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il potenziale umano

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Articolo estratto con il permesso dell’autore dal testo di Daniele TrevisaniIl potenziale umano. Metodi e tecniche di coaching e training per lo sviluppo delle performance”. Franco Angeli editore, Milano.

Uno stress è un evento negativo se le condizioni energetiche dell’indivi­duo o del sistema non sono all’altezza della sfida.

Ciò che conta ai fini della crescita e del coaching è che le intensità (allenanti, o formative) siano di portata adeguata (né troppo deboli, né devastanti e impossibili da gestire), e che lo stress venga prodotto in modo consapevole (stress conscio, volontario, progettato, ingegnerizzato) e non involontariamente subito.

Lo stress deve quindi essere metabolizzato, utilizzato per crescere, progettando non solo la fase di stress ma anche e soprattutto le tecniche per il recupero psicofisico, la rielaborazione mentale dell’accaduto, e le modalità migliori di ri-generazione successiva agli stressor.

Il ciclo allenante e la sequenza allenante

La creazione di schemi motori fisici nel training manageriale e sportivo è uno degli aspetti più trascurati. Molti training manageriali diffondono concetti ma non allenano l’azione correlata alla loro messa in pratica. Non si sviluppano quindi gli schemi motori verbali e fisici, l’abitudine a parlare in un modo diverso, o a rispondere con diversi comportamenti.

L’active training o formazione esperienziale è una modalità di training in cui viene creata azione, per generare e allenare schemi motori fisici e schemi linguistici. Averli agiti in prima persona permette di poter ripescare dai propri repertori di memoria molto più rapidamente i comportamenti e le abilità, mentre la sola osservazione non lo fa.

Per ciclo allenante, quindi, non si intende solo la pratica di azioni sul piano esclusivamente muscolare o fisico. Può entrare in una sessione allenante anche la pratica di azioni verbali fisicamente poco impegnative, es: imparare a rispondere in modo diverso ad una frase che in genere ci mette in difficoltà, farlo attivamente e ripetutamente, sino alla sua assimilazione completa negli schemi verbali e comportamentali.

Le azioni che vengono praticate in modo diverso possono sbloccare gli schemi precedenti.

Rimanendo sul versante fisico, al termine del ciclo allenante (composto da stress positivo, alimentazione, e recupero/riposo), gli organi o le funzioni mentali o comunicative che hanno lavorato adeguatamente saranno più forti rispetto alla situazione di partenza.

Il lavoro allenante si basa sul principio di supercompensazione: una ricarica di energie che porta lo stato post-training ad un livello superiore rispetto allo stato pre-training. Con stimoli allenanti corretti, la ricostruzione è lievemente superiore rispetto alla distruzione.

Supercompensando le strutture messe in crisi, l’organismo si prepara ad affrontare nuove crisi simili. Questo accade nello sviluppo muscolare (prodotto da attività di forza), nell’abbronzatura (sviluppo della melanina per far fronte alla radiazione solare), nella resistenza aerobica (nella corsa, sci, etc.), e in generale in ogni utilizzo della macchina biologica umana.

Nel caso del culturismo, il funzionamento è estremamente evidente: il muscolo, messo in crisi da un esercizio intenso (stato di depletion, esaurimento),  ricostruisce e supercompensa le proprie strutture per prevenire il ripetersi di un fatto analogo, quindi il volume e la forza del muscolo aumentano. Si potenziano inoltre tendini e densità ossea.

Anche in un training manageriale i principi sono gli stessi: sulla negoziazione, ad esempio, il soggetto, messo in crisi dai trainer con esercizi adeguati, raggiunge lo stato di depletion (scarica). Il debriefing (esame di quanto accaduto), la scoperta di errori compiuti e aree di miglioramento, lo studio successivo, la prova di nuovi comportamenti e schemi conversazionali più efficaci, immettono nutrimento conoscitivo, permettono di recuperare, capitalizzare l’esperienza e trovarsi più forti nelle sfide reali che si incontreranno.

Chiunque abbia frequentato palestre o svolto attività sportive sa bene che i meccanismi di crescita e supercompensazione richiedono tempo, e dopo una singola sessione non si noterà alcuna forte differenza rispetto alla precedente: solo la ripetizione nel tempo e la costanza premiano realmente.

Il lavoro serio richiede costanza.

Le condizioni affinché avvenga la crescita bioenergetica sono evidenziate nel principio seguente:

Principio 21 – Depletion, supercompensazione e condizionamento

La crescita delle energie fisiche richiede sessioni allenanti programmate tali da produrre depletion (esaurimento consapevole) e – obbligatoriamente  – successivo recupero, inducendo supercompensazione (meccanismo in cui l’attività di rigenerazione supera l’attività di distruzione).

L’effetto ricercato è il condizionamento (conditioning): aumento della capacità organismica di sostenere stress e condizioni di difficoltà, capacità aumentata di resistere a stimoli di portata superiore.

Il condizionamento può essere:

  • ad obiettivo generalizzato: maggiore resistenza/energia dell’intero sistema corporeo (intervento sull’economia complessiva dell’organismo);
  • ad obiettivo localizzato: maggiore resistenza/energia di una specifica area o funzione (intervento sull’economia locale di un distretto fisico o cognitivo).

La supercompensazione dipende:

  • dalla qualità dello stimolo allenante, sia esso basato su una singola stimolazione o invece in forma di serie allenante o “circuito allenante” (circuit training);
  • dalla qualità del programma di rigenerazione, recupero e riposo, rielaborazione, tra una sessione allenante e l’altra.

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Lo stress allenante e la legge della supercompensazione

Il fisiologo Hans Seyle (autore del concetto di stress), nei suoi studi pionieristici sul funzionamento dell’essere umano in condizioni gravose[1], ha sviluppato la teoria della Sindrome Generale di Adattamento (General Adaptation Syndrome, GAS).

Secondo la teoria, l’organismo risponde agli stress in funzione della loro intensità, con il tentativo di fondo di trovare il modo di adattarsi agli stress, rafforzarsi strutturalmente, e rendersi più pronti ad affrontare futuri stress simili.

Offrendo una sintesi che integra fisiologia e psicologia, un meccanismo generale di risposta allo stress è il seguente:

stadio di allarme: le sollecitazioni (stressor) impattano il sistema e possono venire subite o (al contrario) possono avviarsi meccanismi di difesa;

stadio di resistenza: l’organismo si attiva al massimo per far fronte alle maggiori richieste e combatte gli stress utilizzando le energie disponibili (accesso alle fonti e riserve energetiche);

stadio di esaurimento: gli organi interessati dallo stress esauriscono le proprie energie;

stadi di recupero energetico e ripristino dei danni subiti.

La fisiologia e psicologia dell’essere umano (come in larga parte degli appartenenti al regno animale) risponde alla legge della supercompensazione: dato (1) uno stimolo allenante sufficiente, e (2) un adeguato tempo e modo di recupero (condizioni ottimali ambientali, di alimentazione, di riposo) gli organi o distretti allenati risponderanno con uno sviluppo che li porta di volta in volta a livelli leggermente superiori rispetto al punto di partenza.

Micro-crescita dopo micro-crescita, l’organismo nel complesso (o il distretto o competenza allenata) diventano più forti.

Una sessione allenante, a differenza di uno stress subito involontariamente, si pone l’obiettivo di ingegnerizzare tipo ed intensità di stress e stimoli, affinché la supercompensazione accada e potenzi le aree lavorate (fisiche o mentali). Ingegnerizzare lo stimolo significa progettare intensità e recupero.

Gli incrementi di sessione in sessione sono minimali, ma nel medio e lungo periodo, sessione dopo sessione, gli effetti diventano cumulativi ed enormi.

Il corpo sottoposto a stress allenante (di portata affrontabile) migliora le proprie difese nelle strutture e funzioni interessate, che possono essere muscolari, respiratorie, articolari, aerobiche, anaerobiche, di coordinamento

Anche la mente, sottoposta a training di intensità adeguata, reagisce aumentando le proprie capacità cognitive, le connessioni neurali, gli schemi concettuali e gli schemi motori che permetteranno di fronteggiare lo stesso tipo di sfida o stress simili in futuro.


[1] Vedi: Selye, H. (1956), The Stress of Life, McGraw-Hill, New York.

Selye, H. (1976), Stress in health and disease, Butterworth, Reading, MA.

Selye, H. (1982), History and present status of the stress concept, in L. Goldberger, S. Breznitz (Eds.), Handbook of Stress: Theoretical and Clinical Aspects, The Free Press, New York.

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Come funziona e che tipologie conosciamo

Il training psicoenergetico consiste nel lavoro mirato e finalizzato ad incrementare le energie psichiche.

Il confine tra training psicoenergetico e terapia è in alcuni casi molto evidente, in altri labile, in altri casi si evidenziano sovrapposizioni.

In ogni caso, il training psicoenergetico si prefigge di portare il soggetto ad una maggiore condizione di sane energie psicologiche, autorealizzazione, potenziamento, nella direzione di ciò che egli stesso considera “miglioramento”, o, come evidenzia Rogers, ad aumentare il livello di potere personale che deriva dalla riduzione della confusione interiore.

Il training psicoenergetico ha una forte componente terapeutica poiché si prefigge di rimuovere i blocchi e cambiare modalità di pensiero disfunzionali per il soggetto, e tuttavia non è assolutamente limitato alla terapia. Ad esempio può usufruire del training psicoenergetico un atleta di livello mondiale, ma anche di livello amatoriale, che non presenti problemi particolari o patologie di tipo psicologico o emozionale, ma sia comunque intenzionato a migliorare le proprie prestazioni ricorrendo ad migliore gestione delle energie psichiche.

Nessun essere umano è perfetto, e lo stesso concetto di perfezione è variabile e indefinito.

I livelli nei quali si può cominciare a parlare di terapia e non più di formazione o sviluppo non sono assolutamente fissi, ed è oramai consolidato (vedi Goffman) che la devianza sociale e la malattia psichica sono gran parte frutto di una valutazione sociale e culturale.

In tempi storici o culturali di iperproduttività, può essere considerato anomalo un soggetto che “si rilassa” o non produce reddito tutto il giorno, ma al contrario può succedere che una persona estremamente dedita al lavoro venga inquadrata come malata (workaholic), da parte di una cultura più spirituale o votata alla ricerca di maggiore equilibrio tra vita e lavoro (work-life balance).

La psicoenergetica quindi deve per quanto possibile evitare di imporre sovrastrutture rigide al percorso di sviluppo delle energie psichiche (es.: sii più produttivo, o al contrario, sii più rilassato, etc., come se questi messaggi andassero bene per tutti) ma aiutare il soggetto a crescere in una direzione di maggior benessere soggettivo, che deriva unicamente da un’analisi dell’in­dividuo, caso per caso. Esistono alcuni parametri universali, salute fisica rispetto di se e degli altri, che fanno comunque da sfondo a qualsiasi lavoro.

Liberare il potenziale dai blocchi crea maggiori capacità di sviluppare il proprio essere, in qualsiasi direzione esso sia: l’ambizione di voler essere un buon padre, un buon manager, un buon atleta, un buon insegnante, il desiderio di voler essere più rilassati, o più attivi e dinamici, o più lucidi mentalmente o e altri stati soggettivi definibili come condizione-target.

Il training psicoenergetico procede – come per il training bioenergetico – tramite sessioni ed esercizi.

Il training psicoenergetico allena diverse porzioni separate, con lo scopo di eliminare i blocchi prioritari responsabili del mancato raggiungimento del potenziale.

Possiamo quindi avere diversi tipi di training, ad esempio:

  • un training sulla cultura dei confini: imparare a dividere e separare le attività, concentrare le energie mentali nello spazio e nel tempo in modo diversificato, imparare a concentrarle su un obiettivo rimuovendo le distrazioni e distorsioni, imparare a riconoscere i propri ruoli multipli, a capire quando un ruolo deve rimanere “zitto” e lasciare spazio ad altri;
  • un training sulla riduzione dell’ansia: l’ansia, abbiamo visto, è un correlato tra livelli di attivazione elevata (arousal) e emozioni negative. Possiamo imparare a mantenere alto il grado di attivazione, spostando invece il baricentro emotivo verso le emozioni positive, ad esempio vivere con gioia una gara, un discorso in pubblico, un viaggio in aereo, e altre condizioni specifiche che per la persona producono ansia;
  • un training sulla gestione dello stress: imparare i meccanismi di riconoscimento del proprio grado di stress, imparare le tecniche di rilassamento, imparare le tecniche di dissipazione dello stress attraverso attività fisiche intense o blande, imparare a costruire e seguire una tabella di stile di vita (lifestyle) e stile di pensiero (thinkstyle) che abbassino i livelli di stress;
  • un training sulle action lines (costruire linee di azioni efficaci verso i propri obiettivi) che aumenti la lucidità tattica, le prioritization skills (tecniche per inquadrare le priorità): imparare tecniche per rivedere le priorità, ricentrare gli obiettivi, focalizzare bene le linee d’azione che possono creare risultato;
  • un training sulle capacità di percezione e timing, ovvero sulla capacità di percepire in modo aumentato e di intervenire nel momento giusto, sulle situazioni nelle quali si deve agire.

Ciascun tipo di intervento deve essere consolidato in uno sfondo scientifico (un modello di intervento) e deve essere portato allo stato della comprensione da parte del soggetto, amplificato nel senso, anche tramite metafore, aforismi, studio di casi. Le azioni ed attività elencate sono puramente indicative, ogni area che abbiamo menzionato, attiva nel produrre o ridurre energie mentali, è suscettibile di essere esercitata, allenata, lavorata, anche e soprattutto con l’aiuto di coach, trainer o counselor professionali.

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Superare le situazioni di stress e fatica aumenta l’apprendimento

Esistono apposite tecniche denominate “tecniche di intensità” che puntano a far rimanere la persona entro la zona allenante di picco, per più tempo di quanto normalmente possibile. Tra queste:

In campo sportivo:

  • ripetizioni forzate: nell’uso di pesi, essere aiutati da qualcuno a completare qualche altra ripetizione dopo l’avvenuto cedimento, soprattutto nella fase iniziale del movimento, per sfruttare le energie residue;
  • carichi discendenti: il peso viene diminuito immediatamente dopo il cedimento, continuando a lavorare con un carico minore, con diminuzioni progressive sino allo sfinimento della zona allenata;
  • contrazioni di picco: mantenere la contrazione per alcuni secondi nel punto di massimo sforzo o in altro punto di forte intensità;
  • cheating: aiuto di altre parti del corpo per compensare il cedimento di una zona muscolare che ha esaurito le forze;
  • serie di preaffaticamento: esercizi finalizzati a pre-affaticare una zona muscolare, affinché gli esercizi successivi siano più difficili e intensi;
  • serie parziali: compiere solo la parte di movimento che rimane con le forze residue, anche se esse non sono più sufficienti a produrre l’intero mo­­vimento;
  • attività residuali: compiere solo le azioni di dispendio basso, rese possibili dalla poche energie rimaste. Es.: nella boxe, continuare a fare shadow boxing o “vuoto”, o solo movimenti di gambe, quando le energie per com­bat­tere sono esaurite, o per un corridore, continuare con una corsa leggerissima per qualche tempo al termine di una corsa intensa;
  • attività complementari: continuare a far lavorare un’area con un movimento alternativo, dopo che le forze sono esaurite sul movimento primario, es.: superset tra distensioni su panca e croci, per lo sviluppo dei pettorali;
  • superset: attività diverse condotte in sequenza, con pause minimali;
  • circuit training: circuiti allenanti con ampia varietà di esercizi.

La combinazione e permutazione di queste tecniche di intensità può amplificare ancora di più il tempo trascorso nella zona allenante e creare potenziamento elevato.

L’atleta deve prolungare il proprio allentamento oltre la soglia abituale, con una strategia programmatica, alternando fasi di sforzo elevato e fasi di recupero efficace, con riposo di qualità, alimentazione di qualità, intervalli intelligenti tra sforzo e recupero, fasi di rilassamento.

Lo stesso meccanismo avviene nell’apprendimento delle competenze relazionali e comunicative, come l’apprendimento di una lingua: vi sono momenti e fasi in cui ci si avvicina al senso di fatica, e una conversazione diventa difficile e dispendiosa. In molti gruppi di studenti all’estero si nota la tendenza a sfuggire da questo tipo di fatica e fare congrega tra connazionali, per evitare il disagio e la difficoltà di interazione in un lingua che si padroneggia poco. L’approccio di chi invece ricerca attivamente conversazioni con i madrelingua è quello di una consapevolezza: più si affronteranno parole nuove e sconosciute più si apprende, più si starà lontani dai connazionali più si farà una vera immersione linguistica (apprendimento in full-immersion), anche se inizialmente difficile.

Altrettanto vale nelle capacità manageriali: ogni capacità manageriale è frutto di apprendimento, e questo passa attraverso la gestione di situazioni di stress e fatica, superate, rielaborate e utilizzate come apprendimento (gestire una riunione difficile, parlare in pubblico, elaborare dati, prendere decisioni, esercitare la leadership in contesti sfidanti).

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“No pain, no gain”

Accanto alla abilità di trasformazione del vissuto del dolore, e gestione delle proprie forze, troviamo la capacità di percepire finemente il tipo di dolore o fatica in corso e distinguerne le tipologie.

Il dolore (negativo) di una articolazione infiammata è completamente diverso dal dolore di un muscolo in fase di allenamento intenso.

Continuare ad allenare un articolazione infiammata è distruttivo, avere questo tipo di dolore non è un obiettivo, è il dolore che porta alla distruzione. Il dolore muscolare positivo ha una sua riconoscibilità. L’atleta viene allenato e apprende a distinguere diversi tipi di dolore, quello che si accompagna ad un trauma, quello da fatica (es. acido lattico) e quello che fa crescere.

Lo stesso vale per la fatica mentale, la fatica che distrugge e quella che fa crescere hanno colori diversi e bisogna imparare a riconoscerle.

Esiste un dolore mentale legato al cambiamento di abitudini, e la psicoterapia porta spesso a momenti di dolore legato ad uno stacco dalle proprie abitudini consolidate.

Anche lo studio può portare fatica ma successivo appagamento.

Il dolore e la fatica possono anche riguardare l’intero corpo, e non zone specifiche, come in sport completi quali la boxe, il nuoto, il tennis e altri. Il senso generale di affaticamento pervade tutto il corpo. Vivere entro questo stato e continuare a lavorare entro lo stato è una competenza mentale.

La crescita di un bodybuilder si costruisce proprio tramite esaurimenti programmati. Avviene unicamente quando il muscolo viene portato ad esaurire le proprie energie sino (o vicino) al punto di cedimento, il punto in cui non si riesce più a muovere un certo carico allenante.

Questo sfinimento programmatico produce dolore, e il recupero successivo produce crescita.

Un celebre motto del pluricampione del mondo Arnold Schwarzenegger, in campo agonistico, recita “no pain, no gain”, cioè senza dolore non c’è crescita. Messaggio utile in alcune fasi di preparazione, ma pericoloso se applicato da incoscienti o preso come religione di vita da applicare in ogni campo e momento.

Attenzione: il fattore di crescita non è il dolore in sé. Non è il dolore a far crescere, ma il tipo di lavoro e di sforzo intenso necessario. Spesso questo sforzo si accompagna a stati dolorosi, soprattutto nella parte finale degli esercizi. Un coaching di qualità deve anche lavorare sulle training experience, le esperienze e sensazioni allenanti, e far capire il valore e il piacere che si può legare a questi momenti di fatica in cui però si genera crescita.

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Quando lo sforzo e la fatica sono positivi per raggiungere un fine

La preparazione e il training necessari per ottenere crescita sono spesso accompagnati da sforzo fisico e fatica mentale.

Questo tipo di sforzo può arrivare anche a superare la soglia del dolore.

Nella concezione classica,  il rapporto fisiologico dell’uomo con il dolore è di evitazione, salvo i casi patologici di masochismo.

Chi affronta il dolore e la fatica volontariamente rientra nella sfera degli eroi, o dei martiri, o dei coraggiosi e impavidi.

Per il performer è utile differenziare il tipo di dolore utile dall’inutile, localizzare il dolore distruttivo da quello associato alla crescita.

Il dolore distruttivo è quello che danneggia ma non crea, il dolore gratuito, o un trauma, come lo strappo di un muscolo.

Il dolore costruttivo è quello che funziona da rito di passaggio, una sofferenza che accompagna una crescita, un dolore senza il quale non è raggiungibile un livello successivo.

Sono sofferenze coscienti, ad esempio, i ricordi dolorosi necessari per la rielaborazione difficile di un brano del proprio passato con il quale non erano stati fatti i conti, o sul piano fisico un dolore associato ad uno sforzo muscolare intenso ma praticato coscientemente, vissuto in fase di allenamento e di performance.

Osserviamo la seguente testimonianza sulle tecniche di intensità utilizzate dal pluricampione di bodybuilding Arnold Schwarzenegger:

… utilizzavo anche altre tecniche, per sfruttare ogni briciola di intensità e stimolare la crescita. A parte le ripetizioni forzate, eseguite con l’aiuto di un compagno, le mie tecniche preferite erano la contrazione di picco e quella che io definivo “azione di pompaggio”. La prima consiste semplicemente nel mantenere la posizione superiore di ogni ripetizione … per 3 -4 secondi prima di scendere. Si tratta di una tecnica molto dolorosa, ma io ho sempre goduto di quel bruciore, sapendo che mi avrebbe fatto crescere[1].

La carriera del campione del mondo di bodybuilding Schwarzenegger, la sua capacità di avere successo anche in campi diversi, persino in politica come Governatore della California, parte da uno scantinato del piccolo borgo in cui nasce, in Austria, antro nel quale egli si allenava anche d’inverno senza riscaldamento. Saper andare avanti anche nella fatica e senza molti comfort ha permesso di forgiare doti di resistenza e spessore morale elevati. Anche la sua carriera nell’industria cinematografica è da lui stesso attribuita alla capacità acquisita nello sport di lavorare intensamente e impegnarsi a fondo.

Alcuni momenti di sofferenza accompagnano il raggiungimento di un goal, mentre il dolore gratuito ed inutile come quello che si può soffrire da un dentista non è positivo, così come non lo è lo stress distruttivo, il continuo “stare nella fatica” senza tregue. Ma nemmeno fuggirla sempre è utile.

Molti atleti di picco citano il “piacere del dare tutto”, dal fare fatica, e lo associano al concetto di “svuotarsi” fisicamente e mentalmente in modo positivo, avviando una sorta di “pulizia” dalle scorie mentali e fisiche, resa possibile dalla totale concentrazione e dall’intensità. Uno svuotamento che lascia spazio ad uno stato di benessere successivo, riposo e recupero indispensabili, senza i quali la fatica precedente diventa solo dannosa.

Tutti sappiamo che la preparazione in qualsiasi campo richiede impegno e questo può anche diventare fatica, sforzo. La soglia tra utilizzo positivo del dolore e patologia sta proprio nel grado di consapevolezza: sapere di lavorare in condizione di dolore entro un range di dolore ragionato, con un criterio di crescita e con un programma positivo di sviluppo.

I migliori atleti utilizzano un trucco mentale: la trasformazione del dolore da troppo negativo a compagno di viaggio in un percorso di crescita. In alcuni ambiti, la sua assenza diventa utile anche per segnalare la mancanza di un impegno allenante sufficiente e consistente.


[1] Schwarzenegger, A. (2007), I primi 60 anni, Muscle and Fitness.

Osserviamo questa testimonianza su Dean Karnazes, specialista in ultramaratone. Ad oltre 40 anni ha stabilito record quali la corsa ininterrotta per 80 ore percorrendo 563 km, e la sfida di resistenza denominata North Face Endurance, consistente nel correre una maratona al giorno per 50 giorni, qualcosa di disumano anche per corridori professionisti.

(Intervistatore): Che rapporto ha col dolore fisico?

(Karnazes): Ho imparato ad accettarlo. In genere nessuno cerca il dolore, tutti vogliono la felicità, la comodità. Nella cultura occidentale il dolore viene spesso associato a qualcosa di negativo. Nell’ultramaratona il dolore ti accompagna sempre, è una sfida da superare, ma che ti fa sentire vivo[1].

[1] Aiello, E. (2007), Dean Karnazes, Sport Week, la Gazzetta dello Sport, 1 /09/2007, p. 28

Osserviamo anche in questo passaggio una trasformazione completa della percezione, una Gestalt Switch (salto di paradigma): dal dolore come punizione al dolore associato ad un momento di crescita, come risorsa.

Karnazes cita tra i propri fattori di motivazione la scomparsa della sorella Pary, deceduta a 18 anni, e gli insegnamenti del padre “che mi ha insegnato a vedere lo sport come un modo per dare il meglio di me stesso”, o messaggi formativi di imprinting ricevuti da preparatori, come il coach Cummings “il coach di cross all’epoca delle scuole superiori mi ha inculcato una regola: non correre con le gambe, corri con il cuore”.

In generale, i motori psicologici che producono impegno morale sono diversi, dalla sfida con se stessi alla ricerca interiore, possono includere potenti messaggi genitoriali, sino al riscatto psicologico o la promessa d’onore.

In ogni caso, numerose persone sono sottoposte a stimolazioni psicologiche forti ma non tutte (anzi pochissime) compiono le elaborazioni mentali interiori che li portano a utilizzare correttamente questi stimoli. L’individuo e le sue scelte, la sua volontà, al di la dell’ambiente e degli stimoli, giocano un ruolo cruciale.

Il messaggio che vogliamo lanciare qui è complesso:

non è bene accettare la fatica come condizione esistenziale permanente, è  distruttivo, soffrire per soffrire non è il fine dell’umanità;

è bene accettare anche con gioia momenti o periodi di sforzo, anche inten­so, e fatica correlata, per raggiungere un certo fine;

la fatica va realizzata con grande consapevolezza delle proprie risorse (self-monitoring), con tempi e modalità di recupero adeguati. Solo con que­ste attenzioni si potrà utilizzare  la fatica come alleata, senza che essa distrugga chi la affronta spesso e a dosi elevate senza recupero.

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Articolo estratto con il permesso dell’autore dal testo di Daniele TrevisaniIl potenziale umano. Metodi e tecniche di coaching e training per lo sviluppo delle performance”. Franco Angeli editore, Milano.

Perché avere valori forti migliora la presa di decisione

Disporre di valori forti, di ideali e principi guida, è una delle principali fonti di energie mentali.

Il decision making (presa di decisione) è una delle attività più energicamente dispendiose e pertanto diventa necessario apprendere come ottimizzare le energie decisionali.

Correlare i due fattori (valori e decisione) permette di ridurre lo sforzo decisionale e attivare il commitment (massimo impegno e dedizione verso l’obiettivo, senza tentennamenti).

Principio 20 – Valori personali, commitment e decision making

Le energie mentali diminuiscono o si esauriscono quando:

  • l’individuo non ha valori guida che indirizzano le grandi scelte da prendere (vuoto di valori, crisi di senso, assenza di ideali);
  • l’individuo intraprende un’azione o obiettivo con riserve e non riesce a produrre il necessario commitment (impegno personale).

Le energie mentali aumentano quando:

  • l’individuo localizza (e viene supportato a farlo) grandi valori guida e ideali, che aiutano ad indirizzarne le grandi scelte;
  • le strategie e percorsi intrapresi vengono assunti con vigore e impegno (commitment), sino al compimento, o all’eventuale fallimento, dirottando successivamente le energie verso nuovi progetti e stimoli.

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Lo sviluppo delle energie mentali richiede apertura verso il rischio

Tra le capacità mentali fondamentali vi è la percezione corretta del rischio, la determinazione dello stato di approssimazione o indeterminatezza accettabile, e il saper misurare correttamente le proprie energie e risorse.

Tra le abilità identificabili:

  • analisi interna: saper misurare la quantità di risorse che abbiamo dentro o possiamo attivare (self check-up);
  • analisi esterna: saper inquadrare le energie e risorse necessarie in un determinato task o compito (task check-up);
  • analisi interattiva: saper correlare le due aree, interna ed esterna, per capire se e quanto siamo all’altezza della sfida che ci aspetta (challenge check-up).

Lo sviluppo delle energie mentali richiede una dose di apertura verso il rischio. È da considerare come positivo un rischio calcolato e la presenza di un margine di errore, ma non un rischio assoluto e imponderabile, come il salire una vetta e non sapere se si avranno le forze per scendere.

Il rischio è elemento centrale del concetto di “impresa” (“compiere impre­se”), di “intraprendenza” (intraprendere un cammino, un percorso, un’av­ven­tura), di goal sfidante (una sfida non sarebbe tale se si fosse certi al 100% di raggiungere lo scopo, sarebbe solo routine).

Subire fallimenti ripetuti in genere diminuisce le energie mentali, pertanto il risk management (gestione) richiede adeguate doti di risk assessment (va­lutazione della portata del rischio in relazione alle proprie risorse).

Prevedere alcuni fallimenti prima di arrivare ad un certo risultato è utile per far si che il fallimento non diventi sconfitta, negazione di sé.

Anche il concetto di fallimento tuttavia può e deve essere gestito per trarne energie.

Culture aziendali e regionali che premiano il rischio offrono, di chi ha fallito in un progetto di business, una connotazione positiva.

In alcune aree della Silicon Valley, culla californiana della rivoluzione informatica, si usava affermare che un imprenditore che non avesse fallito almeno 2 o 3 volte non “avesse le palle”. In altre parole, chi non avesse mai rischiato, non sarebbe stato degno di essere chiamato “imprenditore”.

Altre culture invece tendono a inibire e bloccare la propensione al rischio d’impresa. In questi territori psicologici e sociali, i genitori preferiscono che i figli cerchino l’assunzione nelle strutture statali e pubbliche (più sicure) piuttosto che la creazione di impresa autonoma.

Questo tende naturalmente a ridurre le energie mentali connesse ad accettare un grado di rischio, e reprimere sul nascere gli sforzi di autorealizzazione, se il proprio percorso esistenziale non è compreso in ruoli pubblici o più sicuri.

Principio 19 – Risk management e apertura al rischio

Le energie mentali diminuiscono o si esauriscono quando:

  • l’individuo non inserisce nel proprio orizzonte di vita e nella pratica quotidiana aree di rischio (rischio calcolato);
  • l’individuo chiude la propria prospettiva verso l’innovazione, verso la ricerca ed esplorazione di nuovi orizzonti, verso il concetto di impresa, sfida e goal sfidante;
  • l’ambiente sociale, familiare o la cultura di appartenenza reprimono la propensione al rischio (anche se calcolato), soprattutto in campo economico e personale, disincentivando gli sforzi e ideali autorealizzativi;
  • la cultura di appartenenza o visione personale delle cose condanna come fallimenti assoluti i tentativi non riusciti, le sperimentazioni, i fallimenti relativi e sconfitte di percorso, e non li considera come normali o necessarie, connaturate al fatto stesso di tentare nuove strade.

Le energie mentali aumentano quando:

  • il flusso esperienziale metabolizza aree di rischio (in progressione), con apertura progressiva a spazi esistenziali più ampi;
  • viene tenuta aperta una prospettiva di innovazione e questa si concretizza nell’inquadrare orizzonti di sviluppo e progetti con goal concreti;
  • la cultura di appartenenza incoraggia la sperimentalità, l’innovazione, la ricerca, l’iniziativa (con sfondo etico positivo), accettando il rischio connesso e aiutando l’individuo a metabolizzare gli insuccessi e andare avanti comunque
  • in caso di cultura di appartenenza avversiva alla sperimentazione e alla ricerca,  l’individuo acquisisce tecniche mentali atte ad emanciparsi da questa lacuna e avviare una propria personale strada, un percorso di ricerca ed esplorazione di nuove mete e ideali.

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Come creare una realtà interna solida

Una delle principali capacità mentali inerenti il potenziale umano è la lucidità tattica: sapere dove sono, cosa sta accadendo realmente dentro di me e attorno a me, prendere coscienza della realtà, delle variabili e dei loro mutamenti, per reagire rapidamente e nella direzione giusta.

La perdita di lucidità tattica è ciò che accade ad una persona in un incendio quando scappa nella direzione sbagliata in preda al panico. È ciò che succede una squadra quando smette di giocare con gli schemi e “perde la testa”. È ciò che capita in azienda quando una crisi fa perdere di vista gli ancoraggi forti e le prospettive di soluzione, impegnando tutte le menti in ragionamenti pessimistici e di riparo, perdendo di vista qualsiasi lucidità.

La centratura personale è l’obiettivo delle attività di “ricentraggio personale”, inteso come miglioramento della coerenza e organizzazione interna, della lucidità, del “sapere cosa si vuole” e fare chiarezza su come arrivarvi.

La centratura personale corrisponde ad un una condizione di allineamento ed equilibrio delle componenti bioenergetiche, psicoenergetiche, motivazionali e pratiche quotidiane.

La condizione opposta corrisponde ad un disequilibrio, alle dissonanze tra stati energetici ed obiettivi, e alle incongruenze tra obiettivi stessi, a perdita del senso di realtà.

Possiamo riconquistare lucidità tattica attraverso la ricerca di un maggiore allineamento tra tutte le componenti e strati della piramide HPM (energie, competenze, obiettivi).

La perdita di lucidità è invece in agguato non appena uno degli elementi di cui si compone una scelta non trova supporto nelle aree corrispondenti: energie biologiche (stato bioenergetico), energie mentali (stato psicoenergetico), desideri, volontà, aspirazioni, goal (obiettivi) e pratiche quotidiane (azioni giornaliere) sono variabili interdipendenti. La caduta di una provoca una frana anche nelle altre, per cui è nostra responsabilità, se desideriamo conquistare buona lucidità tattica, “farci manutenzione” sia sul fronte fisico che mentale e progettuale, e lavorare per ottenerla.

Principio 18 – Ricentraggio, consapevolezza situazionale, lucidità tattica

Le energie mentali diminuiscono o si esauriscono quando:

  • l’individuo vive una condizione di disallineamento o incongruenza tra energie biologiche (stato bioenergetico), energie mentali (stato psicoenergetico), desideri, volontà, aspirazioni, goal (obiettivi) e pratiche quotidiane (azioni giornaliere);
  • l’individuo non è consapevole pienamente degli elementi di scenario che lo circondano (scarsa consapevolezza situazionale), vive in una realtà percettiva distorta o impoverita, cogliendo solo alcuni aspetti di essa o solo gli aspetti meno rilevanti, mancando di rilevare alcuni degli aspetti essenziali;
  • l’azione del soggetto non è coerente con la realtà che lo circonda;
  • le scelte tattiche (linea d’azione comportamentale) sono distorte e incoerenti con la realtà, o con i propri obiettivi profondi, portano a conseguenze negative, diminuiscono il benessere e/o l’autostima, o il senso di progressione verso le proprie mete.

Le energie mentali aumentano quando:

  • le energie tra i diversi stati segnalati dalla piramide HPM sono congruenti tra di loro (energie mentali e fisiche, competenze, progettualità e valori, sono ben allineati);
  • esiste o viene acquisita tramite training una buona consapevolezza situazionale e senso di realtà, con capacità di percezione sia dei singoli elementi che delle interazioni tra i vari piani di realtà, e capacità di cogliere l’insieme in prospettiva (Gestalt);
  • esiste lucidità tattica rispetto alle decisioni da intraprendere sul proprio futuro, si sviluppa senso di progressione verso una meta, puntuale e/o esistenziale.

La perdita del senso di Gestalt (insieme, quadro complessivo di riferimento) si traduce molto spesso nella concentrazione mentale su pochi dettagli a discapito della visione d’insieme più ampia. Questo genera caduta di lucidità tattica e linee d’azione perdenti.

Non è facile nelle società avanzate essere “centrati” e trovare coerenza con la realtà stessa. La scuola e i genitori cercano di insegnare ai bambini che più si impegnano e studiano e più avranno successo, promuovono il valore della famiglia e dell’impegno, il valore del sacrificio. Dall’altro lato, i personaggi dei serial televisivi occidentali, i modelli che osservano in televisione, sembrano non lavorare mai, impegnati tra una tavola da surf, un party e un’audizione per un balletto, un concerto, i flirt, giochi idioti, battibecchi, litigi, e ogni altra attività purché non lavorativa.

I lavori, se praticati, sono prevalentemente idilliaci, quali attore, attrice, modello, modella, atleta, scenografo, musicista, DJ, campione sportivo, giornalista di successo, creativo pubblicitario, e altre favole.

La dissonanza tra la dura realtà che i giovani incontrano nella vita e le promesse sulla vita vista nei film e nella televisione commerciale è disarmante. Questa dissonanza produce devastanti effetti sulla psiche degli adolescenti, altera la percezione della realtà, crea sensi di inadeguatezza e insoddisfazione permanente.

I mass media pongono come esempi del successo (calciatori, cantanti, attori e star televisive) che non sono certo ricercatori seri o scienziati, e hanno intrapreso altre strade. Il malavitoso di periferia che ha auto lussuose, potere e denaro, confrontati con il laureato a pieni voti costretto ad emigrare per mancanza di lavoro, sono un messaggio dissonante.

Vedere un idiota fare carriera, perché amico o parente di qualcuno, o vicino ad un partito politico, contrasta con chi vive il valore della meritocrazia e della ricerca. Si perde completamente di vista per che cosa si sta lavorando, la missione sembra non contare più nulla. Dobbiamo impegnarsi affinché questo partito non vinca.

Il ricentraggio deve mantenere la forza interiore elevata, e la coscienza che le scorciatoie non sono un valore in sé, che esiste qualcosa per cui vale la pena impegnarsi, e non è per forza patinato, non importa veramente se questo qualcosa non è tra le strade per il successo proposte dai media.

Per questo motivo l’attività di ricentraggio deve andare prima di tutto alla ricerca di alcuni valori cardine in cui l’individuo possa ritrovarsi, indipendentemente da quanto osserva nella realtà vissuta o mediatica.

La costruzione di una realtà interiore solida è la base per cogliere aspetti essenziali della realtà esteriore e posizionarli correttamente. Questa realtà è la piattaforma per nuovi e diversi ragionamenti, ad esempio: il malavitoso può anche avere denaro e potere, ma per quanto tempo ancora? E con che faccia guarderà i propri figli? Voglio veramente questo come modello? La velina e l’attrice sono lì perché hanno un bel culo, e quando gli sarà diventato flaccido, che fine faranno? Su cosa si basa il loro successo, su un culo? Voglio questo anche per me? A me piace studiare per scoprire come funziona il mondo, me ne devo vergognare? Quanti prima di me hanno fatto della scoperta una propria missione? Chi ha detto che la gratificazione per lo studio debba essere immediata o perfettamente corrispondente? Che valore c’è nel guardarmi allo specchio e essere comunque soddisfatto di me, e dei miei valori, piuttosto che dovermi girare dall’altra parte?

Consapevolezza situazionale e crisis management

Le capacità mentali si fanno preziose anche e soprattutto in condizioni estreme, in casi di crisi, di affanno, di pericolo.

La performance richiede la capacità di gestire gli stati di crisi che spessissimo si accompagnano ad eventi sfidanti e obiettivi ambiziosi.

Una micro-crisi riguarda eventi di durata relativamente ridotta (minuti, ore), mentre una macro-crisi può riguardare eventi di portata più prolungata (una malattia, un fallimento, un periodo di vita, un trauma sportivo).

I fattori che interferiscono con l’essere “situazionalmente consapevole” nelle situazioni di crisi sono soprattutto:

  • distorsioni emotive: l’ingresso in campo di forti emozioni (rabbia, disgusto, volontà di vendetta, orgoglio ferito, paura e panico) produce annebbiamento della realtà, sopravvalutazione di dati, e sottovalutazioni, chiusura alle diverse alternative realmente possibili, visione ristretta;
  • stanchezza, attenzione ridotta, affaticamento mentale, affaticamento sensoriale: incapacità di cogliere tutti gli aspetti percettivi e i dati in ingresso.

I segnali (cues) che indicano la perdita dalla consapevolezza situazionale:

  • fisici: agitazione, respiro affannoso, vertigini o capogiri, disorientamento;
  • comportamentali: ripetizione di gesti, indecisione, errori (cadute, urti), dimenticanze.

I passaggi principali che favoriscono il recupero di lucidità:

  • riduzione dell’arousal (attivazione emotiva e sensoriale), ad esempio tramite respirazione lenta e profonda, o concentrazione e rilassamento;
  • check-up situazionale (cosa sta accadendo realmente a me, agli altri, all’ambiente);
  • visione dall’alto del problema;
  • valutazione di almeno 2 alternative e pro-contro correlati, rispetto alla linea di azione istintuale.

Quando una crisi può essere generatrice di un disastro, occorrono inoltre competenze di disaster management, come le seguenti:

  • assunzione del comando: prendere in carico la situazione;
  • esame degli eventi e condizioni in base ai dati esistenti, raccolta di nuovi dati;
  • inquadrare le traiettorie degli eventi che si verificheranno se non si interviene;
  • chiedersi come spezzare le catene di eventi e quali mosse possiamo attivare;
  • attivare una rete di risorse (umane, tecniche, psicologiche);
  • agire con rapidità ma mantenendo il controllo emotivo;
  • riesaminare periodicamente lo stato e le strategie.

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Coerenza tra pensiero ed azione per trovare l’equilibrio interiore

Ogni pensiero, azione e comportamento dell’individuo deve trovare una coerenza con ogni altro pensiero, intenzione, comportamento, valore. Quando questo non succede l’individuo subisce forme di crisi, piccole o grandi, legate ad un senso di instabilità psicologica interna.

Va da sè che con questa instabilità interna latente, l’individuo non possa fare molta strada, e tantomeno confrontarsi con sfide che lo vorrebbero al meglio delle proprie capacità.

La prima ed assoluta capacità mentale da coltivare nel percorso verso il potenziale umano è la ricerca e riduzione delle dissonanze interne e delle incongruenze interiori che minano la stabilità psicologica della persona.

Questo aspetto è un tratto che si collega sia alla salute e benessere psichico delle persone comuni, che – in misura ancora più forte – in chi pretende di arrivare alle vette di una disciplina o di una professione, o compiere azioni di alte performance.

La congruenza cognitiva misura il grado con cui la persona percepisce sicurezza e coerenza tra ciò che pensa e ciò che fa, tra le proprie strutture di valori, atteggiamenti e comportamenti, e quindi quanto sia in condizione di grounding (buon radicamento psicologico), o invece in stato di confusione mentale. Quando manca il grounding, subentrano dissonanza e confusione interna che minano le energie personali.

Se un individuo crede nella salute, in teoria non dovrebbe fumare. Se crede nel perdono, in teoria non dovrebbe arrabbiarsi per più di pochi secondi. La teoria non equivale alla realtà in quanto subiamo costantemente condizioni di incongruenza. Non agiamo sempre in base alle idee che dichiariamo e ai valori che professiamo.

La realtà è complessa e fatta di persone che fumano o mangiano male o bevono eccessivamente, sapendo coscientemente quanto sia dannoso, e consigliando agli altri con convinzione di non fare ciò che loro fanno. Ed ancora, persone che professano amore e pace e praticano il rancore sistematico e l’aggressività, pacifisti armati, soldati poeti, santi peccatori, medici malati, professori che non sanno insegnare, e via così. Se ci guardiamo dentro sinceramente scopriremo di avere dissonanze in più campi. Tutti noi, nessuno escluso.

L’incoerenza sembra l’essenza stessa dell’essere umano, e nessuno può escludersi o tirarsene fuori. A parte il lato divertente delle incoerenze, e lungi da qualsiasi tentativo di ottenere un essere perfetto (e forse persino noioso), vogliamo affrontare invece il problema delle incoerenze pericolose e delle dissonanze che drenano e danneggiano le energie mentali.

Le dissonanze cognitive – sia consapevoli che inconsapevoli – assorbono energie. Quando qualcosa non va negli equilibri interiori, si attivano energie mentali di riparazione, o per “silenziare” queste voci, per ricacciarle nel tombino, o – nel tentativo di superarle – per fare qualcosa.

Le energie mentali di riparazione sono destinate a chiudere falle nel proprio sistema di credenze, valori, atteggiamenti e comportamenti, mentre le energie mentali di progressione sono quelle destinate a costruire il nuovo. È evidente che quanto la mente è assorbita nelle prime vi sia meno spazio per le ultime.

Allo tesso tempo, avviare importanti opere di costruzione con strutture sottostanti deboli o bacate, non è nemmeno produttivo, anzi pericoloso.

La consapevolezza che per superare una dissonanza bisogna rinunciare, lasciare qualcosa e cambiare, produce fatica, alimenta la resistenza al cambiamento che caratterizza ogni essere umano.

Principio 17 – Riduzione delle dissonanze cognitive

Le energie mentali diminuiscono o si esauriscono quando:

  • l’individuo vive dissonanze cognitive interne consapevoli ma non riesce a trovare vie di risoluzione;
  • l’individuo vive dissonanze cognitive interne inconsapevoli, sconosciute a se stesso, non ancora emerse allo stato di coscienza;
  • la coerenza e fluidità dell’azione (quotidiana e strategica) è minata dalle dissonanze stesse;
  • l’individuo esperisce stati di disorganizzazione e difficoltà a fissare nette priorità, riorganizzare le priorità, seguirle coerentemente;

Le energie mentali aumentano quando:

  • vengono trovate vie di soluzione o riduzione per le dissonanze consapevoli;
  • vengono localizzate le dissonanze cognitive inconsapevoli (emersione);
  • la riduzione delle dissonanze produce maggiore fluidità mentale e comportamentale nel vissuto sia quotidiano che nelle performance;

Le azioni di riduzione delle dissonanze sulla gestione dei tempi, desideri, ambizioni, riguardano le divergenze tra stato attuale e ideale, e in particolare:

  • diminuisce la distanza tra come si è come si vorrebbe essere;
  • diminuisce lo scostamento tra azioni e valori;
  • migliora la capacità di gestione dei propri tempi rispetto all’ideale;
  • vengono risolti conflitti tra desideri prima incompatibili;
  • aumenta il senso di vicinanza al vissuto ideale, nelle varie scale temporali (giorno, settimana, mese, anno): la vita vissuta si avvicina maggiormente al vissuto ideale di quel segmento temporale, o viene percepita una progressione in tal senso.

Le dissonanze di vissuto in particolare sembrano essere uno dei temi meno esplorati del potenziale umano e delle performance.

Si pensa che una persona possa magicamente trovare equilibrio mentale o forza interiore, ma questo diventa difficile quando le sue giornate sono estremamente diverse da come egli le vorrebbe vivere, le pressioni sono molteplici e numerose, e non si sa più a chi dare ragione, dove “sbattere la testa”, a cosa dare priorità, cosa meriti più attenzione.

Le dissonanze esistenziali possono riguardare vari livelli:

  • la dissonanza tra come siamo e come vorremmo essere (in cosa sei diverso da come vorresti essere?)
  • la dissonanza tra come ci si sente e come ci si vorrebbe sentire (come ti senti ora, o in questo periodo, rispetto a come vorresti sentirti?)
  • dissonanza tra come agiamo e i nostri valori (Quali sono le tue azioni quotidiane? In quali non ti ritrovi? Cosa non fai e invece vorresti fare?)
  • dissonanze nei tempi: impossibilità di essere onnipresenti, assorbimenti da retropensieri negativi, sensazione “mentre siamo qui non stiamo facendo altre attività importanti”, senza riuscire a risolvere il senso di colpa;
  • dissonanze di valori e desideri: i conflitti di desiderio e tra valori;
  • dissonanze di vissuto, a vari livelli di scala temporale, es.: differenze tra la giornata ideale e la giornata reale, il weekend ideale e quello reale, tra il periodo di vita attuale e quello ideale

Ragionare sulla giornata ideale, su cosa vi succede, sulla settimana lavorativa ideale, o sul weekend ideale, o sul periodo ideale, o sulla struttura ideale dei tempi di una performance, è un motore di riflessione e ispirazione molto potente. Aiuta a fare luce su ciò che si vuole, aiuta a individuare una strada. Sapere dove si vuole andare è importante.

È difficile che una settimana lavorativa sia equilibrata e positiva se non si è riflettuto seriamente su come deve essere la propria “settimana lavorativa ideale”. Le scuse per non farlo sono migliaia (dal “tanto programmare non serve perché poi gli altri ti scompigliano tutto” al “non ho voglia”, al “non dipende da me”) e ci aggrappiamo ad esse con forza, pur di evitare di uscire dal guscio e riprendere in mano la vita con maggiore assertività. Spesso chi ci impedisce di vivere come vorremmo è la persona che ci guarda allo specchio, noi stessi, e riconoscerlo è duro.

Il ritrovamento di un equilibrio cognitivo tra i tempi reali e ideali, i propri valori, atteggiamenti, azioni e priorità, e la fissazione di nuovi e diversi goal, è un obiettivo di sviluppo personale e di coaching di grande interesse.

Anche solo muoversi verso questa realtà, provarci, fare piccolissimi passi, porta l’individuo a sperimentare maggiore coerenza interiore tra i diversi pensieri che lo animano, migliore congruenza tra i pensieri e le azioni, maggiore correlazione tra le azioni e comportamenti che attua ogni giorno e le sue ambizioni.

Il ri-bilanciamento cognitivo non significa coerenza cieca o ortodossia. Si può essere coerenti con un principio, praticarlo in modo ortodosso e fondamentalista, per tutta la vita, ma non credervi fino in fondo, o desiderare persino di cambiare vita per non essere più obbligati a credervi.

Il ri-bilanciamento cognitivo reale è possibile solo in seguito all’esame ed emersione delle dissonanze, facilitato soprattutto da una terapia Rogersiana centrata sulla persona, e da una analisi conversazionale attenta.

Queste pratiche devono essere abbinate ad una condizione/setting che favorisca l’emersione delle dissonanze, quindi un setting neutrale e facilitante, un atteggiamento empatico (Rogersiano), e l’accettazione personale (prima di tutto) del fatto stesso di avere dissonanze come qualcosa di assolutamente normale per l’essere umano, ma affrontabile e migliorabile.

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