Il pensiero e le intelligenze artificiali

Alan Turing, matematico, logico e filosofo britannico, ha pubblicato nel 1950 un articolo intitolato Computing and intelligence [1], all’interno della rivista Mind. «Could a machine think[2] è una delle prime domande che ci vengono proposte all’interno di tale articolo: come chiarisce immediatamente l’autore, dovremmo prima definire cosa intendiamo per “macchina” e “pensare”.

Questo test si propone come una variante del gioco dell’imitazione, sostenuto da tre partecipanti: un uomo A, una donna B e un terzo soggetto C, che può essere di uno dei sessi. C si posizionerà in una stanza diversa rispetto agli altri partecipanti: A dovrà cercare di ingannare C, mentre B dovrà cercare di aiutare C, che cercherà di determinare il sesso dei suoi interlocutori. Il test di Turing è stato ideato in modo che una macchina o un’IA si sostituisse ad A. Per evitare che C possa cercare di indovinare chi siano A e B, le risposte alle domande che gli vengono poste saranno dattilografate e potranno essere fornite solo “X è A e Y è B” o il contrario.

Ora, se la sostituzione porta a risultati simili da parte di C su chi sia l’uomo e chi la donna, allora potremmo affermare che la macchina in questione è “intelligente”. In questa situazione, infatti, la macchina non si distingue dal genere umano. Per Turing però questa macchina è da considerarsi capace di pensare e formulare espressioni con un significato. Avvenuta la sostituzione, potremmo chiedere alla macchina: «L’interrogante darà una risposta errata altrettanto spesso di quando il gioco viene giocato tra un uomo e una donna?». Questa domanda diventa così la sostituta della domanda originaria: «Può una macchina pensare?».

Turing, all’interno del suo articolo ci permette di definire un’intelligenza artificiale senza fare riferimento a termini come “macchina” e “pensare”. Come dice Longo, quello che è interessante in questo esperimento non sono le risposte che la macchina può fornirci, bensì il fatto che possiamo ragionare su concetti astratti (soprattutto riferiti ad una macchina) come quelli della mente, dell’intelligenza e del pensiero. [3]

John Searle ha proposto nel 1984 un esperimento mentale chiamato “la stanza cinese” che si pone come scopo quello di confutare la teoria dell’intelligenza artificiale forte. Immaginiamo di porre un uomo, madrelingua inglese, in una stanza con un foglio di carta ricoperto di ideogrammi cinesi. L’uomo in questione non comprende il cinese (né scritto né parlato) e non ha la minima idea di cosa possano significare tali ideogrammi. Come ulteriore prova, aggiunge Searle, supponiamo che quest’uomo non sia nemmeno in grado di distinguere gli ideogrammi cinesi da quelli giapponesi.

Sono semplicemente “meaningless squiggles[4] che tradotto letteralmente significa “scarabocchi insignificanti”. Oltre al primo foglio, ne viene fornito un altro, sempre in cinese, che contiene le regole per mettere in relazione i due fogli: le regole esposte permettono di correlare un insieme di simboli ad un altro insieme di simboli, solamente in base alla loro forma grafica. Infine, viene fornito un altro foglio, contenenti ideogrammi cinesi e le regole (questa volta scritte in inglese) per mettere in relazione i primi due fogli.

Tali regole permetteranno al nostro individuo nella stanza di scrivere determinati ideogrammi in risposta ad altri, contenuti nei primi due fogli. All’uomo verranno fornite anche storie e domande in inglese, a cui (ovviamente) riesce a dare risposta. Supponiamo ora che l’uomo nella stanza diventi abile nella manipolazione dei simboli cinesi e nell’applicazione delle regole a loro collegati, a tal punto che le risposte che otteniamo sarebbero del tutto indistinguibili da quelle che darebbero delle persone di madrelingua inglese.

Nessuno penserebbe che queste risposte in cinese siano state date senza aver la minima conoscenza di tale lingua. Tuttavia, riscontriamo una differenza tra quella che è la risposta tra una persona madrelingua cinese e uno no: l’interpretazione avviene solamente con la lingua inglese, mentre invece con il cinese no! Il comportamento dell’uomo in questo caso è del tutto simile a quello di un calcolatore. Come abbiamo detto precedentemente, la teoria dell’intelligenza artificiale forte sostiene che il calcolatore programmato capisca le storie e che l’insieme di regole che gli sono state fornite garantisca una certa capacità di comprendere cosa ha prodotto in output.

Ma sia nel caso ci sia un uomo o un calcolatore all’interno della stanza, per Searle non c’è differenza: nessuno dei due è in grado di comprendere una sola parola o ideogramma della lingua cinese. Questo significa che per quanto un calcolatore sia accuratamente programmato, questo non gli garantisce di essere considerato al pari di una mente umana.

Per Searle, infatti, la sintassi (grammatica) non è equivalente alla semantica (significato). Il lavoro presentato da Searle all’interno di questo articolo si presenta con l’esposizione della tesi di partenza e nell’esposizione delle obiezioni alla tesi, esattamente come era impostato l’articolo di Alan Turing del 1950.


[1] Avramides, Anita, “Other Minds”, The Stanford Encyclopedia of Philosophy (Summer 2019 Edition), Edward N. Zalta (ed.), URL = https://plato.stanford.edu/archives/sum2019/entries/other-minds/ consultato in data 19 maggio 2020.

[2] Tradotto significa “Può una macchina pensare?”

[3] G.O. Longo. Il test di turing: storia e significato. Mondo Digitale, 2009.

[4] J.R. Searle. Minds, brains and programs. Behavioral and Brain Sciences, 1980.

Author

Formatore e Coach su temi di Sviluppo del Potenziale Personale, Comunicazione Interculturale e Negoziazione Internazionale, Psicologia Umanistica. Senior Expert in HR, Human Factor, Psicologia delle Performance, Comunicazione e Management, Metodologie Attive di Formazione e Coaching.

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