Articolo estratto dal testo “Negoziazione Interculturale. Comunicazione oltre le barriere culturali“, copyright FrancoAngeli Editore e Daniele Trevisani, pubblicato con il permesso dell’autore.

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nelle prossime pagine ci confronteremo con la definizione di “Memetica” e tenteremo di spiegare come essa sia intrinsecamente legata alla cultura aziendale. Essere consapevoli della propria cultura aziendale e personale e di quella altrui è fondamentale per la buona riuscita di qualsiasi negoziazione interculturale, che si concluderà positivamente solo se entrambe le parti si impegneranno a trovare innanzitutto un common ground.

Una vita sana (personale ma anche aziendale) richiede consapevolezza di quali credenze, valori o insegnamenti stiamo mettendo in pratica, e soprattutto riconosce il fatto che essi sono stati acquisiti dall’acculturazione, sono stati assimilati dall’ambiente circostante – dalla famiglia alla scuola alla religione – sono “entrati” ed il soggetto stesso ne è impregnato.

Gli esseri umani sono pieni di “memi”, di tracce mentali, idee, credenze, apprese dagli altri esseri umani (face-to-face) o da fonti mediate. Anche le aziende sono piene di “idee” o “tracce mentali” spesso subìte più che costruite.

La memetica – come nuova disciplina nel panorama delle scienze sociali – si occupa di come le idee o “memi” si trasmettono da persona a persona, da gruppo a gruppo, al pari di come la genetica si occupa della trasmissione dei geni e dei patrimoni ereditari.

Non appena due culture si incontrano, scopriamo che i nostri memi sono diversi da quelli altrui, ma in termini “riproduttivi” cerchiamo di replicare i nostri piuttosto che di accettare quelli degli altri.

Al centro della negoziazione interculturale non c’è solo la questione di chi “abbia ragione” sui dettagli, ma addirittura il tentativo di far sopravvivere i propri “memi”, di riprodurre la propria visione delle cose, a volte di imporla.

La negoziazione interculturale non consiste solo in un incontro tra posizioni diverse nei dettagli, ma nello scontro tra soggetti portatori di una “memetica” diversa, di una “genetica culturale” o patrimonio personale diverso.

Esiste quindi una prima forte consapevolezza che rende il negoziatore interculturale più efficace: la consapevolezza della propria cultura, dei propri “memi” attivi.

Si può accettare di tenere con sè una regola culturale, o si può decidere consapevolmente di tentare di eliminarla dal proprio modo di essere, ma solo dopo avere preso coscienza della sua esistenza (autodeterminazione culturale).

Nella comunicazione interculturale è necessario saper eliminare le tossine culturali che impediscono il buon funzionamento del Self, e sapersi aprire all’immissione di nuovi elementi. Il negoziatore interculturale è vivo – come una cellula biologica – quando aperto al proprio cambiamento e allo scambio con l’ambiente. È morto e produce esiti nefasti quando rifiuta di accettare che le diversità esistono e devono essere capite e analizzate.

L’essere interculturale è altrettanto morto quando non possiede una propria identità, accetta incondizionatamente la “memetica” altrui e rifiuta il proprio patrimonio, disperdendo quanto di buono esso abbia da offrire alla ricchezza della relazione.

Come in molte delle attività umane, un buon esito richiede la capacità di trovare un equilibrio tra (1) tendenza alla accettazione incondizionata della cultura altrui (ipocrisia culturale) e (2) tendenza all’imposizione incondizionata della propria cultura verso l’altro (imperialismo culturale).

Gli stati di coscienza alimentano le identità culturali. Essere italiano ed essere stato cresciuto nella cultura italiana produce una visione del mondo assimilabile ad uno stato di coscienza, e alcuni comportamenti – ad esempio sedersi tutti a tavola in famiglia – entrano nella sfera della normalità di quello stato di coscienza.

Si tratta di “memi” diversi che circolano: “se copi sei furbo” (cultura italiana) vs. “se copi sei un fallito” (cultura americana).

Il problema delle culture è che le loro norme non scritte entrano “senza bussare”, per osmosi, e queste norme diventano tangibili solo quando avviene un contatto con una cultura diversa. Ad esempio, uno studente italiano che offra ad un collega americano di copiare i propri compiti, per renderselo amico, anziché rafforzare un legame verrà additato, rifiutato e relegato.

Anche le aziende hanno culture tra loro diverse, così come le aree aziendali (amministrazione, vendite, acquisti, produzione) hanno culture proprie e distinte. A causa della grande varietà di input a cui si è esposti, non esiste una creatura che ragioni con gli stessi identici schemi mentali di un’altra.

In questo contesto, le persone si trovano a negoziare e a comunicare.

Negoziare significa impegnarsi attivamente nella ricerca di una soluzione che soddisfi due o più interlocutori che partono da posizioni  culturalmente diverse, facendo emergere (1) le differenze latenti e (2) le basi comuni su cui poggiare.

Stiamo negoziando mentre trattiamo un prezzo o un acquisto – e questo è evidente – ma anche mentre si discute su quale film vedere (sentimentale o d’azione), o cosa fare nel weekend o in vacanza (mare, montagna, riposo, lavoro, visite familiari, sport) partendo da gusti e preferenze diverse.

In una famiglia, una negoziazione su “quale vacanza fare” sarà ampiamente improduttiva se parte dalla discussione di specifici dettagli quale il nome dell’albergo o della località, e non si addentra – prima di tutto – sulla ricerca del common ground esperienziale.

Anche tra aziende, è inopportuno e rischioso avviare una negoziazione sui dettagli (prezzo, ore, date, luoghi) senza aver definito quale tipo di relazione si desidera (anche solo “desidera”, non necessariamente “impone”).

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