problemi in modo più rapido ed efficiente;
  • i materiali posti sotto forma di problema sono di quantità e complessità tale da superare le capacità individuali e si genera overload (sovraccarico mentale);
  • i materiali posti sotto forma di problema sono sgradevoli affettivamente per il soggetto, o sono estremamente lontani dalle proprie inclinazioni, interessi e attitudini.

Le energie mentali aumentano quando:

  • vengono acquisite abilità di problem setting (saper fissare i problemi, saperli localizzare, saperli inquadrare) e di problem-solving (risoluzione);
  • si ricerca equilibrio e distinzione tra le due attività (localizzare e risolvere problemi);
  • i problemi affrontati sono di misura e quantità gestibile;
  • viene allenata la flessibilità cognitiva tramite tecniche (stretching mentale);
  • esiste collimazione tra le proprie inclinazioni e il tema su cui applicare le proprie capacità o i problemi da risolvere.

Una delle forme di allenamento più utili nel determinare rapidità cognitiva e pensiero logico nel metodo HPM è la ricerca della precisione e chiarezza del linguaggio, svolta con appositi esercizi. Il training consiste nell’esercitarsi a produrre frasi brevi e compiute, con un effetto di riverbero forte sulla capacità di pensare in modo conciso e concentrato.

Le teste vuote hanno lingue lunghe.

 Bruce Lee

Dobbiamo notare che questa tecnica allena la capacità di sintesi e di essere rapidi e concisi nel pensiero, mentre altre devono invece allenare la capacità di allargamento e creatività.

Le performance richiedono entrambe, ma al momento giusto.

Al di là di quanto sia ampio il patrimonio genetico, e al di là dell’accul­turazione individuale, ciascuna persona può autonomamente dedicare parte del proprio tempo ad allenare la mente al ragionamento.

Nel training dedicato al problem solving sarà indispensabile procedere per gradi, assimilare strumenti di problem setting (imparare a fissare bene i termini del problema). Impegnarsi ed allenarsi in una tecnica di analisi dei problemi (es.:, il DCE, Diagramma di Causa-Effetto) allena la mente ad affrontarli.

È necessario evitare di esporre all’elaborazione mentale una mole eccessiva di dati o problematiche (sovraccarico o overload), a meno che non si tratti di una precisa strategia allenante di sovraccarico intenzionale (overreaching), che va ingegnerizzata e non deve accadere nella normalità.

Dobbiamo inoltre considerare il tema del piacere insito nelle varie attività. La sgradevolezza affettiva differenzia notevolmente l’operato freddo di un computer da quello di un essere umano vivo. Per un PC non si pone il problema se i dati o problemi da elaborare siano o meno affini con le proprie inclinazioni, mentre per un essere umano sì, e questo influisce sulle energie mentali che si riescono ad attivare sul task.

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Trovare un equilibrio tra autodeterminazione e fatalismo

Il Locus of Control è una variabile psicologica che tratta il rapporto di un individuo con il destino e le forze esterne.

Quando prevale un Locus of Control interno l’individuo tende a percepire un forte controllo personale sul proprio destino (“il mio destino è qualcosa su cui posso influire e dipende soprattutto dalle mie scelte”).

Quando prevale un Locus of Control esterno, il soggetto tende invece a pensare che il proprio destino dipenda soprattutto dalla fortuna, dalla sorte, e dagli altri (“il mio destino è qualcosa che non posso controllare, dipende tutto dalla fortuna, o da quello che Dio vuol fare di me”).

Si tratta di due polarità estreme, all’interno delle quali si trovano un’am­pia serie di sfumature e gradi intermedi.

Possiamo in qualche misura identificare nel LOC interno un forte senso di autodeterminazione e autoefficacia, e nel LOC esterno un senso di fatalismo, che nei casi estremi sfocia nella rassegnazione, abbandono, vittimismo.

Una persona che assorba completamente l’uno o l’altro dei poli, e si chiuda in esso, rischia di sfociare nella patologia.

Il nostro locus of control, che sia interno o esterno, determina la quota di fatti ed eventi che noi pensiamo dipendano dalla nostra personalità e dalle nostre scelte ed azioni.

Dalle ricerche emerge che i soggetti con un LOC interno sono generalmente più felici, in salute, e hanno più successo, ma oltretutto sono più produttive professionalmente. Esclusi i casi di LOC fanaticamente interno, in cui ogni avvenimento del mondo venga visto come responsabilità della persona.

Il passaggio dallo stadio bambino-adolescente allo stadio adulto produce in genere una crescita del LOC interno. Mentre si cresce, si sviluppa maggiore controllo sugli eventi, a meno che non si sia cresciuti in famiglie e ambienti oppressivi, o in culture di natura fatalista.

In questo caso, si sviluppa una la fobia di essere puniti qualsiasi cosa si faccia (nella famiglia oppressiva) o la paura di iniziative individuali.

L’iniziativa individuale viene punita nelle culture oppressive, nei comunismi fondamentalisti, nelle religioni punitive, là dove pensare con la propria testa diventa offesa e peste psicologica. Questo scatena un virus di oppressione mentale che si trasforma quindi in paura di fare impresa, di avviare iniziative autonome, di compiere avventure professionali o aziendali, socialmente derise o represse dall’ambiente circostante.

Agire nonostante questi vincoli negativi è eroico.

Per sviluppare un LOC interno gli individui devono riguadagnare il senso di controllo sulle proprie vita attraverso piccoli passi, ed emanciparsi dall’esterno.

Per un adulto, si potrà partire dalla dimostrazione che è possibile ottenere un controllo su alcuni impulsi, o influenzare alcune interazioni interpersonali.

I coach, i genitori e i leader delle imprese hanno tra le proprie aree di intervento quella di aiutare gli individui a credere in se stessi e sviluppare il proprio potere personale positivo. Anche quando questo significa andare contro la propria cultura.
Esistono comunque rischi associati ad un LOC eccessivamente interno: farsi carico di ogni problema esistente, anche dei problemi non propri, sentirsi in colpa di qualsiasi cosa non vada. Ed inoltre: assumersi le responsabilità altrui anche quando non è dovuto, non riuscire a staccare dai propri impegni, non accettare le perdite, non riuscire a staccare dai propri obiettivi per rilassarsi, auto-sfruttarsi e schiavizzarsi, non concedersi tregua, cercare il perfezionismo assoluto anche quando non ha senso farlo.
I rischi opposti del LOC eccessivamente esterno sono: scarsa propensione all’impresa, pressappochismo, poca voglia di fare, nessuna iniziativa, abbandono precoce alle prime difficoltà, ricerca di soluzioni magiche o miracolistiche, scarso ricorso al pensiero logico o scientifico, scaricare le responsabilità sugli altri e non riconoscere le proprie.

Principio 8 – Locus of Control
Le energie mentali diminuiscono o si esauriscono quando:
• l’individuo è sbilanciato su un LOC esterno, assegna a forze esterne l’intera responsabilità degli eventi che lo riguardano, senza percepire quali siano i confini della propria area di azione possibile e di autodeterminazione;
• l’individuo è sbilanciato sul LOC interno oltre la soglia di ragionevolezza, e non accetta margini di errore, assumendosi responsabilità individuale anche su eventi verso i quali non ha reale potere di intervento (rischio di autoflagellazione ingiustificata).

Le energie mentali aumentano quando:
• l’individuo prende coscienza dei confini della propria possibilità di azione e li differenzia correttamente rispetto a quelli cui non ha accesso (fortuna, scenari, caso);
• la persona evita di assumere un atteggiamento di responsabilizzazione inutile verso variabili che non può controllare, e si attiva per quelle che può invece gestire;
• aumenta l’emancipazione personale da modelli genitoriali e culturali appresi e si decide in autonomia quale atteggiamento verso il destino assumere e cosa deve rientrare nelle proprie sfere di autonoma decisionalità e “tentabilità”.

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  • locus of control esterno
  • locus amplificato
  • destino
  • responsabilità
  • fortuna
  • sorte
  • autodeterminazione
  • autoefficacia
  • fatalismo
  • senso di controllo
  • emancipazione
  • Potenziale Umano Veneto
  • Mental Coach
  • Formazione aziendale
  • formazione assistenti sociali
  • formazione educatori
  • supervisione