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Articolo estratto dal testo “Negoziazione Interculturale. Comunicazione oltre le barriere culturali“, copyright FrancoAngeli Editore e Daniele Trevisani, pubblicato con il permesso dell’autore.

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Di seguito introduciamo gli strumenti e i metodi per l’analisi della conversazione, studio fondamentale per capire come migliorare la negoziazione.

Per avviare una analisi seria e produttiva della negoziazione, dobbiamo innanzitutto distinguere almeno tre fasi diverse:

  • fase di preparazione alla negoziazione: briefing, raccolta di dati, analisi degli interlocutori e delle posizioni, preparazione di una piattaforma negoziale da discutere, preparazione dell’elenco delle argomentazioni e ordini del giorno, role-playing di preparazione negoziale, sviluppo e test delle action-lines (linee d’azione);
  • fasi di negoziazione comunicativa e front-line: la fase del contatto face-to-face;
  • fasi di analisi e debriefing: analisi degli esiti della negoziazione preparazione alle fasi successive.

La fase di preparazione richiede lo studio del numero più ampio possibile di informazioni affinché sia possibile entrare nella fase di contatto con cognizione di causa (consapevolezza situazionale) e conoscenza degli elementi culturali di base (consapevolezza culturale).

La fase di negoziazione, soprattutto nel face-to-face, rappresenta il terreno negoziale, il “momento della verità” in cui avvengono le azioni più significative, e poiché avvengono “durante” la conversazione, irreversibili.

La fase di debriefing serve per metabolizzare le informazioni e comprende (almeno)

  • un debriefing comportamentale: cosa è accaduto là, analisi dei propri comportamenti, ricerca degli errori, analisi dei comportamenti altrui, e
  • un debriefing strategico: implicazioni pratiche, analisi degli esiti, preparazione delle prossime mosse.

La negoziazione in genere richiede diversi cicli di preparazione-contatto-debriefing, per cui possiamo assimilarla ad un processo ciclico.

La Conversation Analysis (Analisi della conversazione) è una delle discipline utilizzate nelle scienze della comunicazione per comprendere come le persone interagiscono nei rapporti faccia-a-faccia.

Dal punto di vista scientifico si occupa di analizzare come le persone gestiscono i turni conversazionali, come cercano di interagire conversando, ma dal punto di vista pratico le applicazioni in azienda della AC sono estremamente rare, e praticamente assenti sono le “implicazioni pratiche”, il suggerimento sul “cosa fare” per negoziare, e ancora meno su come farlo a livello interculturale.

L’AC è stata rivolta soprattutto alle interazioni sociali o personali e molto meno ai dialoghi tra aziende.

Dal punto di vista linguistico, utilizzando alcuni prestiti dalla AC e numerose addizioni originali, nel metodo ALM cerchiamo di “smontare” la conversazione analizzandola come un insieme di atti conversazionali, per studiarne la struttura e applicarla ai problemi concreti delle aziende e organizzazioni che devono negoziare efficacemente.

Dal punto di vista semiotico, possiamo chiederci (1) quali siano i significati e interpretazioni di senso che ciascun attore attribuisce alle singole mosse, sul piano della relazione (semantica relazionale), e (2) quali sono gli effetti pratici sulla relazione stessa (pragmatica relazionale).

Dall’analisi delle mosse conversazionali sino ad interi brani di interazione, è possibile sviluppare le capacità dei manager e negoziatori (1) nella decodifica della conversazione, e (2) nell’acquisizione di maggiori capacità conversazionali. Inoltre, possiamo formare e acculturare i negoziatori a produrre una strategia conversazionale più efficiente e consapevole anche all’interno della propria cultura di partenza.

Le mosse conversazionali rappresentano specifiche azioni o “emissioni” poste in essere da un interlocutore.

Alcune mosse conversazionali (non definite in questi termini nei lavori di AC, ma da una nostra interpretazione estensiva) sono, per esempio:

  • affermare,
  • anticipare,
  • attaccare,
  • cedere il turno,
  • chiedere una precisazione, fare domande di puntualizzazione,
  • chiedere per ampliare, fare domande di apertura
  • ecc..

Ogni cultura fa propri alcuni di questi repertori e li amplia, rigettandone altri, o relegandoli a pochi ambiti comunicativi.

Ogni mossa è correlata sia alle mosse precedenti del soggetto, che alle mosse altrui.

Nel campo intra-culturale esistono specifici repertori e regole conversazionali generalmente condivise, mentre in campo interculturale aumenta la diversità anche per via delle diverse modalità con cui in ogni cultura vengono gestite le mosse conversazionali.

In termini negoziali, a seconda della valenza relazionale, possiamo prestare attenzione soprattutto a:

  • mosse di avvicinamento (segnali di simpatia, amicizia, affetto, volontà di collaborare, segnali di unione), e
  • mosse di allontanamento (distacco, antipatia, rifiuto, volontà di tenere le distanze).

Sotto il profilo dei contenuti della conversazione negoziale, invece, è importante distinguere tra:

  • mosse di apertura (esplorazione informativa, allargamento, ampliamento del campo conversazionale), e
  • mosse di chiusura (tentativo di conclusione, di concretizzazione);

ed ancora tra:

  • mosse di ascolto (empatia, domande, raccolta di informazioni), e
  • mosse di proposizione (affermazioni, posizioni, richieste).
libro "Negoziazione Interculturale" di Daniele Trevisani

Per approfondimenti vedi:

Articolo estratto dal testo “Negoziazione Interculturale. Comunicazione oltre le barriere culturali“, copyright FrancoAngeli Editore e Daniele Trevisani, pubblicato con il permesso dell’autore.

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In questo articolo farò un riassunto degli strumenti e dei metodi fondamentali all’interno della negoziazione interculturale e vedremo in breve quali sono le aree di applicazione di questo tipo di approccio.

Applicare gli strumenti per ogni singola situazione interculturale (tre le oltre venti elencate) richiederebbe un libro intero dedicato solo alla situazione specifica. In questo volume si gettano le basi per ogni situazione generale, lasciando alla consulenza i compiti di adattarli ai singoli casi.

Le tecniche di base utili in ogni contesto interculturale sono:

  • empatia e ascolto attivo: capire in profondità i comportamenti, atteggiamenti, emozioni, i sistemi di pensiero dell’interlocutore;
  • dinamiche di ascolto multi-livello: la capacità di disaggregare le componenti multiple del messaggio, tenere “corta” la distanza comunicativa – e quindi il margine di incomprensione – tra gli interlocutori;
  • ricerca della condivisione valoriale e di risultato, approccio win-win: valutazione delle “impossibilità di non comprendersi” su alcuni temi per costruire un approccio win-win, in cui entrambi gli interlocutori possano trarre beneficio dalla negoziazione. Partire dalla considerazione che per  chiedere molto ci si deve preoccupare di dare molto;
  • approccio grounded, sperimentale e role-playing: testare sul campo, sperimentare e affinare le proprie strategie comunicative prima di metterle in azione in situazioni di non ritorno;
  • consapevolezze macro-culturali: capire i macro-fondamenti della cultura con la quale si interagisce;
  • analisi del contesto: capire le intenzioni e goals dell’interlocutore, il punto di arrivo desiderato, lo scenario nel quali egli si muove e come questo lo condiziona;
  • piattaforme negoziali flessibili e line d’azione adattive: costruire spazi negoziali flessibili nei quali potersi muovere;
  • consapevolezze micro-culturali: capire la dimensione culturale nascosta e poco evidente nelle manifestazioni della cultura del nostro interlocutore;
  • diagnosi e stratificazione del comunicatore: disaggregare le componenti multiple dei messaggi per comprendere quali messaggi sono da attribuire alla cultura di provenienza del nostro interlocutore, quali alla sua personalità individuale, quali al ruolo giocato e quali ad altri fattori di contesto;
  • centratura emozionale e rimozione del rumore di fondo psicologico (Mental Noise): predisporsi a negoziare con spirito di analisi, attenzione, liberi da pregiudizi; sapersi liberare da stress fisici e psicologici, per poter dare la migliore prestazione negoziale possibile.

La negoziazione interculturale è un fenomeno sempre più pervasivo a causa della globalizzazione e dell’intensificarsi dei rapporti interetnici, interreligiosi, internazionali, di business, culturali o sociali.

Rimanendo nel campo del business, i casi nei quali la negoziazione interculturale diventa più evidente sono:

  1. Vendita all’estero nelle culture prossime e nelle culture distanti.
  2. Acquistare all’estero o costruire accordi di fornitura (supply management), negoziazione con i fornitori esteri.
  3. Accordi di business per la distribuzione all’estero di beni o servizi
  4. Joint ventures (costruzione di aziende dirette da più partners di nazionalità diversa) per insediamenti produttivi all’estero.
  5. Fusioni tra aziende e acquisizioni di aziende in cui le culture organizzative di provenienza siano sostanzialmente diverse (come avviene nella quasi totalità dei casi, sia a livello intra-nazionale, che a livello di acquisizioni e fusioni internazionali).
  6. Gestire le forze di lavoro nei paesi terzi.
  7. Gestire le forze di lavoro straniere che operano nella propria azienda.
  8. Fare formazione multinazionale, programmi di formazione che riguardano risorse umane operanti in diversi paesi.
  9. Formazione interculturale: diversità culturali tra formatore e partecipanti, o diversità culturali all’interno del gruppo di allievi.
  10. Coordinare gruppi di lavoro internazionali.
  11. La negoziazione diplomatica e gli accordi internazionali.
  12. Il Peacekeeping, il mantenimento della pace, la prevenzione e la risoluzione dei conflitti.
  13. La contrattualistica internazionale, la negoziazione giuridica cross-culturale.

Sul fronte delle comunicazioni mediate, vediamo l’urgenza di un approccio interculturale ogni volta che emergono problemi di:

  1. Campagne di comunicazione informativa in culture distanti.
  2. Comunicazione pubblicitaria diffusa in culture diverse e su mercati internazionali.
  3. Creazione di messaggi persuasivi e promozionali su scala internazionale.
  4. Sviluppo di concept di prodotto di valenza internazionale, destinati a funzionare su mercati globali e diversi tra di loro.
  5. Sviluppo di concept di prodotti finalizzati unicamente ad una area linguistica-culturale, la cui progettazione avvenga in una diversa cultura di partenza.
  6. Costruire strutture distributive e di vendita su paesi diversi.
  7. Creare sistemi di incentivazione e motivazione del personale adeguate alla cultura locale.

Sul fronte sociale, vediamo invece una urgenza delle abilità di negoziazione e comunicazione interculturale quando si affrontano i seguenti problemi:

  1. Inserimento scolastico di bambini stranieri.
  2. Terapia psicologica interculturale e counseling interculturale.
  3. Dinamiche dell’adattamento etnico.
  4. Dialogo interreligioso.
  5. Progetti di sviluppo internazionale.
  6. Campagne di comunicazione sociale (sanità pubblica, prevenzione di malattie, educazione alimentare, droga, e altre) condotte in aree culturalmente diverse.

Oltre venti aree di problematiche forti ed urgenti caratterizzano il campo della comunicazione interculturale. La vastità e gravità dei problemi sottostanti – in questa incompleta lista – evidenzia l’urgenza di un’attenzione elevata verso la dinamica di comunicazione interculturale.

Libro negoziazione interculturale di daniele trevisani

per approfondimenti vedi:

Articolo a cura della dott.ssa Ginevra Bighini, www.negoziazioneinterculturale.wordpress.com; mentoring a cura del dott. Daniele Trevisani, www.studiotrevisani.it

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L’argomento qui trattato si distacca leggermente dagli articoli precedenti, poiché accantona per un momento le generalità finora esplicate, per immergersi nel dettaglio della cultura nipponica, alla scoperta dei comportamenti da adottare durante una negoziazione interculturale con il popolo giapponese.

Penso che molti abbiano pareri contrastanti riguardo a questo paese e alle sue tradizioni; di fatto il Giappone rimane un paese molto controverso.

Le abitudini più classiche diffuse sul web e sui social si legano alla puntualità, alla precisione, alla ricerca costante della bellezza e della perfezione, ma anche alla pulizia e all’ attenzione e al rispetto verso il prossimo.

Tutto ciò è innegabilmente vero, quanto è vero che i problemi maggiori che lo stato deve affrontare sono alcol, suicidi, il fortissimo calo delle nascite e l’isolamento sociale.

Se da una parte quindi troviamo una spinta verso il miglioramento continuo, dall’altra la forte stratificazione sociale e la paura di commettere errori che possano macchiare l’onore si traducono in un blocco competitivo.

Questo tipo di fenomeni contrastanti si rendono visibili più che mai nella vita aziendale.

Per un lavoratore in Giappone l’azienda è sacra. I giovani laureati, una volta assunti, rimangono nella stessa società per tutta la vita; infatti la mobilità lavorativa non è quasi per niente contemplata. L’impiegato modello resta fedele alla propria azienda e vive per essa.

Tutto gira intorno alla vita aziendale: i colleghi-amici con cui uscire tutte le sere dall’ufficio a bere qualcosa, la moglie, molto spesso collega o ex-collega, i supermercati a costo agevolato, i parrucchieri, i cinema, le palestre, gli asili, le scuole, ecc…

Perdere il lavoro d’altro canto viene visto come una sconfitta e un’onta impossibile da lavare via, tanto che la maggior parte di coloro che subiscono un licenziamento si suicidano. Anche cambiare lavoro non è semplice, poiché appare come un tradimento verso la famiglia-azienda che l’ha accudito e non a caso esistono delle società specializzate nell’aiutare i dipendenti a licenziarsi.

Negoziare con un popolo così distante da noi non è semplice e il rischio di perdersi in fraintendimenti ed atteggiamenti maleducati senza accorgersene è ancora più facile.

come viene spiegato in maniera molto sintetica ed esaustiva dal sito www.economiaediritto.it :
“Il modello giapponese costituisce una solida base per lo sviluppo di forme collaborative, in quanto l’impresa è intesa come comunità, è forte lo spirito di gruppo e qualsiasi decisione è frutto di una concertazione collettiva.
Con i giapponesi meglio evitare il contatto fisico (tipico della cultura latina), come stringere la mano, facendo piuttosto un inchino (in segno di saluto e rispetto), sempre nel rispetto dell’età (gli anziani sono considerati un patrimonio, testimoni di saggezza) e della posizione gerarchica. Inoltre, potrebbe essere interpretato come segno di sfida guardare con insistenza l’interlocutore dritto negli occhi (contrariamente al valore da noi attributo a tale atteggiamento).
In un primo colloquio, l’obiettivo dell’interlocutore giapponese non è concludere l’affare, bensì quello di familiarizzare, valutarci come persone e conoscerci meglio, poiché il rapporto che vuole instaurare sarà duraturo nel tempo, basato su rispetto e fiducia reciproci.
Il comportamento della negoziazione viene influenzato dall’importanza delle radici culturali che impongono di stabilire rapporti a lungo termine. Così come nei rapporti personali e di gruppo, i rapporti di affari si fanno per tutta la vita e per tanto si fanno con cura e attenzione, in un modo sociale prescritto. Si può menzionare due implicazioni importanti di questo aspetto:
1- Il negoziatore giapponese investirà i suoi sforzi nei preliminari e nei rituali della negoziazione.
2- La struttura e la presentazione dell’affare accordato rifletteranno l’importanza di una relazione a lungo termine che beneficerà entrambi le parti. Sebbene i benefici a breve termine vengono percepiti come importanti, sono solo secondari in una prospettiva a lungo termine.” (1)

Quindi, per concludere, il Giappone, come abbiamo visto, è un paese di tradizioni secolari e innovazione costante. Conoscerne approfonditamente la cultura è essenziale per la buona riuscita di una negoziazione, che, se ben strategicamente strutturata, può portare a una collaborazione proficua a lungo, lunghissimo termine.

meeting your business partner in Japan

(1) https://www.economiaediritto.it/la-negoziazione-commerciale-nelle-relazioni-internazionali

Articolo a cura della dott.ssa Ginevra Bighini, www.negoziazioneinterculturale.wordpress.com

Mentoring a cura del dott. Daniele Trevisani, www.studiotrevisani.it

Articolo a cura della dott.ssa Ginevra Bighini, www.negoziazioneinterculturale.wordpress.com; mentoring a cura del dott. Daniele Trevisani, www.studiotrevisani.it

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L’argomento qui trattato si distacca leggermente dagli articoli precedenti, poiché accantona per un momento le generalità finora esplicate, per immergersi nel dettaglio della cultura nipponica, alla scoperta dei comportamenti da adottare durante una negoziazione interculturale con il popolo giapponese.

Penso che molti abbiano pareri contrastanti riguardo a questo paese e alle sue tradizioni; di fatto il Giappone rimane un paese molto controverso.

Le abitudini più classiche diffuse sul web e sui social si legano alla puntualità, alla precisione, alla ricerca costante della bellezza e della perfezione, ma anche alla pulizia e all’ attenzione e al rispetto verso il prossimo.

Tutto ciò è innegabilmente vero, quanto è vero che i problemi maggiori che lo stato deve affrontare sono alcol, suicidi, il fortissimo calo delle nascite e l’isolamento sociale.

Se da una parte quindi troviamo una spinta verso il miglioramento continuo, dall’altra la forte stratificazione sociale e la paura di commettere errori che possano macchiare l’onore si traducono in un blocco competitivo.

Questo tipo di fenomeni contrastanti si rendono visibili più che mai nella vita aziendale.

Per un lavoratore in Giappone l’azienda è sacra. I giovani laureati, una volta assunti, rimangono nella stessa società per tutta la vita; infatti la mobilità lavorativa non è quasi per niente contemplata. L’impiegato modello resta fedele alla propria azienda e vive per essa.

Tutto gira intorno alla vita aziendale: i colleghi-amici con cui uscire tutte le sere dall’ufficio a bere qualcosa, la moglie, molto spesso collega o ex-collega, i supermercati a costo agevolato, i parrucchieri, i cinema, le palestre, gli asili, le scuole, ecc…

Perdere il lavoro d’altro canto viene visto come una sconfitta e un’onta impossibile da lavare via, tanto che la maggior parte di coloro che subiscono un licenziamento si suicidano. Anche cambiare lavoro non è semplice, poiché appare come un tradimento verso la famiglia-azienda che l’ha accudito e non a caso esistono delle società specializzate nell’aiutare i dipendenti a licenziarsi.

Negoziare con un popolo così distante da noi non è semplice e il rischio di perdersi in fraintendimenti ed atteggiamenti maleducati senza accorgersene è ancora più facile.

come viene spiegato in maniera molto sintetica ed esaustiva dal sito www.economiaediritto.it :
“Il modello giapponese costituisce una solida base per lo sviluppo di forme collaborative, in quanto l’impresa è intesa come comunità, è forte lo spirito di gruppo e qualsiasi decisione è frutto di una concertazione collettiva.
Con i giapponesi meglio evitare il contatto fisico (tipico della cultura latina), come stringere la mano, facendo piuttosto un inchino (in segno di saluto e rispetto), sempre nel rispetto dell’età (gli anziani sono considerati un patrimonio, testimoni di saggezza) e della posizione gerarchica. Inoltre, potrebbe essere interpretato come segno di sfida guardare con insistenza l’interlocutore dritto negli occhi (contrariamente al valore da noi attributo a tale atteggiamento).
In un primo colloquio, l’obiettivo dell’interlocutore giapponese non è concludere l’affare, bensì quello di familiarizzare, valutarci come persone e conoscerci meglio, poiché il rapporto che vuole instaurare sarà duraturo nel tempo, basato su rispetto e fiducia reciproci.
Il comportamento della negoziazione viene influenzato dall’importanza delle radici culturali che impongono di stabilire rapporti a lungo termine. Così come nei rapporti personali e di gruppo, i rapporti di affari si fanno per tutta la vita e per tanto si fanno con cura e attenzione, in un modo sociale prescritto. Si può menzionare due implicazioni importanti di questo aspetto:
1- Il negoziatore giapponese investirà i suoi sforzi nei preliminari e nei rituali della negoziazione.
2- La struttura e la presentazione dell’affare accordato rifletteranno l’importanza di una relazione a lungo termine che beneficerà entrambi le parti. Sebbene i benefici a breve termine vengono percepiti come importanti, sono solo secondari in una prospettiva a lungo termine.” (1)

Quindi, per concludere, il Giappone, come abbiamo visto, è un paese di tradizioni secolari e innovazione costante. Conoscerne approfonditamente la cultura è essenziale per la buona riuscita di una negoziazione, che, se ben strategicamente strutturata, può portare a una collaborazione proficua a lungo, lunghissimo termine.

uomini d'affari giapponesi saluto a vicenda

(1) https://www.economiaediritto.it/la-negoziazione-commerciale-nelle-relazioni-internazionali

Articolo a cura della dott.ssa Ginevra Bighini, www.negoziazioneinterculturale.wordpress.com

Mentoring a cura del dott. Daniele Trevisani, www.studiotrevisani.it

Articolo estratto dal testo “Negoziazione Interculturale. Comunicazione oltre le barriere culturali“, copyright FrancoAngeli Editore e Daniele Trevisani, pubblicato con il permesso dell’autore.

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L’ultimo step per ottenere una comunicazione costruttiva è trovare con l’interlocutore un common ground semantico-linguistico, così da chiarire i concetti e le parole chiave della negoziazione, per evitare fraintendimenti e l’inevitabile fallimento della stessa.

Il risultato della mancanza di una formazione adeguata del negoziatore è il fallimento.

Come evidenzia Zorzi (1996), la comunicazione richiede cooperazione conversazionale e lavoro sulla negoziazione dei significati.

Esiste infatti un common ground linguistico che permette ai negoziatori di uscire dall’impasse della mancanza di un vocabolario condiviso. Cercare di condividere il significato dei termini, di uscire dalla “indeterminatezza semantica”, dalla “confusione semantica”, dalle “penombre connotative” è uno degli strumenti principali del negoziatore interculturale.

Ogni parola molto radicata nel vissuto sociale – poniamo la parola “educare” – porta con sè una enorme varietà di significati possibili: educare come “plasmare”, come “ricondurre il comportamento alle regole”, far diventare il soggetto “come io lo voglio”, educare come “irreggimentare oppure educare come “far emergere il potenziale personale”, e altre.

Anche la frase “crescita aziendale” porta con se un intero, enorme, spettro di possibili significati. Per un imprenditore può significare “far aumentare il fatturato”, per un altro ancora “avere una organizzazione migliore”, per un altro “essere leader nel proprio settore come capacità di immettere nuovi prodotti sul mercato”. Ogni parola porta con sè evocati mentali (immagini mentali) del tutto soggettivi.

L’uscita dalla indeterminazione e il confronto sulla semantica è uno degli steps primari di ogni progetto che parte da basi diverse.

La regola pratica richiede di “mettere sul tavolo” della negoziazione le parole più forti e cariche di significato che stanno alla base del negoziato stesso, e chiarirle rispetto ai loro tanti significati possibili.

Sul piano interculturale, come abbiamo notato, anche concetti relativamente semplici e dati per scontati (es: “casa”, “lavoro”, “amicizia”) subiscono fraintendimenti. È opportuno quindi svolgere attività di fissazione dei confini semantici (fissazione dei significati) che permettano di precisare il linguaggio.

Costruire la base comune linguistica richiede una precisazione a più livelli. Ogni parola chiave, ogni parola o concetto in generale, può essere letto attraverso almeno quattro filtri descrittivi.

Realizziamo un esempio sulla parola italiana “gondola”. Gli attributi possibili sono:

  • Percettivi: è lunga e stretta:
  • Funzionali: si usa per trasportare i turisti;
  • Associativi: mi fa pensare a Venezia;
  • Socio-Simbolici: ricorda un’esperienza romantica, per persone di classe;
  • Enciclopedici: è composta di legno, viene usata dall’anno ….., è costruita così….

Lo stesso problema accade sul piano aziendale. Immaginiamo di realizzare una “consulenza di marketing” per conto di un cliente indiano, coreano o cinese. Dovremmo innanzitutto confrontare le due immagini mentali della parola “marketing”, capire a quale delle diverse concezioni di marketing sta pensando il cliente.

Avviare una negoziazione interculturale significa prima di tutto fare chiarezza sulle concezioni semantiche, sui significati latenti delle parole, sulle associazioni mentali, e non darle per scontate.

Tramite le tecniche associative, è possibile inoltre ricercare gli “stereotipi” che le persone possiedono rispetto ai concetti trattati. Ad esempio, trattare la formazione di un venditore significa prima di tutto fare chiarezza su quale sia l’immagine mentale del nostro interlocutore, capire cosa ci sia dietro alla parola “venditore”.

Senza chiarire questi punti ogni azione rischia di essere basata su concezioni sbagliate e creare fraintendimenti.

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www.studiotrevisani.it

www.danieletrevisani.it

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www.comunicazioneaziendale.it

www.medialab-research.com

Articolo estratto dal testo “Negoziazione Interculturale. Comunicazione oltre le barriere culturali“, copyright FrancoAngeli Editore e Daniele Trevisani, pubblicato con il permesso dell’autore.

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Nel prossimo passo verso il successo negoziale è necessario, una volta preso coscienza della propria diversità, sfruttarla strategicamente a nostro vantaggio, riconoscendo i dettagli apparenti e conseguentemente identificando i tratti culturali del nostro interlocutore.

Si negozia in azienda anche sui dettagli apparenti.

Questi dettagli apparenti – va ricordato – non rappresentano solo dettagli – ma intere visioni del mondo.

Ogni dettaglio  è – dal punto di vista semiotico – un sistema di significazione, un’antenna che comunica il contenuto di interi mondi sottostanti.

Dietro alla concentrazione temporale di un intervento formativo, o la sua distribuzione in più fasi, si colloca la filosofia del tempo, una filosofia del cambiamento graduale vs. una cultura dei risultati immediati.

La modalità stessa con cui un corso viene comunicato, preparato, ritualizzato – oppure banalizzato, denota una diversa visione delle risorse umane e l’intera cultura dell’essere umano che lavora.

È per questo motivo che la negoziazione – intesa come “costruire qualcosa assieme” – richiede impegno e scienza, partendo dalle questioni di fondo sino ai dettagli.

Esiste anche un modo diverso di osservare la negoziazione. Possiamo concentrarci sul livello di negoziazione interpersonale o su un livello di negoziazione organizzativa (aziendale, o tra enti/istituzioni). In entrambi i casi, ciò che conta è cogliere la diversa dimensione culturale e di visione del mondo che gli interlocutori possiedono.

Negoziare richiede la capacità di sedurre: la proposta deve contenere “appeal”, deve rispondere a pulsioni ed esigenze dell’interlocutore. Una proposta forzata non è negoziazione in senso stretto ma imposizione. Una condizione mal digerita, inoltre, si presta molto di più ad essere rifiutata a posteriori, disattesa, o non applicata.

Da migliaia di anni, i teorici di ogni disciplina stimolano le persone ad adattare la propria arte alle situazioni diverse in cui dovranno operare, riconoscendo la necessità di tarare la strategia verso l’interlocutore, creando una comunicazione centrata sui destinatari.

La strategia comunicativa deve quindi tenere conto dei tratti culturali della controparte.

Come evidenziano ricerche sulla accuratezza delle valutazioni interculturali, l’errore di giudizio (sbagliare nel capire con chi si ha a che fare, o decodificare male un messaggio) – un errore già presente a livello intra-culturale – viene potenziato dalle distanze culturali, ed è uno dei fattori più distruttivi nella negoziazione.

Per superare i judgment biases è necessario attivarsi, prepararsi.

La comunicazione interculturale richiede impegno, a livello di:

  • comprensione del sistema culturale con il quale si interagisce;
  • conoscenza dei valori di fondo e delle credenze dell’interlocutore;
  • identificazione sociale: quale status possiede l’interlocutore nel suo sistema di appartenenza;
  • modalità di comunicazione non verbale;
  • analisi e risoluzione di conflitti.

E ogni negoziatore interculturale dovrebbe avere nel suo curriculum forti competenze su queste materie.

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Articolo estratto dal testo “Negoziazione Interculturale. Comunicazione oltre le barriere culturali“, copyright FrancoAngeli Editore e Daniele Trevisani, pubblicato con il permesso dell’autore.

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nelle prossime pagine ci confronteremo con la definizione di “Memetica” e tenteremo di spiegare come essa sia intrinsecamente legata alla cultura aziendale. Essere consapevoli della propria cultura aziendale e personale e di quella altrui è fondamentale per la buona riuscita di qualsiasi negoziazione interculturale, che si concluderà positivamente solo se entrambe le parti si impegneranno a trovare innanzitutto un common ground.

Una vita sana (personale ma anche aziendale) richiede consapevolezza di quali credenze, valori o insegnamenti stiamo mettendo in pratica, e soprattutto riconosce il fatto che essi sono stati acquisiti dall’acculturazione, sono stati assimilati dall’ambiente circostante – dalla famiglia alla scuola alla religione – sono “entrati” ed il soggetto stesso ne è impregnato.

Gli esseri umani sono pieni di “memi”, di tracce mentali, idee, credenze, apprese dagli altri esseri umani (face-to-face) o da fonti mediate. Anche le aziende sono piene di “idee” o “tracce mentali” spesso subìte più che costruite.

La memetica – come nuova disciplina nel panorama delle scienze sociali – si occupa di come le idee o “memi” si trasmettono da persona a persona, da gruppo a gruppo, al pari di come la genetica si occupa della trasmissione dei geni e dei patrimoni ereditari.

Non appena due culture si incontrano, scopriamo che i nostri memi sono diversi da quelli altrui, ma in termini “riproduttivi” cerchiamo di replicare i nostri piuttosto che di accettare quelli degli altri.

Al centro della negoziazione interculturale non c’è solo la questione di chi “abbia ragione” sui dettagli, ma addirittura il tentativo di far sopravvivere i propri “memi”, di riprodurre la propria visione delle cose, a volte di imporla.

La negoziazione interculturale non consiste solo in un incontro tra posizioni diverse nei dettagli, ma nello scontro tra soggetti portatori di una “memetica” diversa, di una “genetica culturale” o patrimonio personale diverso.

Esiste quindi una prima forte consapevolezza che rende il negoziatore interculturale più efficace: la consapevolezza della propria cultura, dei propri “memi” attivi.

Si può accettare di tenere con sè una regola culturale, o si può decidere consapevolmente di tentare di eliminarla dal proprio modo di essere, ma solo dopo avere preso coscienza della sua esistenza (autodeterminazione culturale).

Nella comunicazione interculturale è necessario saper eliminare le tossine culturali che impediscono il buon funzionamento del Self, e sapersi aprire all’immissione di nuovi elementi. Il negoziatore interculturale è vivo – come una cellula biologica – quando aperto al proprio cambiamento e allo scambio con l’ambiente. È morto e produce esiti nefasti quando rifiuta di accettare che le diversità esistono e devono essere capite e analizzate.

L’essere interculturale è altrettanto morto quando non possiede una propria identità, accetta incondizionatamente la “memetica” altrui e rifiuta il proprio patrimonio, disperdendo quanto di buono esso abbia da offrire alla ricchezza della relazione.

Come in molte delle attività umane, un buon esito richiede la capacità di trovare un equilibrio tra (1) tendenza alla accettazione incondizionata della cultura altrui (ipocrisia culturale) e (2) tendenza all’imposizione incondizionata della propria cultura verso l’altro (imperialismo culturale).

Gli stati di coscienza alimentano le identità culturali. Essere italiano ed essere stato cresciuto nella cultura italiana produce una visione del mondo assimilabile ad uno stato di coscienza, e alcuni comportamenti – ad esempio sedersi tutti a tavola in famiglia – entrano nella sfera della normalità di quello stato di coscienza.

Si tratta di “memi” diversi che circolano: “se copi sei furbo” (cultura italiana) vs. “se copi sei un fallito” (cultura americana).

Il problema delle culture è che le loro norme non scritte entrano “senza bussare”, per osmosi, e queste norme diventano tangibili solo quando avviene un contatto con una cultura diversa. Ad esempio, uno studente italiano che offra ad un collega americano di copiare i propri compiti, per renderselo amico, anziché rafforzare un legame verrà additato, rifiutato e relegato.

Anche le aziende hanno culture tra loro diverse, così come le aree aziendali (amministrazione, vendite, acquisti, produzione) hanno culture proprie e distinte. A causa della grande varietà di input a cui si è esposti, non esiste una creatura che ragioni con gli stessi identici schemi mentali di un’altra.

In questo contesto, le persone si trovano a negoziare e a comunicare.

Negoziare significa impegnarsi attivamente nella ricerca di una soluzione che soddisfi due o più interlocutori che partono da posizioni  culturalmente diverse, facendo emergere (1) le differenze latenti e (2) le basi comuni su cui poggiare.

Stiamo negoziando mentre trattiamo un prezzo o un acquisto – e questo è evidente – ma anche mentre si discute su quale film vedere (sentimentale o d’azione), o cosa fare nel weekend o in vacanza (mare, montagna, riposo, lavoro, visite familiari, sport) partendo da gusti e preferenze diverse.

In una famiglia, una negoziazione su “quale vacanza fare” sarà ampiamente improduttiva se parte dalla discussione di specifici dettagli quale il nome dell’albergo o della località, e non si addentra – prima di tutto – sulla ricerca del common ground esperienziale.

Anche tra aziende, è inopportuno e rischioso avviare una negoziazione sui dettagli (prezzo, ore, date, luoghi) senza aver definito quale tipo di relazione si desidera (anche solo “desidera”, non necessariamente “impone”).

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Articolo estratto dal testo “Negoziazione Interculturale. Comunicazione oltre le barriere culturali“, copyright FrancoAngeli Editore e Daniele Trevisani, pubblicato con il permesso dell’autore.

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Continuiamo a parlare di comunicazione e negoziazione interculturale cercando questa volta di concentrarci sulla percezione di noi stessi per sbloccare le rigidità cognitive e prendere coscienza della nostra personale visione del mondo.

La comunicazione interculturale può essere concepita come un contatto tra diversi stati di coscienza, un ponte tra universi mentali distanti.

Ogni cultura mette il soggetto nella condizione di prestare più attenzione a certi aspetti del mondo e di trascurarne o ignorarne altri.

Secondo l’ipotesi Sapir-Whorf e gli studi di psicolinguistica, lo stesso linguaggio forma una struttura della realtà e plasma la realtà che vediamo.

Ogni essere umano percepisce la realtà in modo diverso, per cui (per quanto difficile sia da accettare) non esiste “una realtà” ma più realtà a seconda degli schemi mentali utilizzati per la percezione (multiple reality theory). Dieci persone diverse, in un viaggio comune, daranno dieci resoconti diversi dello stesso viaggio, pur essendo stati esposti agli stessi fenomeni esterni. Un fenomeno esterno (presunta realtà oggettiva) non produce automaticamente la stessa esperienza soggettiva del fenomeno (realtà percettiva).

Questo per alcuni è inaccettabile, il rifiuto di tale concetto produce rigidità umana e manageriale, conflitti, guerre, disastri economici, e fallimenti aziendali.

L’incomunicabilità nasce persino all’interno dell’individuo stesso, che si trova dissociato tra il proprio Sè cosciente (ad esempio l’identità professionale) e il proprio inconscio (sede dei sogni, aspirazioni, pulsioni ancestrali ed istinti).

L’individuo che non comunica con se stesso (ad esempio, nel dialogo interiore tra componente razionale, emozioni e istinto animale) ha difficoltà a riconoscere i propri stati emotivi, non capisce alcuni dei suoi comportamenti o non sa darsene una spiegazione, vorrebbe essere in un modo – es: estroverso, assertivo, tranquillo, integrato, a suo agio, sicuro, flessibile – e si trova nella condizione opposta, non riuscendo a capire perché.

Allo stesso tempo, l’individuo che “non si conosce” applica regole e schemi culturali senza esserne conscio, agisce senza consapevolezza di quali norme, principi, precetti, canoni, direzioni, usanze, linee guida o teorie implicite stia utilizzando.

Il problema della incomunicabilità ha origini sociali. Nel pieno dello sviluppo della propria espressività il bambino e l’adolescente imparano che ad essere sinceri nascono problemi, e che dedicare tempo agli altri è una perdita di risorse. Nascono gli stereotipi, le regole preconfezionate, gli schemi mentali da fluidi diventano rigidi e si consolidano sotto forma di credenze e dogmi.

Mentre i sistemi educativi formali sostengono l’importanza dell’espressività e della comunicazione, i comportamenti educativi reali insegnano invece esattamente il contrario: chiudersi, difendersi, non lasciarsi andare, essere sospettosi, non far capire come ci si sente “altrimenti gli altri se ne approfittano”.

Anche le aziende insegnano questo (regola basilare del “non fidarsi”) tramandata dall’esperienza degli “anziani” d’azienda ai giovani. Accade infatti che nella realtà dell’impresa, l’onestà altrui non sia assolutamente da dare per scontata, le intenzioni nemmeno, e si crei una condizione di allerta permanente, un clima di sospetto che permea ogni avvio di relazione e ogni negoziazione.

Questo clima ha solide basi nella realtà dei fatti e non è una pura costruzione.

Tuttavia, tale condizione di “allerta” deve diventare una scelta tattica consapevole e non uno stato costante fissato a priori, una “ingessatura inamovibile” o blocco cognitivo che impedisce un confronto. Solo da un confronto aperto e da reali prove comportamentali si potrà capire se la controparte ha intenzioni serie o è affidabile.

Molti manager sono invece ingessati in modo inamovibile in una condizione di chiusura e rigidità (irrigidimento cognitivo) e questo impedisce loro di negoziare efficacemente. Poco a poco, il blocco delle espressioni esterne diventa incapacità di riconoscere ciò che ci accade all’interno.

La realtà dei fatti è piena di persone che non riescono a spiegare il proprio bisogno (se si acquista) o il proprio valore (se si vende).

In queste condizioni, il monolite ingessato si trova a fare business, a negoziare, a dover comunicare, esprimersi, a volte persino deve capire gli altri (compito arduo) e ascoltare (compito quasi impossibile), e non ci riesce.

Esiste quindi un meta-obiettivo per ogni persona e gruppo: lo sblocco delle rigidità cognitive.

È indispensabile lavorare per riconoscere i propri stereotipi e credenze (o, come affronteremo nel volume sulle tecniche avanzate, i propri “prototipi cognitivi”), agire attivamente per capirli, identificare i propri stati di incomunicabilità, impegnarsi per eliminarla o ridurla, non attendere che la comunicazione migliori passivamente o “per miracolo”, ma impegnarsi in prima persona, come priorità assoluta.

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Articolo estratto dal testo “Negoziazione Interculturale. Comunicazione oltre le barriere culturali“, copyright FrancoAngeli Editore e Daniele Trevisani, pubblicato con il permesso dell’autore.

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Nella lettura di oggi andiamo a scoprire che non basta conoscere il prodotto al 100% per completare con successo una negoziazione interculturale, poiché si rendono necessari altri due elementi: “compatibility” e formazione trasformazionale.

In ogni team esiste un problema di selezione (come si entra, che caratteristiche ha chi entra) e di formazione (come far crescere i membri del team). Quando la prima fase è errata, quando le persone sono mal selezionate, gli errori si ripercuotono a catena.

La formazione generalmente si prefigge di incrementare le prestazioni e conoscenze esistenti (formazione incrementale), e raramente viene utilizzata con lo scopo di agire in profondità sulla personalità per cambiarla (formazione trasformazionale).

In ambienti estremi, l’American Institute of Medicine ha iniziato a studiare seriamente il “Crew performance breakdown” (rottura della performance dell’equipaggio) tra astronauti costretti a convivere in uno spazio limitato per lungo tempo.

Molti incidenti aerei e spaziali sono stati causati da dinamiche di incomunicabilità tra l’equipaggio (incomunicabilità intragruppo) o tra equipaggio e altri crew (crew: gruppi di lavoro, equipaggi) – quali i controllori di terra – (incomunicabilità intergruppo). Per questi motivi, la Human Factors Research and Technology Division della NASA ha inserito criteri addizionali di selezione per minimizzare i rischi della incomunicabilità intragruppo già partendo dalla selezione delle risorse umane, valutando quindi non solo le abilità scientifiche ma anche le competenze interpersonali e di comunicazione.

Tra i criteri di selezione, inoltre, non si valutano più solo skills individuali, ma viene svolta una analisi della “compatibility” (compatibilità con il gruppo e capacità di vivere nel gruppo).

Per le aziende esiste una implicazione: (1) non tutti sono adatti a negoziare, e (2) ancora meno a farlo interculturalmente. Ogni errore di comunicazione interculturale svolto da un venditore che opera all’estero (es: un area manager) o da un imprenditore, può significare un contratto in meno.

I negoziatori interculturali devono essere adeguatamente selezionati partendo dalla loro capacità di apertura alle culture diverse, flessibilità mentale e competenze comunicative, e non solo in base alla loro esperienza aziendale o preparazione sul prodotto.

Non importa quindi essere in un team di astronauti americani, cinesi e russi – nello spazio – per occuparsi di incomunicabilità e difficoltà interculturali. Gli studi sulla comunicazione interculturale toccano tutti – la scuola, l’educazione, la famiglia, l’azienda. Esplorano ad esempio nuovi strumenti di intercultural mentorship (supporto all’adattamento interculturale) e le strategie usate dai mentors per migliorare le competenze interculturali, oppure i problemi del World Business e della globalizzazione economica, le sue implicazioni sulla negoziazione tra persone che appartengono a culture diverse.

Questi studi analizzano i problemi degli stereotipi, dei cambiamenti di percezione reciproca provocati dalle esperienze di interazione diretta, della frustrazione o confusione sperimentata nelle cross-cultural business interactions.

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Troppo spesso dalle società sono stati sottovalutati gli effetti dell’incomunicabilità, che lesionano le performance aziendali, impedendo al gruppo di raggiungere gli obiettivi prefissati. Solo attraverso la comunicazione costruttiva è infatti possibile tradurre lo sforzo collettivo in successo.

L’incomunicabilità è la condizione che impedisce alle persone di entrare in contatto profondo e condividere il pensiero. La comunicazione costruttiva si prefigge invece di attivare uno scambio significativo tra due o più menti per poter “costruire qualcosa assieme”.

L’essenza stessa della negoziazione è un tentativo di “costruire assieme,” mosso dalla necessità di “agire con” per raggiungere scopi che nessuna delle parti – da sola – è in grado di raggiungere (“agire senza”).

La necessità di dover cooperare porta le persone e le aziende a dover scambiare qualcosa, incontrarsi, e in un certo senso le obbliga a comunicare.

Moltissime persone, sul pianeta, sperimentano l’incomunicabilità ogni giorno, e desiderano passare ad una comunicazione più costruttiva, lo desiderano col cuore, ma non sanno come farlo. Mancano letteralmente gli strumenti operativi – nella scuola e nell’azienda – per affrontare sistematicamente il problema dell’incomunicabilità e dirottare le energie verso la comunicazione costruttiva.

Possiamo subito immaginare quali siano gli effetti di un incontro negoziale o di una relazione umana dominata dall’incomunicabilità: conflitto, incomprensione, disaccordo, ansia, distanza. Il nostro scopo è capire su quali leve agire per trasformare una possibile incomunicabilità in un incontro costruttivo.

L’incomunicabilità è la condizione che impedisce alle persone di entrare in contatto profondo e condividere il pensiero. La comunicazione costruttiva si prefigge invece di attivare uno scambio significativo tra due o più menti per poter “costruire qualcosa assieme”.

L’essenza stessa della negoziazione è un tentativo di “costruire assieme,” mosso dalla necessità di “agire con” per raggiungere scopi che nessuna delle parti – da sola – è in grado di raggiungere (“agire senza”).

La necessità di dover cooperare porta le persone e le aziende a dover scambiare qualcosa, incontrarsi, e in un certo senso le obbliga a comunicare.

Moltissime persone, sul pianeta, sperimentano l’incomunicabilità ogni giorno, e desiderano passare ad una comunicazione più costruttiva, lo desiderano col cuore, ma non sanno come farlo. Mancano letteralmente gli strumenti operativi – nella scuola e nell’azienda – per affrontare sistematicamente il problema dell’incomunicabilità e dirottare le energie verso la comunicazione costruttiva.

Possiamo subito immaginare quali siano gli effetti di un incontro negoziale o di una relazione umana dominata dall’incomunicabilità: conflitto, incomprensione, disaccordo, ansia, distanza. Il nostro scopo è capire su quali leve agire per trasformare una possibile incomunicabilità in un incontro costruttivo.

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