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Comunicazione interculturale: nel “Modello delle Quattro Distanze”, la condizione della comunicazione in cui due o più comunicatori abbiano tra di loro differenze di ruolo, di codice comunicativo, di valori e di passato esperienziale.

comunicazione interculturale© Articolo in anteprima editoria dal libro “Comunicazione Interculturale” Franco Angeli editore, Milano

Comunicazione interculturale vs. incomunicabilità. La comunicazione che funziona vs. l’incomunicabilità: le sfide per le performance aziendali e i rapporti personali

Ricordate, signori, un ordine che può essere frainteso sarà frainteso.

Helmuth von Moltke (1800-1891) capo di stato maggiore prussiano

Contro chi pensa che non serva a niente lavorare sulla comunicazione bisogna tenere una linea dura. Si trattasse anche solo un dialogo migliorato tra un genitore e un figlio, o tra un marito e moglie, tra un manager e un collaboratore, sino ad una negoziazione aziendale andata a buon fine nonostante ogni diversità e avversità, per non parlare di un negoziato tra parti in conflitto e in guerra.

Questi fatti, quando si ripetono positivamente, possono cambiare le vite e persino cambiare il mondo. Possono fare evolvere il Potenziale Umano come mai sino ad ora si era immaginato, invece di lasciarci in un medioevo della comunicazione e della società.

La buona comunicazione richiede disciplina e volontà, e l’esito è impagabile. Chi non riesce a comunicare, finisce per essere perso, incompreso, relegato ad un angolo della vita.

Come evidenzia Hadot:

Se l’inizio, o la scomparsa, di un problema filosofico ha per struttura l’oscurità spirituale e l’essere-perso, la fine o la scomparsa del problema avrà per forma una sorta di chiarezza spirituale”.[1]

La ricerca della chiarezza spirituale è un fronte che si allarga sempre più e la buona comunicazione è uno dei pochissimi ingredienti per ottenerla.

L’incomunicabilità è la condizione che impedisce alle persone di entrare in contatto profondo e condividere il pensiero. La comunicazione costruttiva si prefigge invece di attivare uno scambio significativo tra due o più menti per poter “costruire qualcosa assieme”.

L’essenza stessa della comunicazione è un tentativo di “costruire assieme,” mosso dalla necessità di “agire con” per raggiungere scopi che nessuna delle parti – da sola – è in grado di raggiungere (“agire senza”).

La necessità di dover cooperare porta le persone e le aziende a dover scambiare qualcosa, incontrarsi, e in un certo senso le obbliga a comunicare.

Moltissime persone, sul pianeta, sperimentano l’incomunicabilità ogni giorno, e desiderano passare ad una comunicazione più costruttiva, lo desiderano col cuore, ma non sanno come farlo. Mancano letteralmente gli strumenti operativi – nella scuola e nell’azienda – per affrontare sistematicamente il problema dell’incomunicabilità e dirottare le energie verso la comunicazione costruttiva.

Possiamo subito immaginare quali siano gli effetti di un incontro negoziale o di una relazione umana dominata dall’incomunicabilità: conflitto, incomprensione, disaccordo, ansia, distanza. Il nostro scopo è capire su quali leve agire per trasformare una possibile incomunicabilità in un incontro costruttivo.

Fig. 38 – Circolo vizioso

comunicazione e conflitto

Il problema dell’incomunicabilità tocca le sfere più diverse: lo vediamo nei rapporti tra marito e moglie, tra genitori e figli, tra docenti e alunni, tra amici, tra colleghi, tra aziende, ma – ad un livello superiore – tra religioni, nazioni, regioni mondiali diverse. Questo “mostro” agisce anche nel contatto tra aziende nei rapporti di business.

Le società del consumo, i mass media, la scuola, persino l’educazione familiare, lo alimentano quando bloccano l’espressione delle emozioni, e l’ascolto empatico, educando le persone ad essere sempre più individualiste, chiuse, egoiste, centrate solo su di sè.

Il risultato della crescita in una società emotivamente morta crea l’atteggiamento di chiusura: smettere di ascoltare e capire, irrigidirsi, divenire incapaci di essere flessibili e adattivi, di essere efficaci fuori dal proprio “spazio ristretto”.

Comunicazione interculturale e aziende

Il problema dell’incomunicabilità si collega immediatamente a quello della performance e dei risultati del lavoro di gruppo nelle aziende. Quando c’è incomunicabilità, non arrivano risultati, tutto si blocca.

Quando invece la comunicazione è fluida, genuina, efficace, ogni situazione si risolve.

Le parole possono essere proiettili,

ma possono anche essere squadre di soccorso.
(Jón Kalman Stefánsson)

Non esiste prestazione umana avanzata nella quale sia possibile agire da soli o procedere senza comunicare. Per essere coscienti delle trappole comunicative, tuttavia, dobbiamo sapere che ovunque si operi con altri, avvengono micro-collisioni culturali.

Anche il più solitario dei navigatori deve concordare con i progettisti della barca le dotazioni e le strutture che vorrà avere a bordo, e avviene una micro-collisione di culture (marinaio vs. ingegnere), superabile solo con la ricerca di un intento comune e di un linguaggio comune.

L’atleta negli sport individuali deve comunicare con il proprio coach in vari momenti della preparazione, dando anche qui spazio ad una micro-collisione culturale (atleta vs. metodologo, la voglia o meno di fare fatica, la voglia o meno di “seguire una prescrizione” o di fare secondo i propri gusti personali).

Lo stesso accade in ogni comunicazione d’acquisto, ad esempio nell’acquisto di un corso di formazione, tra la cultura del pedagogista o formatore serio (che privilegia i risultati graduali e frutto di un percorso di crescita) e la cultura di un ufficio acquisti o un responsabile commerciale (risultati subito, tutto di fretta e che costi poco”).

L’unica possibilità di cooperazione è data dalla ricerca di un traguardo comune. Questo richiede “smontare” le diversità, riconoscerle, farle uscire dal retrobottega della comunicazione e portarle sotto i riflettori.

Quando la comunicazione è bloccata, i gruppi e le relazioni smettono di funzionare e la performance cala o si annulla del tutto, nessun traguardo comune viene raggiunto. Quando la comunicazione è invece fluida e fruttuosa, ogni performance si può realizzare e anche i traguardi più ambiziosi diventano raggiungibili.

[1] Hadot, Pierre. La filosofia come modo di vivere. Conversazioni con Jannie Carlier e Arnold I. Davidson. Torino, Einaudi. P. 263

© Articolo in anteprima editoria dal libro “Comunicazione Interculturale” Franco Angeli editore, Milano

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Comunicazione Interculturale. Video sul Modello delle Quattro Distanze della comunicazione

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Approfondimenti

Competenza interculturale

Da Wikipedia, l’enciclopedia libera.
La competenza interculturale è la capacità di comunicare in modo efficace con persone di altre culture. Questa capacità può presentarsi già in giovane età o può essere sviluppata. La struttura della competenza interculturale comprende: le conoscenze culturologiche generali e specifiche, la capacità di interagire a livello pratico, la ricettività interculturale e psicologica.

Fattori che determinano la sensibilità interculturale

Ognuno ha una propria storia personale, una propria vita e, in generale, una propria cultura che comprende un aspetto geograficoetnicomoralereligiosopolitico e storico, e un’identità culturale. Nei rapporti personali ciò riguarda naturalmente le persone provenienti da altri ambienti culturali, continenti o paesi, e anche da altre società, di sesso diverso, ecc. (le cosiddette subculture). Anche all’interno della stessa famiglia possono coesistere diversi valori culturali.

Presupposti

I presupposti fondamentali sono rappresentati dalla sensibilità e dalla sicurezza in sé stessi, dalla comprensione dei comportamenti altrui e modelli mentali, così come dalla capacità di esprimere chiaramente e precisamente il proprio punto di vista; farsi capire e mostrare flessibilità, dove possibile, ed essere chiari, se necessario. Si tratta di un giusto equilibrio tra: conoscenza ed esperienza delle altre culture, individuinazionicomportamenti, ecc., la fiducia in sé stessi, la consapevolezza della propria forza, dei propri punti deboli, i bisogni e la stabilità emotiva.

Differenze culturali

Nell’analisi dei tratti culturali si distinguono i seguenti aspetti: individualismo (stimoli individuali), collettivismo (stimoli di gruppo), femminilità (scelta conflittuale in base al principio di identità, orientamento al gruppo singolo e alla qualità di vita) e mascolinità (scelta conflittuale nella lotta tra pari, competitività), superamento delle incertezze (secondo il formalismo[non chiaro] o in opposizione a esso), distanza del potere (differenza reale o sentita tra classi gerarchiche), monocronia (tutte le azioni si svolgono in sequenza) e policronia (più azioni che si svolgono contemporaneamente), segni strutturali (per esempio, inclinazione ai valori, percezione spazio-temporale, impressione selettiva, comunicazione non verbale e modi di comportamento). Secondo questi e altri criteri si distinguono paesi, regioni, società/aziendegruppi sociali così come gli individui. Le speranze di successo di una collaborazione, in particolare, durante negoziati, cooperazioni, associazioni/unioni, ecc., possono essere realisticamente valutate e persone preparate possono ricoprire posizioni di grande responsabilità.

Voci correlate

La comunicazione interculturale richiede la capacità di percepire il mondo e gli eventi  come esso vengono percepiti da una cultura diversa dalla propria. L’approccio all’empatia interculturale sviluppate nel campo della comunicazione interculturale dall’autore Daniele Trevisani, individua quattro livelli di empatia che qualificano le dimensioni utili per applicare lo sviluppo dell’empatica sul piano della relazione con culture diverse:

  • “Empatia comportamentale interculturale”: capire i comportamenti di una cultura diversa e le loro cause, capire il perché del comportamento e le catene di comportamenti correlati. Ad esempio, capire perché in una certa cultura un funerale viene celebrato come una festa con banchetti e danze.
  • “Empatia emozionale interculturale”: riuscire a percepire le emozioni vissute dagli altri, anche in culture diverse dalle proprie, capire che emozioni prova il soggetto (quale emozione è in circolo), di quale intensità, quali mix emozionali vive l’interlocutore, come le emozioni si associano a persone, oggetti, fatti, situazioni interne o esterne che l’altro vive. Esempio: capire come vive emotivamente la propria religione d’origine una persona che abita in un paese a cultura religiosa dominante diversa.
  • “Empatia relazionale interculturale”: capire la mappa delle relazioni del soggetto e le sue valenze affettive nella cultura di appartenenza, capire con chi il soggetto si rapporta volontariamente o per obbligo, con chi deve rapportarsi per decidere, lavorare o vivere, quale è la sua mappa degli “altri significativi”, dei referenti, degli interlocutori, degli “altri rilevanti” e influenzatori. Esempio: capire come un adolescente immigrato vive l’amicizia nei “gruppi di pari” e con amici della cultura ospitante, o, in campo aziendale, come un “area manager” (manager dell’export) percepisce e costruisce un tessuto relazionale nei paesi in cui opera.
  • “Empatia cognitiva interculturale” (o dei prototipi cognitivi): capire i prototipi cognitivi attivi in un dato momento del tempo in una certa cultura, le credenze di cui si compone, i valori, le ideologie, le strutture mentali che il soggetto culturalmente diverso possiede e a cui si ancora”. Esempio: capire le diverse concezioni del senso del perdono in una persona di religione e cultura Buddhista e quello di religione e cultura Islamica, e come queste possono incidere sui comportamenti sociali e giuridici nel paese ospitante.

Ad esempio, per capire come relazionarsi in Giappone, occorre capire che il Bushido (l’arte del guerriero) si sia trasformato da devozione dei Samurai verso il loro padrone a devozione verso l’azienda per cui operano, e di come i nostri manager ne debbano assolutamente tenere conto. La devozione è un’emozione che assume toni sacri e se non ce ne rendiamo conto rischiamo di compiere gravi errori culturali.

comunicazione interculturale

Nel testo “Parliamoci Chiaro. Il Modello delle Quattro Distanze per una comunicazione efficace e costruttiva“, l’autore spiega alcuni fenomeni di comunicazione interculturale:

Estratto dal testo, copyright Daniele Trevisani e Gribaudo editore

Comunicazione Interculturale – Le limitazioni del linguaggio nell’esprimere i nostri sentimenti e persino nel descrivere oggetti, cosa accade, sensazioni, stati d’animo, esperienze

Ognuno di noi fa un’esperienza della realtà sempre leggermente diversa dall’altra persona, anche se questa fosse vicina, vicinissima.

Questo perché ciò che vedo viene filtrato dalle mie esperienze precedenti, viene giudicato come buono o cattivo in base ai miei valori profondi e alle credenze di superficie, e persino agli stati d’animo del momento.

La percezione, in altre parole, filtra ed esclude parti di realtà.

Se questo non bastasse, esiste un problema “linguistico”: la lingua, la lingua che usiamo (italiano, tedesco, inglese etc) è un “attrezzo” molto antiquato e raccoglie solo un’infinitesima parte di quanto noi “sentiamo dentro” e vorremmo comunicare agli altri.

Avete mai aperto una vostra frase con “è difficile da spiegare”? Se sì, avete avuto un momento di coscienza aumentata, e questo è buono, ma la maggior parte delle persone se ne va in giro senza questa consapevolezza.

I linguaggi emotivi, la possibilità stessa di far capire a qualcuno come stiamo veramente in un certo momento, avrebbero bisogno di una miriade di sfumature in più e noi saremo veramente alfabetizzati solo quando riusciremo a trasmettere anche i più sottili stati d’animo ed esperienze, anche se la trasmissione del pensiero “in fotocopia” è una possibilità per ora relegata a fenomeni telepatici o medianici ancora non supportati dalla scienza. Ma questo non vuol dire che un giorno non lo saranno.

Hookham ci offre una testimonianza.

Attualmente la nostra modalità di esperienza dei fenomeni è molto limitata, e non c’è una parola che non esprima un’idea o un’esperienza ordinaria. Volendo estendere o espandere il nostro modo di sperimentare i fenomeni, le poche parole che dobbiamo usare sono ancora i termini ordinari, con tutti i relativi fraintendimenti, dovuti a limitazioni e imperfezioni. Si finisce per essere costretti a usare le parole in modo piuttosto vago.

Spesso usiamo i termini “generosità” o “bellezza”, tanto per fare un esempio, in modo del tutto ordinario. Se però vogliamo esprimere un senso della generosità o della bellezza più ispirante, allora ci rendiamo conto che non esiste un vocabolario speciale e siamo obbligati a usare ancora una volta le stesse parole, scegliendo un vocabolo “convenzionale” il più possibile vicino a quella qualità ispirante. Pensateci, quali parole possiamo usare invece di “generosità” o “bellezza”, così da poter scavalcare le limitazioni grossolane dovute alla nostra esperienza ordinaria di quelle qualità?

Nel Buddhismo Mahayana si cerca proprio un tipo di linguaggio che permetta di trasmettere energia ispiratrice, ma sappiamo che nessun linguaggio potrebbe essere completamente soddisfacente- usiamo vocaboli quali apertura, chiarezza e sensibilità, spaziosità, consapevolezza e benessere, benché in realtà non ci sia nessun termine che corrisponda a ciò che si vuole descrivere. Queste parole servono solo per indicarci qualcosa. Sembrano avvicinarsi al bersaglio, quali acuti equivalenti concettuali che agiscono come tracce, stimoli o ispirazioni.[1]

Hookham fa poi un esempio con l’utilizzo della parola “benessere” così diversa dall’esperienza occidentale rispetto a quella Buddhista.

Vorrei nuovamente sottolineare che, in questo contesto, per benessere non si intende quell’ordinaria sensazione di tranquilla naturalezza che proviamo in modo imperfetto e limitato. Nondimeno, quella moderata sensazione di benessere, di cui tutti facciamo esperienza, è in relazione con la natura fondamentale di ogni cosa, quel “benessere” che in definitiva non può essere distinto come positivo, negativo o neutro, e per il quale non esiste una descrizione appropriata. Per poter dare una certa idea dell’area di esperienze di cui stiamo parlando, scegliamo l’esperienza più prossima, con la quale c’è una stretta connessione, e usiamo la parola migliore per descriverla.[2]

[1] Hookham, Michael (1992). Openness, Clarity, Sensitivity. Longchen Foundation, Oxford. Traduzione italiana: L’apertua mentale la chiarezza e la sensbilità. Ubaldini editore, Roma, 1995. p 38-39.

[2] Ibidem.

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Comunicazione Interculturale: la distanza semio-linguistica: differenze linguistiche e distanza di codice comunicativo

La seconda distanza tra soggetto A e soggetto B è data codice comunicativo, dal modo di esprimersi. La polarità Semio-Linguistica riguarda la natura del linguaggio: codici linguistici e comunicativi, codici espressivi e di comprensione, disponibili nel repertorio del soggetto – e i contenuti conversazionali.

Si distinguono due grandi categorie: (1) la categoria dei contenuti (il tema della comunicazione, il “di cosa si parla”) e (2) la forma linguistica (il “come” si parla, il codice utilizzato per dare forma ai contenuti, es: lingua italiana, lingua tedesca, e le varie sfumature o stili linguistici entro la stessa lingua).

La distanza di codice non è tuttavia solo linguistica. Tale distanza si differenzia in distanza tra codici verbali, distanza tra codici paralinguistici e distanza tra codici non verbali.

Vediamo un caso molto tipico, la distanza posta da un testo scritto e il suo lettore-tipo. Molto spesso nella scrittura si tende a dimenticare (o a non conoscere) una legge fondamentale della comunicazione: il fatto che bisogna fare frasi brevi, e dare tempo alla mente del lettore o ascoltatore di digerire quanto percepito, prima di passare a nuovo materiale.

Alcuni studi posizionano in 6 (+/-) 2 (sei concetti, più o meno due) il numero massimo di informazioni significative che si possono trasmettere prima di creare un “overflow” o inondamento comunicativo, tale che la persona perde il filo del discorso e smette di seguire il comunicatore e il suo messaggio.

Principio 4 – limite alla lunghezza della frase e punteggiature del discorso per favorire la comprensibilità

La qualità comunicativa interculturale aumenta quando:

  • Si rispetta il limite di 6 +/- 2 concetti trasmessi in ogni “unità di trasmissione”, dopo il quale è necessario fare una breve pausa (nella comunicazione orale) o un punto (nella comunicazione scritta)

I concetti tendono ad essere 6 meno due, quindi quattro e a volte ancora meno, quando ci troviamo davanti ad un interlocutore stanco, o disinteressato, le cui capacità cognitive e di elaborazione sono basse. Diventano 6 più due quando l’audience è composta da persone con forte motivazione all’attenzione, forti capacità di elaborazione del messaggio, e in stato fisico di freschezza, non certo di stanchezza mentale.

Al contrario, si verificano rotture della comprensione e attenzione quando:

  • Si supera il “buffer mentale” di attenzione dell’interlocutore;
  • il pubblico o audience o interlocutore è stanco e/o poco motivato ad elaborare il messaggio, trovandovi poca attinenza con i propri interessi, o per stanchezza fisica e mentale.

La concisione è l’arte di dire molto con poco;

la prolissità, di dire niente con troppo.

(Roberto Gervaso)

 

Vediamo il passaggio di questo testo:

Quand’anche non si ritenesse sussistere l’eccepito difetto di giurisdizione, nel caso di  specie  difetterebbe  l’interesse  a  ricorrere  in  capo  al  Consiglio  nazionale  dell’Ordine degli psicologi ad impugnare il parere del Consiglio superiore di sanità del 12 luglio 2011 che è stato erroneamente annullato dalla sentenza qui oggetto di appello pur se trattavasi di un atto non di amministrazione attiva, ma di una mera “dichiarazione di scienza espressa dall’organo consultivo tecnico del Ministro della Salute” (così a pag. 9 dell’atto di appello), per ciò stesso privo di una autonomia funzionale direttamente contestabile dinanzi all’Autorità giudiziaria.[1]

Ci rendiamo subito conto di quanto sia difficile, se non impossibile, digerire un testo di 9 righe senza un punto. Per quanta sia la volontà di prestare attenzione, l’autore di questo testo non è riuscito a “parlare chiaro”, nonostante le tante iniziative avutesi fino ad ora per la semplificazione del linguaggio amministrativo e legale. Per noi, è fondamentale tenere a mente questo limite, 6 +/- 2 concetti, e non oltre, poi fare un punto, una pausa, e ripartire, per poter dire di avere fatto del nostro meglio per “parlare chiaro”.

La brevità è l’anima stessa della saggezza.

(William Shakespeare)

Comunicazione Interculturale – Differenze semantiche (significato delle parole)

Il caso in cui una persona parli un’altra lingua è evidente nell’interazione tra un italiano e un cinese, ma non è sempre così! Anzi, le distanze tra persone sotto il profilo linguistico sono ben più insidiose e toccano anche persone che abitano nella stessa casa.

Abbiamo pensato al fatto che si può avere una mappa mentale completamente diversa per il concetto di “amore”? Per qualcuno può voler dire dedizione totale e condivisione di azioni (tempo passato assieme), per altri può voler dire pensarsi spesso. La divergenza tra i due concetti è radicale, fondamentale.

Principio 5 – Comprensione delle mappe mentali altrui

La qualità comunicativa aumenta quando:

  • Si ha chiaro in mente cosa l’altro associa a determinate parole o segni (chiarezza semantica);
  • Si comprendono le associazioni mentali che l’altro compie, comprendendo la mappa mentale altrui, sui temi inerenti l’argomento conversazionale in atto;

Al contrario, si verificano incomprensioni e rotture della comunicazione quando:

  • I significati dei termini in uso siano condivisi e uguali dando per scontato che il senso di una parola o segno sia lo stesso che noi vi attribuiamo, mentre non lo è per l’altro comunicatore;

Comunichiamo partendo da due o più mappe mentali diverse senza esserne consapevoli, su un certo tema oggetto della comunicazione interculturale.

[1] Estratto dalla Sentenza del Consiglio di Stato 546-2019 sul Counseling. N. 00546/2019REG.PROV.COLL. N. 01273/2016 REG.RIC. pag. 8-9

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