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Articolo estratto con il permesso dell’autore dal testo di Daniele TrevisaniIl potenziale umano. Metodi e tecniche di coaching e training per lo sviluppo delle performance”. Franco Angeli editore, Milano.

Essere consapevoli dei propri strumenti operativi (tools funzionali) e dei propri strumenti analitici e conoscitivi di base (meta-strumenti)

Se credo di poterlo fare,

acquisirò sicuramente la capacità di farlo,

anche se all’inizio non dovessi averla

Mahatma Gandhi

L’autoefficacia è un concetto che fa riferimento al “senso delle proprie possibilità”. La coscienza di ciò che è veramente nella sfera delle nostre possibilità e quello che non lo è in un certo momento, ci permette di fare letture corrette della situazione e dei compiti che ci attendono, senza cadere vittima di demoralizzazione precoce o inutile.

Bandura[1], sviluppatore del concetto sul piano scientifico, considera che l’autoefficacia percepita sia un insieme di credenze che le persone possiedono rispetto alle loro capacità di produrre livelli designati di performance specifiche (non generali), esercitare influenza sugli eventi e sulle proprie vite.

Include, inoltre, l’atteggiamento positivo verso la capacità di raccogliere sfide o porsi nuove sfide.

Nel nostro metodo, riteniamo che l’autoefficacia dipenda largamente dall’autostima ma anche dalla consapevolezza corretta, non distorta, dei repertori di esperienze e competenze possedute e di ciò che con quei repertori possiamo fare. Spesso queste possibilità sono enormi e inesplorate.

L’autoefficacia produce il fatto di non abbandonare di fronte a punti d’arresto, perseverare (resilienza),  lavorando per ottimizzare i propri progetti, consapevoli della forza intrinseca che essi possono avere.

Come evidenziato in un articolo del Wall Street Journal, in un brano dal titolo illuminante: “Se all’inizio non hai successo, sei in una azienda eccellente”, i veri successi sono spesso preceduti da dinieghi o porte chiuse[2].

Tra i casi citati: il libro di J. K. Rowling rifiutato da 12 editori prima che una piccola casa editrice londinese lo pubblicasse come “Harry Potter e la Pietra Filosofale”, un successo mondiale. La Decca Records che, in uno dei primi provini dei Beatles, disse “non ci piace il loro suono”. Walt Disney fu licenziato da un editor di un giornale, dicendo che egli “mancava di immaginazione.” Michael Jordan (il più grande giocatore di basket della storia) non venne considerato da ragazzino all’altezza del team di basket della sua scuola superiore.

Senza una sana dose di autoefficacia e di resilienza, queste persone avrebbero abbandonato la propria strada.

L’autoefficacia richiede la consapevolezza dei propri strumenti operativi (tools funzionali) e dei propri strumenti analitici e conoscitivi di base (meta-strumenti). Sapere di poter imparare vale più della conoscenza in sé.

Se diminuisce la percezione di disporre di tali strumenti, prevalgono atteggiamenti di rinuncia, la continua richiesta di aiuto anche su ciò che è invece nel nostro campo di fattibilità, l’immagine di “non essere ancora pronto per…”, o il sentimento negativo “non fa per me, e non ci posso nemmeno provare, o prepararmi per…”.

L’autoefficacia richiede un certo grado di accettazione ragionata del rischio e la consapevolezza che – per molti task – non è indispensabile la perfezione prima di poter passare all’azione. Spesso è sufficiente una dose di comprensione (attuale o potenziale) della materia, un buon spirito di adattamento e una buona capacità generale di problem solving, per poter affrontare larga parte dei problemi o sfide manageriali, sportive, o personali.

La consapevolezza delle proprie meta-competenze è un punto basilare.

Non è necessario avere già fatto qualcosa per sentire di poterlo fare, ma è indispensabile avere coscienza della propria capacità di generare soluzioni, di analizzare problemi, di comprendere dinamiche, e sapere di poter apprendere. Questi meta-fattori aiutano ad accettare anche sfide e compiti sui quali non esiste ancora esperienza specifica diretta o consolidata.

L’autoefficacia non deve diventare sensazione di onnipotenza o delirio, va dovutamente bilanciata con la saggezza e senso pratico, ma questi ancoraggi al realismo non devono impedire di perseguire un sogno difficile che abbia qualche probabilità di successo. La paura di fallire o incontrare difficoltà non deve fermare aspirazioni giuste e sogni sfidanti.

Il caso di un docente cui viene chiesto di fare una lezione su temi non esattamente pertinenti alla propria formazione, ma vicini, è un esempio concreto. La flessibilità mentale è un fattore vincente.

Un docente che insegna statistica ed ha basso livello di autoefficacia non accetterà di insegnare una materia come la Qualità Totale (trovandovi molte differenze rispetto alla propria), mentre al contrario sarebbe assolutamente fattibile. Tale materia è ampiamente basata su metodi statistici. Aumentando l’autoefficacia, la stessa persona potrà lanciarsi verso l’insegnamento di Qualità Totale, ma anche altro, es.: Metodi di Ricerca, sapendo di avere sia una buona base e soprattutto le capacità di apprendimento che servono per poter acquisire ciò che manca.

In sostanza, quel docente conosce già almeno il 90% di un possibile programma, e sa che potrà apprendere il rimanente 10% con poco sforzo. Un individuo con bassa autoefficacia si concentrerà sul 10% da apprendere e sul come apprenderlo, un individuo con bassa autoefficacia lo vedrà come “quel 10% che manca, per cui non si può fare”. Una differenza notevole!

Lo stesso vale per un istruttore di karatè cui viene richiesto di insegnare difesa personale. Un istruttore con alto livello di autoefficacia capirà immediatamente che le sue skill di base sono ampiamente sufficienti ad insegnare a qualcuno come difendersi, e se percepisce una lacuna nel suo set di conoscenze si adopererà per colmarla. Un istruttore con basso livello di autoefficacia coglierà ogni possibile “scusa” per non farlo: “non è la mia materia”, “non so come si faccia”, “non sono preparato” etc.

Un’alta autoefficacia è basata sull’orientamento a cogliere, in ogni sfida, ciò che è fattibile, ciò che è realizzabile o quantomeno tentabile, e la ricerca autonoma di strumenti per colmare le eventuali carenze.

Una bassa autoefficacia vede la dominanza di un orientamento a cogliere la parte negativa della sfida, la concentrazione prevalente sulle proprie lacune e non sulle proprie possibilità, l’assenza di sforzi per dotarsi di strumenti ulteriori che permetterebbero di sentirsi all’altezza.

Allo stesso tempo, l’autoefficacia si correla alla consapevolezza di dove, quanto e come siamo in grado di potercela fare da soli. Questo punto (indipendenza e autonomia) non deve essere confuso con una chiusura verso l’esterno e verso l’aiuto. Autoefficacia anzi significa anche capire e volere l’aiuto che serve a compiere un progetto, ma con una consapevolezza di dove realmente si colloca il confine delle proprie capacità autonome e dove è importante ricercare aiuto. Coltivare coscienza di sé è fondamentale.

Le persone che sviluppano un alto livello di autoefficacia hanno credenze positive sulle loro capacità di raggiungere i goal, accettano sfide superiori, e provano con maggiore forza e impegno a raggiungere i loro obiettivi, dando il massimo delle loro capacità.

Chi ha una alta autoefficacia, pensa, agisce e affronta una sfida come se stia per avere successo. Chi ha bassa auto efficacia intraprende la sfida dandosi per perdente dall’inizio.

Diventa essenziale per ogni coach o counselor capire a quali modelli di autoefficacia sia stata esposta una persona, quali abbia assimilato, quali siano attivi, e soprattutto se vi siano dissonanze interiori o modeling negativi da fonte genitoriale o sociale, attivi sulla persona.


[1] Bandura, A. (1994), Self-efficacy, in V. S. Ramachaudran (Ed.), Encyclopedia of human behavior (vol. 4, pp. 71-81), Academic Press, New York (Reprinted in H. Friedman [Ed.], Encyclopedia of mental health, San Diego, Academic Press, 1998).

Bandura, A. (1986), Social foundations of thought and action: A social cognitive theory, Englewood Cliffs, NJ, Prentice-Hall.

Bandura, A. (1991a), Self-efficacy mechanism in physiological activation and health-promoting behavior, in J. Madden, IV (Ed.), Neurobiology of learning, emotion and affect (pp. 229- 270), Raven, New York.

Bandura, A. (1991b), Self-regulation of motivation through anticipatory and self-regulatory mechanisms, in R. A. Dienstbier (Ed.), Perspectives on motivation: Nebraska symposium on motivation (Vol. 38, pp. 69-164), University of Nebraska Press, Lincoln.

[2] Beck, M. (2008), If at First You Don’t Succeed, You’re in Excellent Company, The Wall Street Journal, April 29, p. D1.

Alcune domande chiave da porsi o da porre in termini di coaching:

  • Che desideri stai frenando per colpa di competenze che ti mancano?
  • In quali campi ti senti efficace e in quali meno?
  • Guardandoti indietro, cosa tenteresti adesso? Quali progetti, idee o ambizioni hai frenato perché non ti consideravi all’altezza?
  • Guardando avanti, cosa ti darebbe soddisfazione, cosa vorresti dire di aver fatto tra 10 anni?
  • Di cosa ti pentiresti se dovessi pensare di morire senza aver fatto qualcosa cui tieni? Cosa in particolare?
  • Cosa vorresti poter dire di aver fatto di buono, la prossima settimana?
  • Facciamo un elenco di idee o progetti anche ambiziosi che ti darebbero gratificazione, sogniamo ad occhi aperti per un pò.
  • Se dovessimo pensare ad una tua giornata ideale, come sarebbe?
  • In un anno ideale, cosa faresti?
  • Quanto siamo lontani adesso da (… sentirsi bene, sentirsi felici, sentirsi gratificati, aver raggiunto i tuoi scopi, etc…), e perché secondo te?

Nell’osservare i propri ragionamenti, o quelli di un cliente, ci si potrà concentrare non solo sui contenuti, ma anche sul senso generale di possibilità, di autoefficacia, di padronanza, sulle auto-percezioni, sulle credenze che trasudano, sugli archetipi di sè che emergono, sullo spirito di avventura e ricerca, o invece di rinuncia e disfattismo che permeano la persona. Su questi sarà importante lavorare seriamente, ancor più che sui contenuti.

Principio 7 – Autoefficacia

Le energie mentali diminuiscono o si esauriscono quando:

  • l’individuo non è consapevole delle proprie potenzialità reali;
  • l’individuo non è consapevole di come le proprie meta-competenze possano trasformarsi in competenze applicative su nuovi compiti;
  • l’individuo coglie prevalentemente gli aspetti di difficoltà di una sfida e non quelli di fattibilità;
  • l’individuo non si attiva in una ricerca autonoma di strumenti per colmare i propri gaps percepiti;
  • l’individuo sviluppa eccessiva dipendenza sugli altri per portare a termine un compito e non sa contare sulle proprie forze interiori, o percepirle correttamente.

Le energie mentali aumentano quando:

  • l’individuo prende coscienza delle proprie potenzialità, sia teoriche, che per prova diretta;
  • l’individuo prende coscienza delle proprie meta-competenze e della possibilità di tradurle in competenze applicative in campi nuovi;
  • l’individuo tiene in considerazione i margini di fattibilità di una sfida e non solo quelli di difficoltà, applicandosi per aumentare le opzioni positive;
  • l’individuo è proattivo e si adopera attivamente in interventi che aumentano le proprie risorse o colmano gap, e in progetti di apprendimento e accrescimento;
  • l’individuo ha pieno accesso alla proprie forze interiori, sa individuare bene quante e quali sono le proprie energie, competenze e abilità.

Altri materiali su Comunicazione, Coaching, Formazione, Potenziale Umano, Crescita Personale e Professionale, disponibili in questi siti e link:

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© Articolo estratto con il permesso dell’autore, Dott. Daniele Trevisani dal libro “Ascolto Attivo ed Empatia. I segreti di una comunicazione efficace. Milano, Franco Angeli

L’ascolto in azienda come risorsa pregiata

L’ascolto in azienda tocca un’enorme quantità di situazioni. Ecco un decalogo di casistiche reali e concrete:

  1. ascoltare un collega che ci espone un problema e capirlo fino in fondo;
  2. ascoltare un cliente per capirne le esigenze, far emergere ciò che è veramente meglio per lui, fare un lavoro consulenziale;
  3. ascoltare più persone, più ruoli aziendali, mentre si è da un cliente in una riunione o meeting, o mentre il cliente è da noi, per capire un quadro di esigenze variegato e complesso dove subentrano più decisori, non sempre in accordo tra loro;
  4. ascoltare un collaboratore che ci espone un problema, o vuole un consiglio da noi, ed evitare di cadere nel tranello del “consiglio rapido” ma ascoltarlo per bene prima di esprimersi;
  5. ascoltare un collega che ci espone un progetto, e farlo senza preconcetti e preclusioni;
  6. ascoltare un “capo”, capirne gli input, chiarificarli se necessario;
  7. ascoltare i climi aziendali, capire “che aria tira” in un certo reparto o nell’intera azienda;
  8. ascoltare in una riunione, essere presenti mentalmente, notare cosa accade “oltre le parole”;
  9. ascoltare il “word of mouth” (passaparola) e lo “small talk” (il chiacchiericcio), le conversazioni informali che si creano alla macchina del caffè piuttosto che nei corridoi, spesso portatrici di informazioni molto preziose che non entrano nei tavoli ufficiali di discussione;
  10. saper ascoltare noi stessi, il nostro corpo, la nostra mente, come stiamo, come è il nostro umore.

Per ciascuna di queste aree, l’ascolto è fondamentale.

E come vediamo, lo diventa anche quando vogliamo ascoltare noi stessi a fondo. Buhler ci offre una serie di ottime domande:

“Che cosa ti rende prezioso per le altre persone? Sono forse le tue esperienze, il tuo sapere, la fiducia che tu ispiri, la comprensione che tu dimostri? Quali sono le qualità che apprezzi di più in te stesso? Quali sono le esperienze da te già vissute che possono ritornare utili, a te e forse ad altre persone?”

In un’azienda dove non si ascolta si commettono errori, si creano climi tossici, si sbagliano progetti. In un’azienda dove si ascolta, regna un clima collaborativo e le procedure funzionano, i progetti avanzano, i clienti sono soddisfatti.

L’ascolto non è mai vago ma si concentra in un campo situazionale della persona, ovvero il panorama psicologico del cliente/interlocutore, sia esso persona individuale, o individuo che ricopre un ruolo all’interno di un’organizzazione.

Il campo situazionale è l’insieme degli oggetti mentali cui stiamo prestando attenzione in un determinato momento.

Ogni persona è contornata da una moltitudine di situazioni, di messaggi e stimoli, ma solo pochi di questi entrano nel sistema percettivo, nella sua attenzione consapevole.

Nel caso sopra visualizzato, solo gli elementi E ed F sono percepiti chiaramente dal cliente, mentre gli altri rimangono latenti, come invisibili – seppur presenti.

Bene, l’ascolto è una pratica dalla potenza tale, da far spostare il campo situazionale, portando l’attenzione verso altre zone, con domande giuste e pertinenti.

Capire il panorama psicologico di una persona, il “sistema cliente” che un ascoltatore si trova a fronteggiare, cosa vi è incluso, cosa il cliente pensa, cosa non pensa, è uno dei compiti più impegnativi.

La riflessione aiutata da un ascoltatore professionale ha effetti positivi sul campo psicologico:

  1. capire meglio chi siamo e dove vogliamo arrivare,
  2. esplorare e costruire il proprio futuro,
  3. costruire attivamente i propri obiettivi,
  4. identificare nel campo psicologico i veri problemi,
  5. eliminare dal proprio orizzonte le soluzioni/spazzatura, saperle finalmente riconoscere,
  6. ridurre l’ansietà ed il senso di smarrimento che qualsiasi persona oggi manifesta data l’enormità delle opzioni e alternative esistenti.

In questo capitolo, evidenzieremo quindi come esista una continuità tra (a) relazione professionale che utilizza il modello T-Chart, (b) consulenza basata sull’ascolto e (c) coaching e/o counseling.

L’operatore professionale che utilizza il T-Chart è tale se riesce a capire, costruire o ricostruire l’orizzonte psicologico del soggetto, se è in grado di aiutare il cliente o collaboratore a ridurre le proprie tensioni, le proprie ansie o persino a ri-orientare e ri-centrare il campo psicologico in una direzione più produttiva e pulita.

Nel caso sopra evidenziato, il professionista riesce

1 – ad eliminare il focus (l’attenzione del cliente) da elementi inutili o controproducenti che ingombravano il campo (E ed F);

2 – a spostare l’attenzione verso nuovi elementi, A, B, D, che erano presenti ma scarsamente percepiti o non percepiti del tutto, creando nuove priorità.

Per farlo, deve porre “domande potenti”, domande che inneschino una forte dose di introspezione.

E non pensiamo che spostare l’attenzione di qualcuno sia semplice, non lo è affatto, ma se esiste uno strumento, questo è dato dalle domande potenti.

Le domande devono interessarsi profondamente ai problemi del cliente, in un rapporto che diventa consulenziale. L’effetto collaterale, indiretto e positivo, delle attività di problemsolving che utilizzano il metodo T-Chart è dato dal potere terapeutico di cui esso dispone

La chiarificazione del quadro psicologico, il reperimento di soluzioni efficaci, generano l’effetto di ridurre la tensione e lo stato di dissonanza cognitiva del cliente o collaboratore.

Il T-Chart si basa su tecniche di intervista che sollecitano e fanno emergere i bisogni. Esponiamo un primo caso di studio (semplificato) che evidenzia la valenza della tecnica di intervista. Nel caso esposto di seguito, vengono utilizzate solo alcune piccole porzioni della tecnica T-Chart, in quanto il bagaglio della tecnica è in realtà molto più complesso. Tuttavia, riteniamo utile esporre un primo brano di esperienza per poi arricchirlo lungo il percorso del capitolo.

Caso di studio: “domande potenti

Un avvocato interpella un consulente informatico per aumentare la capacità di memoria del PC. L’opinione dell’avvocato è che così facendo il computer avrà maggiori prestazioni.

Il consulente informatico ritiene necessario svolgere un’analisi del sistema software e hardware del cliente. Grazie alla sua esperienza nell’analisi emerge un altro problema molto forte: la sicurezza dei dati. I backup sono su un solo disco supplementare situato sempre all’interno dello studio. Alcune domande di stimolazione: Che dati ha nel computer? Sono importanti? Quanto tempo di produzione le hanno richiesto?

Il consulente informatico sposta l’attenzione al nuovo campo situazionale con domande indirizzanti: Dove altro sono presenti i suoi files al di fuori di questo locale? Cosa rischiamo se perdiamo questi dati? Quanto tempo occorrerebbe per ricostruirli?

La riflessione guidata sposta l’attenzione dell’avvocato sul nuovo campo situazionale: la perdita dei dati, e la convinzione che i dati ora non siano affatto sicuri. Un incendio nello studio dell’avvocato potrebbe determinare la perdita del lavoro di una vita.

La soluzione finale proposta (upgrade del computer + creazione di un sistema di backup professionale su server esterni) riduce l’ansia latente del cliente, producendo effetti positivi immediati. “Perdere tutto il lavoro di una vita. Come ho fatto finora a convivere con questa possibilità?” – si chiede ora l’avvocato.

Il consulente ha quindi risposto all’esigenza di migliorare le prestazioni (velocità) ma si è posto un problema molto maggiore: Cosa serve davvero al mio cliente, di cui egli ora non si rende nemmeno conto? Perché preoccuparsi solo di velocità del PC se poi i documenti sono alla mercé di qualsiasi hacker o di un incendio?

La relazione consulenziale ha risposto ad esigenze importanti, eticamente ineccepibili, ma per farlo il consulente informatico ha dovuto esplorare, ha dovuto fare “domande potenti”, non si è limitato a fornire “memoria per il PC” come richiesto inizialmente dal cliente.

L’esperienza di acquisto tramite il metodo T-Chart è per il cliente un momento di riorganizzazione della realtà, la presa di possesso del proprio orizzonte psicologico che a volte è smarrito o offuscato dalle preoccupazioni quotidiane, dall’ansia, o semplicemente dalla carenza di informazioni.

Altri materiali su Comunicazione, Ascolto, Empatia, Potenziale Umano e Crescita Personale disponibili in questi siti e link:

Altre risorse online

© Articolo estratto con il permesso dell’autore, Dott. Daniele Trevisani dal libro “Ascolto Attivo ed Empatia. I segreti di una comunicazione efficace. Milano, Franco Angeli

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Restando sempre all’interno dell’area tematica dell’ascolto attivo, introduciamo le domande potenti, che possono essere utilizzate per analizzare interiormente l’interlocutore, oltre che noi stessi, e per capire la sua rete relazionale.

Mentre ascoltiamo sappiamo che ogni parola o frase non esiste da sola, ma si inserisce in reti e nodi mentali preesistenti, che vengono toccati (sollecitati) dalla comunicazione. 

  1. Ogni messaggio che tocca un nodo di una rete di significati stimola i significati vicini ad essa
  2. I messaggi che attraversano le reti cognitive e i sistemi di credenze dell’individuo possono modificare la struttura della rete stessa

Le domande potenti, quelle che scavano nel profondo, possono cambiare la mente. Non solo possono dare luce ai mondi interiori delle persone, ma possono cambiarle agendo sull’incremento della consapevolezza del cliente. È sufficiente avere il permesso di farle, o la richiesta, come avviene nelle sessioni di psicoterapia. 

Alcune domande potenti sono qui portate ad esempio, ma vanno usate con intelligenza, con il permesso di farlo e con pratica professionale: 

  1. Da quanto tempo non ti senti felice? 
  2. Che atmosfera si vive a casa tua? 
  3. Cosa credi sia possibile e cosa credi che sia impossibile nella tua vita? 
  4. Che fase è questa, nella tua vita? 
  5. Con cosa non hai ancora fatto i conti nella tua vita? 
  6. Cosa dà senso alla vita per te? 
  7. Tra quanto tempo vorresti sentirti felice? 
  8. Qual è la cosa peggiore che nella tua vita non deve capitare? 
  9. Quali sono stati i momenti peggiori della tua vita?  
  10. Perché siamo arrivati li? 
  11. Da quanto tempo non ti senti spensierato? 
  12. Con chi ti senti bene? 
  13. Quando ti senti bene? 
  14. Quali sono le persone che ti danno energia e quelle che te ne tolgono? 
  15. Ti senti capace nel programmare il tuo futuro?  
  16. In genere programmi qualcosa nella giornata, settimana, mese, anno, più anni, mai? 
  17. Qual è l’offesa più mortale che potrebbero farti? 
  18. Cosa rappresenta per te un rifugio esistenziale, quel posto dove vai a curare te stesso? 
  19. Cosa vorresti fare nella vita prima di morire, cosa non vuoi dire di non aver provato, o fatto? 
  20. Come ti senti in presenza di X? (dove X è una persona significativa) 

Alcune di queste domande possono essere compiute con tecniche speciali di training mentale, ad occhi chiusi, da distesi, ma questo richiede un tipo di formazione speciale, in quanto la profondità nella lettura di sé stessi, in quella condizione, aumenta, e aumentano anche le risposte emotive, incluse emozioni che portano al pianto, alla rabbia, alla sofferenza, alla gioia. 

Per saper gestire queste reazioni occorre un training speciale, come minimo una scuola di counseling o di coaching avanzato. 

Far uscire queste risposte e le emozioni che le accompagnano fa bene, poiché rompe la “Spirale del Silenzio”, che come un morbo attanaglia persone, aziende e organizzazioni, sino ad intere società. 

Il network cognitivo è l’insieme dei concetti, idee e pensieri che portiamo con noi. 

Dietro ad ogni decisione ci sono “suggeritori occulti”, persone la cui reazione viene immaginata e anticipata, per capire se un sì o un no possono urtare gli equilibri relazionali e mentali esistenti. Es. Cosa avrebbe detto mio padre di fronte a questa scelta? (o qualsiasi altro referente mentale attivo nella mente della persona). 

Un ascolto attivo e avanzato cerca quindi di capire quale sia il network umano che sta dietro alla persona, le persone che la influenzano, il quale può emergere sempre attraverso l’uso di domande potenti come:

  • Secondo lei chi dovremmo coinvolgere in questa decisione?
  • Chi può essere dispiaciuto o rallegrarsi di questa decisione o scelta?
  • Di chi ti piacerebbe avere l’approvazione se fosse possibile averla?
  • In caso di bisogno economico, su chi pensi potresti contare per un aiuto? 
  • In una situazione di bisogno materiale, ad esempio rimanere a piedi con l’auto, chi chiameresti per avere un primo aiuto? 
  • Chi sono le persone che vedi di più
  • Di chi ti fidi in questa fase della tua vita? 
  • Chi ha deluso le tue aspettative? 
"Ascolto Attivo ed Empatia" di Daniele Trevisani

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Le tre zone del cambiamento

Zona 1. La zona del disapprendimento e del distanziamento: Unlearning

  • Di cosa vuoi liberarti?
  • Da cosa vuoi ripulirti?
  • Di cosa vuoi ridurre la valenza nella tua vita?
  • Che cosa vuoi che abbia meno peso nella tua vita?
  • Di cosa vuoi fare pulizia nella tua vita?
  • Quali sono i virus mentali che sarebbe bene rimuovere?
  • Io voglio fare la pulizia nella mia mente, di che cosa?
  • Di che cosa vuoi ridurre la valenza?
  • Cosa vuoi che conti meno nella tua vita?
  • Di cosa vorresti alleggerirti?
  • Cos’è che ti farebbe sentire un po’ più leggero?
  • Quali cose buone vorresti far entrare nella tua vita?

Zona 2. La zona del consolidamento e gli ancoraggi

  • Cos’è che di me non vorrei far cambiare?
  • Cosa vuoi consolidare?
  • Cosa vorresti trattenere di te in un cambiamento?
  • Cosa non vorresti che ti togliessero di te, del tuo modo di essere?
  • A quali lati di te sei affezionato e tieni particolarmente?
  • A cosa tieni particolarmente di buono nel tuo carattere o delle tue abitudini?

Zona 3. La zona dell’apprendimento, delle osmosi in ingresso

  • Che cosa vuoi far entrare nella tua vita?
  • Cosa ti piacerebbe apprendere, o cosa hai bisogno di apprendere?
  • Cosa ti piacerebbe lasciare entrare nella tua vita?
  • A che possibilità vorresti aprirti?
  • Quali competenze vorresti acquisire per i tuoi progetti professionali o di vita?
  • Se potessi scegliere, cosa ti piacerebbe assorbire di buono dal mondo esterno?
  • Di cosa vorresti essere un ricercatore attivo, cosa cercheresti?
  • Cosa stimola la tua curiosità?
  • Quali credenze pensi ti faccia bene inserire tra le tue credenze preesistenti?
  • Quali abitudini ti piacerebbe acquisire o far rientrare tra le tue abitudini
  • Cosa ti piacerebbe assimilare da persone che conosci o che hai visto in tv o al cinema, o da un certo personaggio?

Le domande presentate si ispirano al “Principio metabolico” esposto nei testi Regie di Cambiamento e Il Potenziale Umano, che inquadra queste tre aree per l’Optimal Functioning (funzionamento ottimale) della persona

  • Espellere cataboliti, sostanze di scarto, sia organiche che mentali o memetiche. Unlearning di competenze diventate obsolete
  • Definire il proprio confine (confine cellulare, confine di ruolo, confine personale)
  • Acquisire sostanze e nutrimenti, assimilazione sia di sostanze organiche e fisiche, che di idee, concetti, memi, conoscenze, acquisizione di competenze

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Tecniche di Vendita Consulenziale – Portare fuori le nostre domande. Sito di riferimento: Medialab-Research – Formazione per la Comunicazione, le Tecniche di Vendita, la Vendita Consulenziale, la Psicologia del Marketing
3.2. © Copyright – Dal libro Strategic selling. Psicologia e comunicazione per la vendita consulenziale e le negoziazioni complesse, di Daniele Trevisani – Franco Angeli Editore, Milano

Il valore delle domande nelle tecniche di vendita consulenziale

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Qualsiasi tecnica di vendita avanzata evolve verso una dinamica di rapporto sempre più consulenziale, dove diventa fondamentale la diagnosi (ascoltare e capire) prima ancora della persuasione pura (esprimersi e convincere). Oggi, appena viene colto un intento persuasivo, le persone se ne vanno. E’ così ed è bene sia così, se è vero che persuadere senza avere capito niente del quadro del cliente ha davvero poco senso.

La complessità dei mercati e degli scenari ci obbliga a sviluppare le capacità di essere attenti ed empatici (capire l’altro), condurre diagnosi del cliente, dell’interlocutore, della situazione.

E’ necessario saper portare fuori le domande, non tenersele dentro. Le domande sono uno degli strumenti più utili e fondamentali in una tecnica di vendita che vuole offrire valore vero al cliente. Senza domande, una tecnica di vendita può essere solo equivalente a “mettere su un DVD” con un disco oramai consunto.

Questo produce un forte cambio di paradigma, dove prima erano fondamentali le capacità espressive (parlare), diventano essenziali le competenze di ascolto, di diagnosi (saper ascoltare, capire), e quindi le competenze progettuali (studiare e costruire soluzioni basate sulla diagnosi).

Sapere di avere buona capacità di analisi inoltre aumenta la sicurezza nella fase di comunicazione e produce un’immagine di maggiore autorevolezza e assertività. Questo si traduce in un forte incremento della capacità comunicativa e negoziale.

Tutto ciò non è semplice. Ma non è ancora abbastanza.

3.3. Principio dello stretching comunicazionale e rottura dell’incomunicabilità

In una negoziazione avanzata troviamo tutte le difficoltà, i limiti e le barriere date dall’incomunicabilità umana, amplificate dalle barriere culturali e organizzative, dalle abitudini stratificate, dagli stereotipi, e da interessi contrapposti che spesso sembrano antagonistici, uno contro l’altro. Rompere questo circolo vizioso è un principio basilare.

Una regola fondamentale della vendita complessa è il bisogno di trovare il “Common Ground”, i valori e principi condivisi, sui quali costruire i piani successivi. Ad esempio, chiarire che per entrambe le parti sia importante non solo il prodotto ma l’affidabilità reciproca.

Dobbiamo anche considerare che esiste quasi sempre una componente “interculturale” nel fare vendita e negoziazione ad alti livelli: le persone che interagiscono tra loro hanno culture diverse e regole implicite diverse (anche entro la stessa nazione), ed ancora maggiormente quando si rapportano tra loro manager di nazioni diverse. Questo complica il quadro.

La vendita consulenziale e la negoziazione sono tra le attività più complesse e impegnative svolte dall’essere umano. Durante una interazione di vendita o una negoziazione possiamo assistere ad un incontro tra mondi mentali distanti, culture diverse, stili linguistici e manageriali antitetici, differenti psicologie, scontri tra strategie e tattiche comportamentali, e spesso – ad un livello profondo – la collisione tra visioni del mondo contrastanti, accompagnata da forte incomunicabilità.

Lo stretching comunicazionale (saper cambiare stile comunicativo, ad esempio da persuasivo ad empatico, dove le domande potenti la fanno da padrone) permette alle persone che svolgono vendita e negoziazione di diventare più flessibili dal punto di vista comunicativo, saper utilizzare un linguaggio “tecnico” quando serve, e in altri momenti un linguaggio più “manageriale”, ed in altri ancora uno più “umanistico e valoriale”.

Vendere in America Latina, il giorno dopo in Germania, e la settimana successiva in Giappone, non richiede solo un aggiustamento di fuso orario, ma anche di “registro comunicativo”. Passare da un incontro con un dirigente del marketing ad un incontro con il responsabile della produzione, entro la stessa azienda-cliente, richiede ancora una volta una capacità di cambiare rapidamente stili comunicativi e sintonizzarsi su una “modalità di ricezione” adeguata ad interlocutori diversi. Questo ancora maggiormente se più interlocutori diversi tra loro sono presenti entro la stessa stanza.

© Copyright – Tecniche di Vendita estratte dal libro Strategic selling. Franco Angeli editore, Milano

dott. Daniele Trevisani

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