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La risposta dei sistemi

«Pur essendo vero che l’individuo chiuso nella stanza non capisce la storia, sta di fatto che egli è solo parte di un sistema globale e questo sistema capisce la storia. […] la comprensione non viene ascritta all’individuo isolato, bensì al sistema complessivo di cui egli è parte».

[Searle, 1980].

Searle in risposta a questa obiezione propone di far memorizzare al nostro uomo nella stanza tutte le regole in modo da poter affrontare le dovute operazioni di risposta anche al di fuori della stanza. Ma per quanto riguarda la conoscenza del cinese la situazione rimane del tutto invariata: egli non conosce il cinese e nemmeno il sistema di cui adesso fa parte.

La risposta dei Robot

Searle ci suggerisce di immaginare la possibilità di inserire un calcolatore all’interno di un robot molto simile all’uomo: dotato di una telecamera per vedere (simulando gli occhi) e di arti per poter interagire con l’ambiente circostante[1]. Il calcolatore funge come da cervello del robot, per cui lo guida nelle azioni di vita quotidiane (per quanto un robot dotato di cervello possa averle). Ora, è vero che il robot possiede capacità motorie e visive, ma per Searle questo non cambia assolutamente la sua condizione dal punto di vista della comprensione. Il robot continuerebbe ad applicare le regole che gli abbiamo fornito noi per manipolare determinati simboli. Soprattutto, per essere paragonato ad un uomo, dovrebbe essere capace di riprodurre stati causali ed intenzionali: quest’ultima non ha nulla a che vedere con il concetto di volontà e di libertà di azione, ma intende l’attitudine del pensiero al riferirsi ad un oggetto specifico.

La risposta del simulatore del cervello

In questo caso la macchina simulerebbe formalmente il cervello di un cinese, con sinapsi e attività neuronali in risposta alle domande di determinate storie. Se fossimo in grado di replicare un cervello umano, allora esso sarebbe davvero in grado di comprendere le storie. Se così non sarà, allora ammetteremo che tutte le persone di madrelingua cinese non comprendano le storie che gli raccontiamo. Per replicare a questa risposta, Searle propone un controesempio: supponiamo che invece di manipolare simboli cinesi, l’uomo nella stanza debba gestire, tramite un sistema di valvole e rubinetti, il flusso e il deflusso d’acqua in un sistema di tubature. Ogni connessione idraulica corrisponde ad una sinapsi del cervello di una persona madrelingua cinese, e una volta che tutte le valvole sono state aperte in maniera corretta, allora il sistema fornirà la risposta in cinese.  Anche questa volta né l’uomo, né il sistema non possiede assolutamente nessuna comprensione della domanda e della risposta. Se pensassimo il contrario ci ritroveremo esattamente nella condizione già descritta precedentemente nella “risposta del sistema”. Searle conclude affermando che il sistema simula solamente la parte formale delle operazioni che avvengono all’interno del cervello (sinapsi e attività neuronale) e non la parte intenzionale.

La risposta della combinazione

Le precedenti risposte, come è stato analizzato da Searle, non sono riuscite a soddisfare le proprie pretese. Giunti a questo punto, immaginiamo di unirle in un’unica risposta: un robot provvisto di un calcolatore identico ad un cervello umano, in grado di ricreare al suo interno tutte le sinapsi. Questo robot e le sue “componenti” dobbiamo immaginarcele come un unico sistema, e non come una macchina che risponde solo ad input e output. Necessariamente dovremmo attribuire il concetto di intenzionalità al sistema, dovuto al fatto che a primo impatto esso risulta molto simile al comportamento di un uomo. Ma Searle ci propone di immaginare che all’interno del robot ci sia un uomo, che attraverso gli strumenti sensoriali del robot, manipoli determinati simboli formali non interpretati, li elabori seguendo determinate regole e invii le risposte (altri simboli formali non interpretati) agli strumenti motori. A questo punto, se l’uomo all’interno del robot manipola solo i simboli, senza sapere che significato tali operazioni abbiano per la macchina, allora non potremmo conferire uno stato di intenzionalità al sistema. Il robot esegue regole e altro non è che un automa a cui è impossibile attribuire una mente e, quindi, un’intenzionalità. [2]

Risposta delle altre menti

«Come posso determinare il fatto che una persona capisca il cinese o qualsiasi altra cosa?». In linea di massima potremmo capirlo nel caso il calcolatore superi delle prove comportamentali come fosse un uomo: se siamo disposti ad attribuire capacità cognitive a questi ultimi, dovremmo farlo anche per il calcolatore. Nonostante per Searle questa obiezione non colga il punto centrale trattato all’interno della stanza cinese, è giusto, a suo avviso, considerarla data la sua frequenza. Per Searle «non è come io so che le altre persone hanno stati cognitivi, ma piuttosto che cosa è che io attribuisco loro quando li accredito di stati cognitivi».[3] Per lui, anche in assenza di stati cognitivi è possibile ottenere input e output corretti. Il problema delle altre menti è un tema filosofico tradizionale, di tipo epistemologico, nel quale ci chiediamo come poter determinare il fatto che altri esseri umani abbiano pensieri, sentimenti e attributi mentali.[4]

La risposta delle molte dimore

Secondo tale replica in futuro sarà possibile costruire robot, calcolatori o macchine in generale in grado di possedere quei processi causali che Searle considera fondamentali per poter attribuire l’intenzionalità.[5] Per Searle invece questa replica pecca sul fatto di ridefinire il concetto che inizialmente avevamo definito di Intelligenza Artificiale: tale progetto era nato per “creare” dei processi mentali a partire da processi di calcolo. Impossibile dare una risposta a tale obiezione dal momento che si discosta totalmente con le premesse originarie.

Queste obiezioni e le relative risposte all’argomento proposto da Searle, evidenziano come una delle caratteristiche fondamentali per determinare il fatto che una macchina possa o meno pensare è determinato dal concetto di intenzionalità, e dal significato delle azioni che la macchina compie. Come potremmo pensare che un determinato calcolatore operi senza conoscere il significato delle sue azioni, senza che abbia una coscienza di esse?


[1] John R. Searle.  Menti, cervelli e programmi, traduzione di Graziella Tonfoni, 1984, pp. 57-58.

[2] Larry Hauser, Chinese room argument, 2001, p. 4.

[3] John R. Searle, Menti, cervelli e programmi, traduzione di Graziella Tonfoni, Milano, 1984, p. 63.

[4] https://plato.stanford.edu/entries/other-minds/#BestExpl, consultato in data 20 giugno 2020.

[5] Larry Huser, Chinese room argument, 2001, p. 5.


Il pensiero e le intelligenze artificiali

Alan Turing, matematico, logico e filosofo britannico, ha pubblicato nel 1950 un articolo intitolato Computing and intelligence [1], all’interno della rivista Mind. «Could a machine think[2] è una delle prime domande che ci vengono proposte all’interno di tale articolo: come chiarisce immediatamente l’autore, dovremmo prima definire cosa intendiamo per “macchina” e “pensare”.

Questo test si propone come una variante del gioco dell’imitazione, sostenuto da tre partecipanti: un uomo A, una donna B e un terzo soggetto C, che può essere di uno dei sessi. C si posizionerà in una stanza diversa rispetto agli altri partecipanti: A dovrà cercare di ingannare C, mentre B dovrà cercare di aiutare C, che cercherà di determinare il sesso dei suoi interlocutori. Il test di Turing è stato ideato in modo che una macchina o un’IA si sostituisse ad A. Per evitare che C possa cercare di indovinare chi siano A e B, le risposte alle domande che gli vengono poste saranno dattilografate e potranno essere fornite solo “X è A e Y è B” o il contrario.

Ora, se la sostituzione porta a risultati simili da parte di C su chi sia l’uomo e chi la donna, allora potremmo affermare che la macchina in questione è “intelligente”. In questa situazione, infatti, la macchina non si distingue dal genere umano. Per Turing però questa macchina è da considerarsi capace di pensare e formulare espressioni con un significato. Avvenuta la sostituzione, potremmo chiedere alla macchina: «L’interrogante darà una risposta errata altrettanto spesso di quando il gioco viene giocato tra un uomo e una donna?». Questa domanda diventa così la sostituta della domanda originaria: «Può una macchina pensare?».

Turing, all’interno del suo articolo ci permette di definire un’intelligenza artificiale senza fare riferimento a termini come “macchina” e “pensare”. Come dice Longo, quello che è interessante in questo esperimento non sono le risposte che la macchina può fornirci, bensì il fatto che possiamo ragionare su concetti astratti (soprattutto riferiti ad una macchina) come quelli della mente, dell’intelligenza e del pensiero. [3]

John Searle ha proposto nel 1984 un esperimento mentale chiamato “la stanza cinese” che si pone come scopo quello di confutare la teoria dell’intelligenza artificiale forte. Immaginiamo di porre un uomo, madrelingua inglese, in una stanza con un foglio di carta ricoperto di ideogrammi cinesi. L’uomo in questione non comprende il cinese (né scritto né parlato) e non ha la minima idea di cosa possano significare tali ideogrammi. Come ulteriore prova, aggiunge Searle, supponiamo che quest’uomo non sia nemmeno in grado di distinguere gli ideogrammi cinesi da quelli giapponesi.

Sono semplicemente “meaningless squiggles[4] che tradotto letteralmente significa “scarabocchi insignificanti”. Oltre al primo foglio, ne viene fornito un altro, sempre in cinese, che contiene le regole per mettere in relazione i due fogli: le regole esposte permettono di correlare un insieme di simboli ad un altro insieme di simboli, solamente in base alla loro forma grafica. Infine, viene fornito un altro foglio, contenenti ideogrammi cinesi e le regole (questa volta scritte in inglese) per mettere in relazione i primi due fogli.

Tali regole permetteranno al nostro individuo nella stanza di scrivere determinati ideogrammi in risposta ad altri, contenuti nei primi due fogli. All’uomo verranno fornite anche storie e domande in inglese, a cui (ovviamente) riesce a dare risposta. Supponiamo ora che l’uomo nella stanza diventi abile nella manipolazione dei simboli cinesi e nell’applicazione delle regole a loro collegati, a tal punto che le risposte che otteniamo sarebbero del tutto indistinguibili da quelle che darebbero delle persone di madrelingua inglese.

Nessuno penserebbe che queste risposte in cinese siano state date senza aver la minima conoscenza di tale lingua. Tuttavia, riscontriamo una differenza tra quella che è la risposta tra una persona madrelingua cinese e uno no: l’interpretazione avviene solamente con la lingua inglese, mentre invece con il cinese no! Il comportamento dell’uomo in questo caso è del tutto simile a quello di un calcolatore. Come abbiamo detto precedentemente, la teoria dell’intelligenza artificiale forte sostiene che il calcolatore programmato capisca le storie e che l’insieme di regole che gli sono state fornite garantisca una certa capacità di comprendere cosa ha prodotto in output.

Ma sia nel caso ci sia un uomo o un calcolatore all’interno della stanza, per Searle non c’è differenza: nessuno dei due è in grado di comprendere una sola parola o ideogramma della lingua cinese. Questo significa che per quanto un calcolatore sia accuratamente programmato, questo non gli garantisce di essere considerato al pari di una mente umana.

Per Searle, infatti, la sintassi (grammatica) non è equivalente alla semantica (significato). Il lavoro presentato da Searle all’interno di questo articolo si presenta con l’esposizione della tesi di partenza e nell’esposizione delle obiezioni alla tesi, esattamente come era impostato l’articolo di Alan Turing del 1950.


[1] Avramides, Anita, “Other Minds”, The Stanford Encyclopedia of Philosophy (Summer 2019 Edition), Edward N. Zalta (ed.), URL = https://plato.stanford.edu/archives/sum2019/entries/other-minds/ consultato in data 19 maggio 2020.

[2] Tradotto significa “Può una macchina pensare?”

[3] G.O. Longo. Il test di turing: storia e significato. Mondo Digitale, 2009.

[4] J.R. Searle. Minds, brains and programs. Behavioral and Brain Sciences, 1980.