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Articolo estratto con il permesso dell’autore, dott. Daniele Trevisani, dal testo “Team leadership e comunicazione operativa. Principi e pratiche per il miglioramento continuo individuale e di team

L’urgenza di un approccio conversazionale ed emozionale

Non potremmo mai dirci arrivati come razza umana finché il lavoro non sarà un piacere per tutti, un’esperienza piacevole da condividere, e non qualche cosa che cerchi disperatamente se non l’hai e arrivi a odiare quando l’hai. Al centro del­l’analisi si collocano i “climi comunicativi” e le problematiche connesse alla gestione di gruppi (leadership), la performance (capacità di raggiungere obiettivi), il vissuto emotivo e la qualità del tempo trascorso al­l’interno dei gruppi (ecologia della comunicazione).

ecologia della comunicazione

Perché affrontare questi temi?

Per troppo tempo le scienze manageriali hanno messo da parte il “problema delle emozioni” nella conduzione delle organizzazioni.

La speranza che l’essere umano potesse “anestetizzarsi emotivamente” durante il tempo lavorativo ha tenuto poco e la prova dei fatti l’ha rapidamente distrutta.

I contributi della scuola nordamericana si basano su culture organizzative completamente diverse da quelle europee e latine (e asiatiche) e su iniezioni di suggerimenti rapidi, a volte al limite del ridicolo se lette da interlocutori maturi, dando per scontato che le persone condividano un progetto e abbiano solo bisogno di strumenti rapidi e indolori per raggiungerlo.

La realtà è fatta spesso di gruppi che non riescono a condividere obiettivi, visioni e persino la missione fondamentale che li dovrebbe accomunare. È fatta da leader o conduttori di team che non hanno alcuna capacità o volontà di leggere le emozioni dei propri “uomini” e “donne”, e non riescono a sintonizzarsi con i membri del team, a far cooperare il gruppo, a dare motivazione e ispirazione. È fatta da persone disattente al “clima di comunicazione” che s’instaura nel gruppo, manager che equalizzano la leader­ship con il “dare ordini”, anche se confusi e poco chiari, o ancora abbandonano un gruppo immaturo a un’autogestione utopica e improduttiva.

In altri “universi manageriali”, invece, assistiamo a insiemi di persone in grado di compiere imprese fuori dalla portata del­l’immaginazione, a gruppi nei quali ogni soggetto esce “ricaricato” dal­l’esperienza stessa di lavorare assieme, a leader che riescono a far crescere le persone con cui lavorano e a generare contributi importanti alla crescita delle aziende e di intere comunità, e persino della razza umana e del pianeta.

La distanza tra questi universi manageriali può essere di pochi metri (fisicamente), ma di anni luce dal punto di vista della qualità comunicativa e di vita.

Qualsiasi organizzazione, azienda o persino gruppo familiare, qualsiasi sistema, se intende progredire verso una qualità di vita superiore e verso i propri risultati, deve sviluppare nuove sensibilità.

Queste sensibilità (alla comunicazione, alle emozioni, ai climi umani e relazionali) si traducono nel­l’opportunità concreta di far evolvere il gruppo verso i propri obiettivi (fronte della produttività), ma anche, e soprattutto, verso un tempo psicologico positivo (fronte del­l’ecologia della comunicazione), nel quale il lavoro e lo “stare assieme” diventano momenti autorealizzativi.

L’impegno che si presenta è notevole. Lo sforzo sottostante è quello di utilizzare un approccio ampio e multidisciplinare, nel quale far convergere discipline diverse, secondo una concezione “olistico-pragmatica” che permea altre pubblicazioni sul metodo ALM (vedi Trevisani 2000).

Vale la pena impegnarsi in questo sforzo, nella consapevolezza che da esso possono nascere contributi importanti per la qualità della vita delle persone nei gruppi e nelle organizzazioni.

Vi sono poi ripercussioni forti sulla qualità dei sistemi familiari, e in generale in ogni gruppo o organizzazione in cui le persone debbano “vivere assieme”. La possibilità di fornire un contributo a questo immenso campo di problemi rende indispensabile un impegno forte e diretto.

Un lavoro serio sul­l’ecologia della leadership serve anche alla direzione aziendale, verso chi opera con compiti di responsabilità nella conduzione di team (direzione di gruppi marketing e vendite, direzione tecnica o di stabilimento, direzione risorse umane e altri comparti aziendali), e per chi agisce come formatore o consulente in qualità di change agent (formazione risorse umane, direzione di gruppi di miglioramento, consulenti, formatori, terapeuti, coach).

Servono ampi momenti di focalizzazione (autoriflessione) ed esercitazione applicativa, destinati a rendere le persone coscienti su come stanno operando, con prove di miglioramento esercitabili e praticabili nella “pa­lestra quotidiana della vita”

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tecniche di comunicazione

La gestione dei team richiede tecniche di comunicazione efficaci a vari livelli:

•     fase direzionale-> comunicazione top-down: dare ordini, istruzioni, direttive, delegare bene;

•     capacità di interiorizzazione dei ruoli-> empowerment, dare potere ai ruoli, dargli piena capacità operativa e gradi di autonomia;

•     capacità di sviluppo della relazione-> equilibrio tra empatia, saper ascoltare gli altri, e assertività, saper imporre una visione e tirare le somme;

•     capacità motivazionale-> comunicazione persuasiva, alimentare energie positive, forza, coraggio, motivazione;

•     capacità di sviluppare leadership in azione-> comunicazioni operative, ordini, direttive chiare, deleghe chiare, informazioni chiare, quando servono, a chi servono, evitando noise (rumore e degrado informativo) e riducendo il rumore di fondo.

Le tecniche necessarie per gestire un team sono molte, e cito solo alcune delle principali:

•     diagnosi organizzativa e dei flussi di comunicazione: chi comunica che cosa e a chi, a chi servono informazioni, quando, perché;

•     diagnosi degli stili di comunicazione: “Comunichi nel modo giusto per poter stare in questo team?”;

•     diagnosi dei climi emotivi: “Che aria tira?” “Chi porta energie positive?”;

•     valutazione dei potenziali dei singoli;

•     valutazione della corretta attribuzione dei ruoli: “Ci sono le persone giuste al posto giusto?”;

•     combat readiness e team readiness; valutare se un individuo sia o meno “pronto al combattimento” (in senso metaforico), ovvero nello stato di forma fisico e mentale per eseguire la performance, per ricevere un certo compito, entrare in azione e dare il reale contributo necessario.

Gli interventi che bisogna apprendere a svolgere per incrementare le capacità di un team sono anch’essi diversificati:

•     interventi correttivi diretti su singoli;

•     interventi di comunicazione informativa all’intero team;

•     condivisione di piani e strategie;

•     condivisione di visioni e obiettivi;

•     mentoring; counseling, training, coaching e ogni processo utile ad alimentare di competenze le persone.

Tutte le diverse tecniche formative, peculiari, sono da assorbire e studiare per affilare le armi della capacità di dirigere un vero team.

Se prendiamo un gruppo di persone accatastate in un autobus, persone che non si conoscono, questo non fa di loro una forza speciale e nemmeno un team. Ma anche persone che si conoscono e comunicano tra di loro poco e male non potranno essere una forza speciale, un vero team ad alte prestazioni.

Ogni team, e ogni persona, ha una propria psicologia e struttura caratteriale, un certo livello di competenze, valori, energie, forze e debolezze.

Essere a capo di un gruppo (una squadra, un’azienda, un’area) non equivale a possederne la leadership. Esistono numerose realtà nelle quali gli organigrammi del potere e del carisma reale non corrispondono agli organigrammi ufficiali.

La leadership reale, il carisma e il potere, sono nelle mani di chi è più abile nel gestire la comunicazione sul campo, applicando la leadership conversazionale ed emozionale in ogni singolo contatto.

Un leader si distingue per la capacità di capire quando è bene frenare l’azione e quando è bene saper agire subito.

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Una grande varietà di forze speciali, in senso olistico, intese come gruppi ad alte performance, diventa tale quando riesce a compiere il salto di qualità che divide un assembramento di persone da un gruppo di persone estremamente motivate.

Il primo fattore a rendere speciale un team è la motivazione e senso di appartenenza, il secondo l’addestramento continuo, la formazione continua.

Un terzo fattore è la consapevolezza delle proprie possibilità.

motivazione

Ogni individuo si comporta nella vita come se avesse un’opinione ben definita della sua forza e delle sue possibilità; come se al­l’inizio di un’azione, si rendesse conto della difficoltà o della facilità di un dato problema: in sintesi come se il suo comportamento dovesse derivare dalle sue opinioni (Adler 1933, p. 17).

Dobbiamo quindi fondere un lavoro molto sottile, come l’immagine che un gruppo ha di se stesso, e una persona ha di se stessa, con un lavoro molto pratico come l’addestramento e la formazione su capacità allenabili. Il tutto confluisce nella ricerca di un vero e proprio stile di vita (lifestyle) in cui affrontiamo le nostre paure anziché nasconderci, accettiamo esperienze anche senza la certezza di pieno successo e apprendiamo da esse.

Quando una sconfitta non diventa qualche cosa che distrugge il nostro senso di valore personale e la nostra personalità, quando elaboriamo un piano di vita che cominci ad avere senso, stiamo imparando atteggiamenti che Adler individua come veramente fondamentali per raggiungere risultati duraturi.

Se predomina il puro timore di un pericolo di sconfitta, se il perdere si confonde malamente con un abbassamento del senso di personalità, si cercherà di scappare dalla situazione. Al contrario, un atteggiamento sano consiste nel fatto di applicarsi, studiarla, allenarsi, lasciarsi allenare, cercare risorse ulteriori, potenziarsi, attivare il fuoco sacro del superare l’ostacolo e andare avanti. Questo è un grande salto di qualità.

Se l’ideale di perfezione è una persona che non sbaglia mai, non avremo mai veri leader né veri gruppi, si cercheranno solo vittorie facili e scontate.

Un leader conduce ricerca anche in territori inesplorati, e apprende dagli errori, a volte persino andando a cercare dove sarà il punto di caduta per poi imparare e spostarlo alla prossima occasione un po’ in avanti.

Come riferisce Adler, “ogni epoca culturale forma il proprio ideale di perfezione rapportandolo ai suoi pensieri e ai suoi sentimenti” (Adler 1933, p. 31). Per cui è davvero il caso di confrontarsi con la cultura che ci circonda e “farla uscire”, attivando quello che oggi nella scienza memetica possiamo chiamare uno “smontaggio” della cultura in cui siamo immersi, o in termini informatici un reverse engineering, andare a vedere con quale software siamo stati programmati e poi riprogrammarci con maggiore coscienza.

Questo lavoro è indispensabile per fare nella vita quello che vogliamo noi e non quello che la cultura storica in cui siamo nati ci dice sia bene o male senza il nostro permesso.

Grandi riflessioni sulla vita si devono accompagnare a grande addestramento del corpo e delle facoltà mentali.

Quando parliamo di “addestramento” non intendiamo l’esecuzione di semplici ordini robotizzati, ma l’interiorizzazione e completa assimilazione del­l’azione entro un modo di fare e di essere.

Se non partiamo dal miglioramento di sé e delle proprie capacità, avremmo sempre bisogno di dare istruzioni e ordini, senza mai arrivare al fatto che le persone abbiano la volontà interiore di migliorare e la capacità di dirigere le attenzioni dove serve, arrivando a un’autonomia operativa che toglie il bisogno di essere guidati passo per passo. Il vero salto di qualità in un gruppo avviene quando si ha sempre meno bisogno di dare ordini e sempre più coscienza autonoma di che cosa è bene fare data la situazione, il contesto, la sfida, il compito, lo stato delle cose.

Una Formazione vera deve passare non solo dai concetti ma entrare nel­l’azione in cui questi concetti possono essere provati, vissuti, toccati con mano.

Il valore del­l’esperienza è assoluto, ma serve l’abilità di apprendere dal­l’esperienza (la “metacapacità” di apprendere dal­l’esperienza): potremmo cadere senza capire mai perché siamo caduti, potremmo stare male senza capire mai perché e come siamo arrivati a stare male, potremmo persino avere dei risultati ottimi senza capire se è stato frutto del caso o di qualche nostra strategia che possiamo replicare e potenziare. Possiamo vivere una vita come alghe mosse dalle correnti senza mai mettere a sistema nel nostro repertorio di comportamenti le modalità vincenti che invece ci appartengono:

•     nelle aziende, possono e devono diventare team speciali i team di progetto che vogliono sviluppare idee e concetti d’innovazione, si concentrano su come progettare un futuro veramente migliore dando vita a progetti nuovi, innovazione vera e non solo su carta o per fini pubblicitari e di propaganda, cui segua il nulla;

•     diventano team speciali anche le famiglie che decidono di far crescere figli sani, coscienti e forti, in una società che offre loro modelli malati, una sfida per certi versi enorme;

•     sono forze speciali i corpi scelti del­l’esercito e altre forze che operano in ambienti difficili e in missioni critiche, rischiando la vita e con sacrificio;

•     sono team speciali, in un concetto esteso, le équipe mediche che effettuano interventi difficili che pochi altri riescono a realizzare;

•     sono team speciali i team agonistici e sportivi negli sport estremi, che devono trovare il modo di esplorare ogni angolo del potenziale umano, se vogliono sopravvivere;

•     sono team speciali i team sportivi anche in sport ordinari, dove la percezione di quello che si fa diventa sacra;

•     sono forze speciali gli operatori che agiscono nelle centrali operative, di sicurezza e protezione civile, e devono apprendere l’arte del coordinamento di migliaia di flussi informativi, arrivando a comprendere significati nascosti ai più, per poi trasformarli in decisioni e azioni;

•     sono persone speciali e gruppi speciali alcuni gruppi dediti alla spiritualità o alla religione, in cui si giunge alla trascendenza dei limiti umani e alla connessione con valori sovrumani, sovrordinati, percependo un senso dell’universo che sfugge alle persone comuni. Anche la spiritualità ha proprie forme di leadership.

Per essere veri leader serve visione. Ma visione vera, proiettata in un futuro migliore, non solo nel prossimo “trimestre finanziario” come accade troppo spesso nelle aziende.

I governanti pensano a inaugurare garage e centri commerciali, mentre gli scienziati ci dicono che dovremmo preoccuparci di altro.

Da un’intervista a Stephen Hawking, astrofisico:

Domanda. Quale sarà il nostro destino come specie, secondo lei?

Risposta. Credo che la sopravvivenza della specie umana dipenderà dalla sua capacità di vivere in altri luoghi dell’universo, perché il rischio che un disastro distrugga la Terra è grande. Quindi vorrei suscitare l’interesse pubblico per i voli spaziali. Ho imparato a non guardare troppo in avanti, a concentrarmi sul presente. Ci sono ancora molte altre cose che voglio fare (Valenza 2015).

Chi si preoccupa di qualche cosa di più grande di se stesso ha capito il valore della vita. Chi cerca di lasciare un contributo fisico o morale, un lascito che può andare oltre la propria vita individuale, è un vero leader spirituale e morale, gli altri sono solo maschere che abusano di questa parola.

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Guidare l’esplorazione umana su Marte è un atto mitico, non solo tecnico e scientifico. Produrre energia pulita e arrivare ad avere case che producono energia anziché consumare petrolio e risorse rare, è un atto mitico.

Nella leadership vera il mito si fonde con la realtà perché i leader veramente visionari sanno volare con la fantasia e vedere possibili cose che per altri sono utopiche.

leadership e vision

Questo meccanismo era ben conosciuto a chi ha saputo costruire grandi movimenti sia religiosi che politici. Senza giudicarne i valori, possiamo notare come il comunismo abbia nel lavoro, nello stesso simbolo della falce (il lavoro nei campi) e del martello (il lavoro nella fabbrica) un valore mitologico.

Il nazismo ha anch’esso avuto storicamente un’enorme attenzione alla costruzione scientifica di mitologie, andando a recuperare un’identità mitica dalle tradizioni greche e romane, identità chiaramente visibile nei “costumi di scena” e nelle parate (Lacoue-Labarthe e Nancy 1992, p. 47).

Il fascismo ha utilizzato il mito del lavoro nei campi, della forza fisica, del coraggio e del­l’ardimento, obbligando i gerarchi a dare essi stessi prova di coraggio anziché chiederne solo ai sottoposti. In questo, il sistema di leadership aveva funzionato bene.

Il mito diventa necessario e indispensabile per costruire un “sogno” (nel nazismo il sogno germanico del dominio del pianeta, nel comunismo la ricerca dell’egualitarismo che tuttavia annullava le pulsioni individuali).

Nelle aziende e nei team non è molto diverso: un sogno (vincere un campionato, diventare ed essere chiamati campioni, passare alla storia) funge da motore ispirativo e viene usato dai leader come motore della motivazione.

Il mito comprende diverse caratteristiche:

•     un’adesione fideistica, ciò che rende vero il mito è l’adesione del sognatore al suo sogno, fino a che il mito non si impossessa del­l’uomo nella sua interezza;

•     la credenza totale, l’adesione immediata e senza riserve alla figura sognata, qualcuno che incarni la figura, qualcuno che la manifesti, qualcuno che le permetta di prendere forma. Il mito è un elemento molto “ico­nico”, costruisce immagini, le idealizza, le pone come punti di arrivo.

Il martellamento mitico-simbolico crea una sorta di “ambiente culturale” che possiamo chiamare “mitosfera”, un insieme di messaggi comunicativi, visivi, uditivi, polisensoriali, che riempiono la vita e il quotidiano delle persone sino a fondersi con esse. Un ambiente in cui si creano figure idealizzate, miti positivi da imitare e ricercare, per i quali dare tutto, tutte le proprie energie, persino la vita, e miti negativi da odiare, “cattivi” e nemici verso i quali combattere con tutte le proprie forze.

Bene, possiamo apprezzare questo stato di cose o averne ribrezzo, ma il meccanismo sociale della leadership ha dei propri funzionamenti che un buon ricercatore deve riuscire a osservare, capire, isolare, indossando un “camice bianco” da analista. Dopo, e solo dopo averli capiti, potrà confrontare questi meccanismi con i propri valori e dire “mi piace” o “non mi piace”, sono d’accordo o non sono d’accordo.

Di un fatto possiamo essere certi. La leadership dipende ampiamente dalla capacità comunicativa dei leader. La leadership è nulla se non vi sono persone disposte a credere nei principi e valori del gruppo di cui vogliono far parte.

Nessuna persona “ordinaria” diventa forza speciale solo perché immessa in un gruppo in modo burocratico o iscrittasi, volontariamente o persino “costretta ad appartenere”.

Ciò che rende veramente speciale una persona e un team sono la qualità del pensiero, la lucidità tattica, la capacità di focalizzazione, le capacità di comunicazione (sia emozionale che coordinativa), i valori che si seguono, e il continuo lavoro per migliorare sé stessi.

Puntare a costruire un tassello del puzzle con cui l’umanità intera potrà migliorare ha in sé un lato mitico. Essere leader di una squadra di persone che scava un grande buco per poi ricoprirlo con la stessa terra, e altre azioni inutili, è una forma di leadership dispregiativa, persino ripugnante quando ci si fregia del titolo di “capo” o leader ma lo scopo sottostante a cui si lavora non vale nulla. Interi “burocratifici” sono stati costruiti con il solo scopo di nominare dirigenti e leader del nulla.

Il recupero della miticità della leadership consiste nella riscoperta dello “scopo nobile verso il quale lavoriamo”, per cui non esiste niente di veramente nobile nel costruire Ferrari se queste devono diventare il bene di lusso per pochi sceicchi e miliardari, e inquinare più di auto normali, mentre è molto più nobile l’ingegnere che guida la ricerca di un veicolo di trasporto pulito, sicuro, e che aiuta la razza umana e non pochi ricchi eletti.

La dimensione mitica della leadership deve tornare a fare i conti con i valori di fondo per cui si lotta o non si lotta. I valori che ci sono o non ci sono. Senza que­st’analisi, i miti dei leader e grandi condottieri diventano favole da raccontare ai bambini, ma solo finché non sono abbastanza grandi per capire la truffa che si nasconde dietro alle bugie.

La leadership può essere considerata una prosecuzione in età adulta di quella che Adler ha individuato come la “libera forza creatrice dell’individuo nella prima infanzia” (Adler 1933), e il senso della leadership arriva a coincidere con il “senso della vita” individuato da Adler, la voglia o meno di contribuire a qualche cosa che vada oltre la nostra vita materiale e limitata.

La leadership non può fare a meno di confrontarsi con il “senso” che si dà alla vita e alla propria vita in particolare. Voler essere utile a qualche cosa, adoperarsi per qualche cosa, e chiedersi se questo fare sia importante o meno.

Tutto va imparato non per esibirlo, ma per adoperarlo.

Georg Christoph Lichtenberg

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Chi aspira a sviluppare una professione con onore, come dirigere con vera leadership, o occuparsi di questioni importanti come la ricerca, le aziende, la medicina, la sicurezza, la scienza, le organizzazioni, le scuole, ovunque, prima deve fare i conti con la propria crescita personale, le proprie capacità e valori.

Bisogna prendere atto del fatto che il nostro carattere determina larga parte della nostra modalità comunicativa, lo stile di leadership, le decisioni.

Bisogna essere abbastanza umili per capire che il nostro carattere non è qualche cosa di inviolabile ma anzi lavorarvi è un atto sacro. È utile cercare di capire su quali tratti possiamo lavorare. È un atto sacro anche l’azione e il tentativo che mettiamo in atto per migliorarci, al di là che ci riusciamo o meno, o che ci riusciamo subito o dopo un periodo di tempo. Spesso il miglioramento richiede un percorso, e non un singolo atto.

Spesso il miglioramento richiede un percorso, e non un singolo atto. Chi affronta un percorso di miglioramento personale è sempre una persona coraggiosa. Ha il coraggio delle emozioni, ha deciso di guardarsi dentro, scoprire le alchimie della formula arcana in cui è inserito, capire come funziona il proprio ingranaggio interiore, e cambiarsi in meglio (Trevisani 2015).

Vogliamo migliorarci per essere sempre di più noi stessi nel nostro pieno potenziale e non persone che si nascondono dietro a scuse come “sono fatto così, che cosa vuoi farci?”.

Lavorare sul proprio carattere per migliorarsi significa ascoltare i propri valori senza rifiutarli, ma anche avere l’umiltà di pensare “posso sempre fare passi in avanti nel mio processo di miglioramento personale”. Chi non accetta questa visione potrebbe pensare di sé “sono il migliore, perché lo dico io”. Questa è sostanzialmente una forma di nevrosi.

Alexander Lowen (1982) ci mette in guardia chiaramente sui rischi che le nevrosi generano nelle persone. Prima di tutto, non saper imparare dal­l’esperienza.

Si dice che le persone imparino dal­l’esperienza, e in generale questo è vero: l’esperienza è il migliore e, forse, l’unico vero maestro.

Ma questa regola non sembra potersi applicare al campo della nevrosi. La persona non impara dall’esperienza ma ripete continuamente lo stesso comportamento distruttivo.

Aprirsi a capire prima di tutto “che cosa vorrei migliorare di me” è un grande processo di focusing[1], una focalizzazione consacrata, importante.

Fare focusing significa andare alla ricerca di chi siamo e come comunichiamo, che cosa sentiamo dentro di noi, e come questo si trasferisce all’esterno di noi.

Significa quindi andare alla ricerca di un manoscritto unico, un testo nascosto, che non è di facile accesso e si trova solo nel­l’esplorazione attenta e profonda. Questa esplorazione può essere appresa in appositi corsi, può essere potenziata quando guidata da professionisti esterni, ma al di là della tecnica richiede sempre e comunque una grande voglia di scoprire il massimo del proprio potenziale umano possibile.

Per lavorare sul carattere occorre un contributo esterno, che sia coaching, counseling o formazione esperienziale, pratica, confronto, feedback, motivazione alla voglia di migliorarsi.

Alexander Lowen (1982), sviluppatore della Bioenergetica, ci ricorda un fatto importante:

Il carattere determina il fato.

Per carattere si intende il modo di essere o di comportarsi tipico, abituale o “caratteristico” di una persona.

Definisce un insieme di risposte fisse, buone o cattive, indipendenti dai processi mentali coscienti.

Non possiamo cambiare il nostro carattere con un’azione cosciente, perché non è soggetto alla nostra volontà.

Di solito non siamo neppure coscienti del nostro carattere, perché diventa per noi come una “seconda natura”.

Avere voglia di capire i nostri limiti e opportunità, forze e debolezze, non ha niente a che fare con la ricerca di qualche forma di “patologia” mentale, non è un atto medico, conoscersi a fondo non è un percorso clinico ma anzi, diventerà operazione di scoperta quotidiana, operazione che ci porta alla scoperta della “cultura” che ci circola dentro, l’insieme di regole che usiamo inconsciamente nel nostro comportamento quotidiano.

Questo permette di tenere alla larga gli stati mentali negativi che rischiano di farci ammalare o di farci agire in modo automatico e senza il nostro consenso.


[1] Per la metodologia del focusing, vedi i testi di Gendlin (in particolare 2002); inoltre: Campbell e McMahon (2001); Elliot, Watson, Goldman e Greenberg (2007); Weiser Cornell (2007); Welwood (1994).

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qualità comunicativa

Elementi di qualità comunicativa di un leader:

•     chiarezza del messaggio, coerenza tra i vari messaggi;

•     riferimenti, presenza di “deissi” (chi, dove, come, quando, con chi, dati ed elementi di verità) in grado di ridurre confusione e combattere l’“entropia” (deriva verso il caos) nel progetto;

•     sensibilità emotiva: sa quando un messaggio può essere utile, motivante, e quando corrosivo, distruttivo; di base lavora per costruire;

•     sensibilità situazionale: sa quando è il momento di dare istruzioni rapide, ordini, e quando è il momento di ascoltare, di soppesare, empatizzare. Capire se si tratta di una situazione di crisi, di routine, di picco, di dare istruzioni, fornire un chiarimento, o di altro. Se così non fosse, un leader dirigerebbe un’evacuazione da un incendio come un colloquio psicanalitico.

Ogni gruppo indistintamente può passare da un assembramento casuale e forzato di persone, praticamente una massa di amebe che se ne fregano una dell’altra, a una forza speciale intesa come energie umane in azione che si coordinano e di cui qualcuno prende la responsabilità coordinativa (leadership).

La comunicazione di un buon leader ha capacità coordinative (pratiche) e ispirative (leadership spirituale e morale).

Quando queste due aree si uniscono, un gruppo diventa capace di cose incredibili. Un buon addestramento e formazione sulle comunicazioni operative sa attivare dei valori che motivano le persone a esserci e insegna alle persone come coordinare i loro sforzi.

Principio 2 – La comunicazione di un buon leader

La qualità della comunicazione è un fattore chiave per la leadership. La comunicazione di un buon leader:

•     è chiara e consistente nei messaggi, riferimenti, “deissi”, chiara nelle aspettative nei riguardi delle persone e le trasmette apertamente;

•     è chiara nei sistemi di “rinforzo” o “premi psicologici” dei comportamenti virtuosi e riconosce impegno, sforzi e risultati;

•     non trasmette aspettative impossibili, negative e demotivanti, ma input possibili e motivanti, distinguendo bene la trasmissione di una “vision” dalle comunicazioni operative che si attuano per produrre questa vision;

•     instilla “pride & recognition”: orgoglio e senso di appartenenza al gruppo;

•     è chiara sui “rinforzi negativi”, punizioni e interventi correttivi: riprende i comportamenti che non vanno, non li lascia strisciare né crescere, sa farsi valere quando serve, consapevole che il futuro del gruppo dipende dalla sua coesione e dai comportamenti agiti in ogni istante che conta;

•     tiene un buon battle rhythm, un ritmo di battaglia, una ritmica di messaggi e azioni che ha un suo flusso e una sua logica, una cadenza, una continuità, momenti e picchi alti e pause ragionate, in un concerto ben consapevole.

Se fossimo un’orchestra, chiediamoci: che brano vogliamo suonare ora in questo gruppo? Una marcia funebre, o la Cavalcata delle Valchirie? Un brano con sfondi emotivi allegri o tristi? Una musica epica o popolare? Che ritmi si sentono? 60, 120 battiti per minuto o 200? E per quanto una persona può tenere 200 battiti per minuto senza crollare?

Tutto questo ha a che fare con la gestione delle energie dei membri del team e soprattutto l’autogestione delle energie da parte del leader stesso. Il lavoro su di sé, da parte del leader, diventa sempre più una necessità quanto più alti sono gli obiettivi.

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Siamo scintille in uno spettacolo universale di fuochi d’artificio. Noi compariamo qui, ora, adesso. Facciamo di questa scintilla un miracolo.

Daniele Trevisani

Chi dirige persone o gruppi con vera passione sente prima o poi il bisogno di migliorare le proprie modalità di comunicazione e quindi la propria leadership.

Per farlo, uno dei modi più efficaci è ispirare la propria comunicazione e la propria leadership non tanto a “regole preconfezionate” che valgono in sostanza nulla, ma piuttosto a dei “principi guida”.

Da un buon principio ispiratore possono derivare una grande varietà di regole pratiche, comportamenti positivi e soprattutto modalità di decisione molto solide.

La difficoltà decisionale è spesso dovuta alla perdita di principi ispirativi, ancoraggi solidi che possano guidare le scelte. Chi ha principi saldi difficilmente non sa che cosa vuole.

Nessun ancoraggio è forte quanto un principio che ci guida. Se cerchiamo la parola “principio” tra i suoi sinonimi troviamo “origine” e “inizio”, ed è così.

Da esso trae genesi tutto ciò che ne deriva, come un piccolo ruscello è l’origine di un fiume e di tutte le sue diramazioni, o come il tronco sorregge tanti rami e ogni foglia. La linfa vitale di un gruppo scorre dentro ai “principi guida” di cui esso si dota.

Esaminiamo alcuni aspetti fondamentali per la leadership e la comunicazione operativa.

Il primo principio: qualsiasi team, per quanto dotato di supporti materiali e tecnologie, è composto di persone, esseri umani, con i pregi e difetti che questo comporta. Gli studi sul fattore umano nei viaggi spaziali evidenziano come uno dei limiti più forti del­l’essere umano in azione la human dependability, in altre parole, l’affidabilità umana, il fatto di “poter contare” su un essere così delicato come la creatura umana. Poter contare su una persona è importantissimo ma non scontato. Gli esseri umani possono essere soggetti a “malfunzionamenti” fisici non voluti (malattia, cadute, injuries, che li rendono incapaci di contribuire), ma anche a malfunzionamenti umorali, emozionali, caratteriali, proprio perché umani. Cadute emotive, umorali, motivazionali, sono altrettanto pericolose delle cadute fisiche, e allontanano dallo scopo. E tuttavia, sono proprio le fragilità che rendono gli umani così speciali. La forza potenziale delle loro emozioni, la potenza che un sentimento può generare, l’enorme beneficio quando le emozioni sono valorizzate e canalizzate bene.

Il secondo principio: chi dirige un team è anch’egli una persona, e porta nel team tutto il proprio repertorio personale positivo e negativo, capacità e valori, energie o limiti, il proprio carattere, la propria personalità, la propria storia, lo stato fisico ed emozionale, culture ed esperienze, amplificando risultati, modificandoli in meglio o in peggio. Conoscere se stessi, in questo senso, e lavorare su di sé, diventano obbligo morale, pratico, positivo e forte.

Il terzo principio, la relazione forte tra qualità comunicativa e portata della sfida affrontabile: in un team vero, le persone interagiscono tra di loro, comunicano tra di loro, sono persino costrette a farlo se vogliono coordinarsi e organizzarsi bene. La necessità di comunicare bene è tanto maggiore quanto più grande è la portata della sfida. Nei miei contributi di ricerca a ESA (European Space Agency) (Trevisani e Stene 2016) ho potuto esaminare come la comunicazione faccia la differenza tra vita e morte. Un team composto da astronauti, equipaggio e operatori della sala di controllo a terra, durante una passeggiata spaziale (Extra Vehicular Activity, EVA) comunica, e nel farlo può rischiare involontariamente la morte di un’astro­nauta, per colpa di un singolo messaggio sbagliato o di un singolo misunderstanding. E questo non ipoteticamente. È accaduto all’astronauta Luca Parmitano, il quale si è ritrovato in procinto di annegare nello spazio per una perdita di acqua al­l’interno della tuta spaziale, rientrato con l’acqua oramai sopra gli occhi; gli operatori faticavano a capire che cosa accadeva, a dare istruzioni e messaggi operativi. Lo stesso vale per un’équipe medica nei riguardi del paziente, e ogni altro team che affronta sfide difficili. La qualità della comunicazione interna ai gruppi, e la qualità comunicativa di ciascun ruolo specifico, fanno la differenza rispetto alle sfide che gli stessi possono affrontare e vincere. Comunicare bene può essere fatto con metodo, o affidandosi alla sorte (che non è mai in genere una strategia vincente). Comunicare bene serve per raggiungere scopi che i singoli, da soli, non potrebbero mai conseguire e, a volte, nemmeno sognare.

 

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  • Sfide
  • Potenziale delle emozioni

Articolo estratto con il permesso dell’autore, dott. Daniele Trevisani, dal testo “Team leadership e comunicazione operativa. Principi e pratiche per il miglioramento continuo individuale e di team

team leadership e comunicazione

Il vero collante di ogni gruppo è lo scopo, persone che perseguono lo stesso scopo sono unite al di là del tempo, dello spazio, delle ere in cui sono vissuti.

Daniele Trevisani

La leadership è la capacità di condurre e ispirare persone, team e organizzazioni verso uno scopo.

Anche condurre la propria vita verso qualche cosa di grande, di nobile, di sano, è una forma di guida, una guida spirituale, valoriale, profonda.

Se persone che condividono uno scopo comune hanno la fortuna di vivere nella stessa era, potranno fare grandi cose, e dare potenti contributi, a sé stessi e agli altri. Ma per farlo le persone devono potersi incontrare, devono potersi conoscere, devono potersi ri-conoscere. Devono unirsi.

I gruppi sono modalità fantastiche per fare alchimia tra le energie di più persone. Un gruppo di studio e ricerca può creare cose che un singolo, per quanto dotato, non raggiungerà mai. Un gruppo può arrivare là dove nessun singolo mai possa pensare, per quanto intelligente e preparato sia.

Un’orchestra può comporre brani di una ricchezza che il singolo suonatore non può eseguire. In ogni forza speciale e gruppo di élite, esistono ruoli diversi, per esempio avvistamento, protezione, incursori, ciascuno con le proprie peculiarità ma con un obiettivo di missione assolutamente condiviso.

Lo scopo è ciò che distingue un assembramento casuale di persone da un vero gruppo unito, per quanto distanti fisicamente siano i loro membri. La divisione dei ruoli è ciò che rende possibile la sinergia. La comunicazione è il flusso che rende possibile lo scambio d’informazione e di energie umane che alimenta tutto que­st’apparato.

Perché siamo qui, noi assieme? Perché ora? Che cosa vogliamo fare? Che cosa ci unisce? Che cosa ci può dividere? A che cosa vogliamo contribuire? Come?

Non esiste vera leadership se queste domande non vengono poste. E se di questo non si parla mai, non esiste vera comunicazione.

La comunicazione operativa è l’attività di scambio di messaggi necessari a produrre un effetto desiderato. Guida le persone attraverso i passi necessari.

La comunicazione è come il flusso sanguigno che porta nutrimento a ogni cellula, le alimenta di informazioni ed energie, ne porta via tossine e scorie. Come tale, la comunicazione, nei messaggi che porta e nel come li porta, deve essere nutriente e dis-inquinante, e non tossica e velenosa. Deve essere energetica e motivante, e non demotivante, e questo va tenuto in grande considerazione.

L’anima di un team e la comunicazione che utilizzano sono inscindibili. L’una senza l’altra non sono in sostanza possibili. Leader veri che non comunicano non esistono. Una comunicazione vuota, che non punti a un esito comunicativo positivo o non si ponga il problema di quale risultato darà, è praticamente solo rumore di fondo. Diventa inutile. Persino pericolosa.

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© Articolo estratto con il permesso dell’autore dal testo di Daniele Trevisani – “Deep coaching. Il Metodo HPM™ per la crescita personale, il coaching in profondità e la formazione attiva”. Franco Angeli editore, Milano.

Se pensi di aspettare il “momento giusto” per la tua crescita personale e per la tua formazione, sappi che il momento assolutamente perfetto non arriverà mai, e il momento giusto è adesso. Procrastinare, nel senso di posticipare, fa male, ma posticipare la propria formazione fa ancora più male.

Non aspettare. Non sarà mai il momento giusto

Napoleon Hill

Vediamo quindi di approfondire di cosa si parla quando si vuole fare formazione esperienziale e Deep Coaching in modo serio.

Una divisione classica degli obiettivi formativi distingue tra:

  • Saperi: teorie, terminologie, conoscenze, elementi culturali e saperi tecnici da acquisire;
  • Saper Fare: le classiche “skills” o competenze pratiche;
  • Saper Essere: gli atteggiamenti, i comportamenti interpersonali, i sistemi di credenze, i valori di fondo che adottiamo, e le priorità generate dal “modo di essere”.

Nel mondo anglofono, si riferisce spesso lo stesso concetto come “triangle” of attitudes, skills and knowledge (triangolazione tra atteggiamenti, capacità e conoscenza). La derivazione di questa tipologia può essere ricercata soprattutto negli studi di Bloom degli anni ‘50, che distingue tre diversi domini di apprendimento

  • cognitive – cognitivo (il conoscere);
  • affective – affettivo (atteggiamenti, sentimenti);
  • psychomotor – psicomotorio (relativo al fare).

Negli studi di Bloom, tali categorie vengono ulteriormente sub-analizzate, con individuazione di ulteriori sotto-domini e sotto-variabili, di estremo interesse (rimandiamo il lettore all’opera originale per ulteriori approfondimenti). 

Nel metodo HPM, non volendo e potendo in questa sede fare uno studio storico retrospettivo, ci proponiamo di concentrarci su un utilizzo delle categorie il più operativo possibile. 

Per ciascuno di questi elementi proponiamo come necessario calcolare un obiettivo formativo o di coaching specifico, o appurare se sia o meno intenzione del cliente agire su di esso.

Situation Analysis e Goals Analysis

Il cambiamento positivo viene favorito dai seguenti fattori:

Buona focalizzazione delle:

  • conoscenze in ingresso;
  • abilità in ingresso;
  • atteggiamenti preesistenti.

Buona focalizzazione di:

  • conoscenze in uscita e conoscenze attese;
  • abilità in uscita e abilità attese:
  • atteggiamenti in uscita e cambiamenti attesi negli atteggiamenti.

Dobbiamo ora realizzare un passaggio delicato: integrare il modello X-Y e quello dei 3S con il modello HPM che fa da sfondo ad ogni azione di coaching in profondità e di formazione.

Integrazione di modelli diversi come strada maestra per un metodo di coaching olistico.

Dare corpo ad un metodo integrato e olistico è l’obiettivo del sistema HPM.
Il metodo HPM è un metodo olistico che spinge la persona verso l’osare incursioni in nuovi territori del sapere, del saper essere, del saper fare, consapevoli che nessun successo è facile ma richiede anzi prova ed errore.

Ho sempre tentato. Ho sempre fallito.
Non discutere. Prova ancora. Fallisci ancora.
Fallisci meglio

Samuel Beckett

La sigla HPM comprende il senso del “dare forma”, costruire o modellare (Modeling), ma anche produrre impulso e stimolazione positiva. 

Si applica, a seconda degli scopi sottostanti, al fronte del potenziale umano (Human Potential Modeling), o al lato della prestazione umana (Human Performance Modeling).

I due lati della medaglia sono corrispondenti, in quanto l’accesso al proprio potenziale è la base sia per il benessere che per prestazioni efficaci quando serve. 

Il principio fondamentale risponde al bisogno primario di ogni persona di liberare e crescere le risorse individuali, essere sé stessi al massimo livello possibile, accedendo a nuovi livelli di benessere, autorealizzazione, e pienezza della vita. In ultimo, si tratta di un viaggio verso la libertà. La libertà della tua mente.

La libertà del tuo spirito, che mai nessuna gabbia potrà racchiudere. Nel Metodo HPM è previsto ampio spazio per le tecniche di training mentale e di rilassamento, con una moltitudine di approcci ed esercizi, e tuttavia il principio di fondo di “tenere duro” nel proprio tendere alla crescita personale è presente e forte

Ci sono due regole nella vita:
1. Non mollare mai,
2. Non dimenticare mai la regola n°1

Duke Ellingto

Possiamo fare un grande sforzo di integrazione fra modelli diversi per arrivare ad un coaching veramente olistico e ad una formazione veramente profonda ed olistica.
Per ciascuna delle sei celle del modello HPM, dobbiamo chiederci che cambiamenti vorremmo produrre, “da dove a dove” vorremmo portare la persona, e questo sia sui saperi (conoscenze), sui saper fare (competenze) e sugli atteggiamenti e valori (saper essere).

© Articolo estratto con il permesso dell’autore dal testo di Daniele Trevisani – “Deep coaching. Il Metodo HPM™ per la crescita personale, il coaching in profondità e la formazione attiva”. Franco Angeli editore, Milano. Vietata la riproduzione senza citazione della fonte.

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Il concetto di Capitale Psicologico

Il Capitale Psicologico (in Inglese PsyCap, Psychological Capital) è un concetto di estrema importanza per tutto il mondo della crescita personale e del management che diventa determinante anche e soprattutto per fare Deep Coaching.

Il capitale psicologico è definito come “uno stato di sviluppo psicologico positivo caratterizzato da: 

  • avere fiducia (auto-efficacia) nel mettere in campo lo sforzo necessario per avere successo in compiti sfidanti, 
  • realizzare attribuzioni positive (ottimismo) sulle possibilità di successo ora e nel futuro, 
  • perseverare verso gli obiettivi (speranza), e, quando necessario, ridirezionare il percorso verso gli obiettivi, 
  • quando si incontrano cadute e avversità, sostenerli e rialzarsi (resilienza) per ridirezionarsi verso il successo”.

I quattro fattori primari sono quindi:

  • autoefficacia (Self Efficacy)
  • ottimismo (Optimism)
  • speranza (Hope)
  • resilienza (Resilience).

Quando parliamo di Capitale Psicologico e sue componenti, non dobbiamo considerarlo come qualcosa di astratto, ma di molto concreto.

Per incrementare il proprio Capitale Psicologico occorre un allenamento quotidiano e un fare concreto

L’artista è nulla senza il talento, ma il talento è nulla senza lavoro

Emile Zola

Il fattore Hope (speranza) è qualcosa di pratico, non è da confondere con una vaga o illusoria speranza che le cose migliorino o andranno bene. È costituito invece da una “speranza attiva” che si compone di determinazione, pianificazione (planning), volontà e potere della volontà (Willpower) e dalla volontà di cercare strade efficaci per arrivare ai propri scopi (Waypower).

Il fattore Efficacy è altrettanto concreto e comprende sia la chiara percezione di quali sono i progetti e le sfide per le quali possiamo dimostrare efficacia (autoefficacia, Self-Efficacy), che il fattore entusiasmo, un ingrediente fondamentale per la riuscita di qualsiasi progetto o volontà.

Il fattore Resilience (resilienza) è altrettanto un concetto attivo. Non è da confondere con un vago concetto di “forza d’animo” ma con un concretissimo sapersi risollevare dopo un fallimento o dopo che qualcosa ci ha ostacolato, unito alla perseveranza nel fare. Si compone di perseveranza, costanza, continuità, saper essere continuativi nella nostra azione anche a fronte di difficoltà, saper trovare strade alternative per il successo o linee d’azione alternative dopo che una certa azione non si è dimostrata efficace, e saper considerare ogni caduta o fallimento come qualcosa di temporaneo e sul quale possiamo risollevarci e imparare, per progredire con ancora maggiore efficacia-

Il fattore Optimism (ottimismo) è anch’esso da intendere come un ottimismo attivo. Comprende la sensazione di poter incidere sul futuro tramite le nostre azioni e le nostre scelte, e un buon livello di Locus of Control. Il Locus of Control è la variabile psicologica che indica quanto una persona è propensa ad assegnare al destino o al fato il proprio stato attuale e futuro (Locus of Control esterno) oppure considerare il proprio stato e il proprio futuro come qualcosa su cui possiamo anche incidere con le nostre scelte, comportamenti e atteggiamenti. (Locus of Control interno).

Va da sé che una persona con un Locus of Control interno (ma senza scadere nell’ossessività) abbia molta più volontà di agire rispetto a chi ha un Locus of Control completamente esterno

Se io penso che non valga la pena impegnarsi tanto il destino è già scritto, non mi attiverò mai in niente e sarò solo fatalista. Se invece penso che il mio destino sia anche in parte frutto delle mie scelte, delle mie azioni e comportamenti, di sicuro mi impegnerò nello svolgere progetti concreti, programmi di crescita personale o professionale, e azioni positive.Questo vale in qualsiasi campo della vita, nello sport, nell’azienda, nella politica e nel campo sociale.

Fai attenzione alle tue abitudini, perché diventano il tuo carattere.Fai attenzione al tuo carattere, perché diventa il tuo destino

Lao Tze

Il concetto di Capitale Psicologico ha i propri fondamenti scientifici saldamente radicati nella Psicologia Positiva[1], una branca della psicologia che si occupa di come potenziare le risorse psicologiche delle persone anziché occuparsi di curare malattie psicologiche[2]. Come tale, questo tipo di psicologia si presta ad un utilizzo ad ampio spettro nell’impresa e in ogni ruolo, incluso quello del Deep Coaching.

Queste teorie suggeriscono che i quattro fattori citati siano risorse positive che agiscono in modo sinergico e non solo in modo singolo, amplificandosi l’una con l’altra fino a dare vita al massimo potenziale della personaPossiamo considerare che il potenziale personale di un manager o di un venditore – ma anche di qualsiasi persona – sia dato dalle skills, le competenze o saper fare che la persona possiede, e dal substrato psicologico, caratteriale, morale, e dagli atteggiamenti verso la vita e verso gli obiettivi e le sfide che ciascuno possiede.

In presenza di skills forti e in combinazione con un Capitale Psicologico elevato, il potenziale personale di ogni individuo ne esce enormemente potenziato.

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