Tag

atteggiamenti

Browsing

Comunicazione Persuasiva. Seminario sull’arte della comunicazione efficace, dal colloquio interpersonale, sino al Public Speaking e alla Leadership

Workshop esperienziale e laboratorio di formazione sulla Comunicazione Persuasiva

  • Data e relatori del Workshop sabato 26 e domenica 27 ottobre 2019 – Ing. Lorenzo Savioli – Dott. Daniele Trevisani e Dott. Lorenzo Manfredini: Comunicazione Efficace e PersuasioneLeadership e PNL, Comunicare con efficacia, gestire efficacemente i Team e le Risorse Umane unendo sensibilità e concretezza
  • Quota di partecipazione: 149 Euro. Per chi non sia socio STEP, è necessario il pagamento della quota annuale di 50 Euro, non necessaria per chi abbia già frequentato altri corsi in questo anno accademico.
  • Sede: Montegrotto Terme (Padova), raggiungibile comodamente anche in treno (stazione Terme Euganee) e autostrada Bologna-Venezia o Venezia-Milano.
  • Modalità di comunicazione: basata prevalentemente sull’esercitazione pratica, il colloquio, il Training Mentale, e brevi fasi teoriche di inquadramento necessarie per dare le basi per le esercitazioni pratiche. Il 90% è lavoro pratico condotto dai partecipanti per assimilare veramente le competenze della comunicazione persuasiva e non fermarsi a teorie fini a se stesse.
  • Per informazioni puoi compilare il form di contatto e sarà nostra cura richiamarti al più presto per dare tutte le informazioni necessarie.

Comunicazione Persuasiva Master Step -  Dott. Daniele Trevisani

Di seguito, alcune informazione basate su fonte Wikipedia, con ns. rivisitazioni.

Persuasione (comunicazione)

La persuasione è l’arte di modificare l’atteggiamento o il comportamento altrui attraverso uno scambio di idee. A differenza di altre maniere di convincimento la persuasione utilizza solamente le parole o il linguaggio del corpo per riuscire a mettere l’interlocutore in uno stato d’animo specifico a cui punta il persuasore. La parola persuasione a volte può avere un tono negativo, questo è dovuto in particolar modo all’utilizzo esagerato e poco etico che ne fanno personaggi dubbi e non qualificati.

Si pensa sempre che il mezzo più importante per la persuasione siano i mass media, in particolare, la televisione, probabilmente perché esso entra in diretto contatto con le persone, ma si dimentica quanto la persuasione sia un fenomeno quotidiano, legato ad ogni comunicazione interpersonale, come il convincere qualcuno a fare qualcosa o farlo in determinati modi, o non farlo del tutto. Come tale la leadership è decisamente densa di comunicazioni persuasive. L’informazione è uno strumento di comunicazione davvero ampio, molto probabilmente attira l’attenzione della mente e per farlo, chi elabora i messaggi inserisce degli elementi che possono attirare, anche inconsciamente, il pubblico. La seconda operazione da fare dopo aver attirato l’attenzione è convincere il pubblico. Per esempio, in uno spot televisivo, chi elabora il messaggio non ha in genere sufficiente tempo e spazio per argomentare in modo approfondito e permettere al pubblico una consapevole riflessione. Quindi, la maggior parte delle volte, si distorce il messaggio attraverso un breve appello retorico. Questo serve anche per evidenziare gli aspetti positivi e nascondere quelli negativi.

La comunicazione persuasiva viene studiata dalle scienze della comunicazione e dalla psicologia sociale attraverso molti modelli di studio.

Tra questi

  1. Il modello Shannnon-Weaver
  2. la Teoria del Comportamento Pianificato
  3. la Teoria dell’Azione Ragionata
  4. le Teorie della Dissonanza Cognitiva

La persuasione, assieme alla suggestione, è anche il mezzo principale per le attività di vendita, ricordando comunque che la vendita professionale è composta di ampi spazi empatici e di ascolto che servono a capire che tipo di soluzione offrire perchè essa sia veramente di aiuto nell’evoluzione positiva del cliente (Solutions Selling, o Vendita Consulenziale)

 

Leadership

Con leadership si intende il rapporto di colui che in una struttura sociale organizzata occupa la posizione più elevata, nell’interazione col resto del gruppo. Tale figura viene generalmente definita capo o leader.

Etimologie neolatina ed anglosassone

Il capo (dal latino caput, “testa” per estensione metaforica) o leader (pronuncia italiana: /lìder/, dal verbo inglese to lead, “guidare”), in un gruppo sociale, è chi ricopre un ruolo di comando o direzione (in inglese leadership), inteso come processo d’influenza sui membri del gruppo per il perseguimento degli scopi comuni.

È possibile distinguere, in lingua inglese, la leadership (che viene intesa come capacità di influenzare) dalla headship (“capacità”, saper essere a capo di, funzionare da “duce” di qualcosa).

Il termine capo viene usato, anche in ambito anglosassone (Chief) nella denominazione formale di certe posizioni di comando unitamente alla specificazione dell’organizzazione (ad esempio: capo dello Statocapo del governocapo di Stato maggiore, capogruppo, capoufficio, caporeparto e caposquadra) o delle posizioni sottoposte (per esempio: capocuoco, capomacchinista e ingegnere capo).

In sociologia

I termini capo e leader, usati in senso lato, sono sinonimi; tuttavia i due termini possono essere usati con un significato più ristretto, che considera la fonte dell’autorità: in inglese si distingue infatti la leadership in senso stretto, in cui un leader guida dei seguaci in virtù dell’autorità che gli stessi gli hanno conferito dalla headship,[2] in cui un capo guida dei subordinati in virtù dell’autorità che ha ricevuto da una fonte esterna, come ad esempio un’autorità superiore.

Nei gruppi formali il capo ricopre una posizione di comando predefinita, solitamente identificata da una denominazione formale (variabile secondo il contesto: capo, direttoreresponsabile o/e comandante), che esiste indipendentemente dalla persona alla quale viene di volta in volta attribuita. Nelle organizzazioni complesse vi possono essere più posizioni di questo tipo costituenti una gerarchia, essendo disposte su diversi livelli, in modo che quella collocata in un determinato livello è a sua volta soggetta all’autorità di una di livello immediatamente superiore; la gerarchia è uno degli elementi caratterizzanti le organizzazioni burocratiche secondo l’idealtipo weberiano.

W.E. Halal elaborò in un importante articolo[3] una teoria, che si propone di integrare le conoscenze disponibili in tema di leadership, rivolgendo l’attenzione verso la determinazione dei modi di comportamento del leader che si dimostrano più efficaci. È abbastanza riconosciuto che un certo tipo di leadership può dimostrarsi efficace solo nei confronti di una fascia limitata di dipendenti e per compiti con determinate caratteristiche. Queste integrazioni conducono alla formulazione di uno schema teorico integrato che definisce cinque modelli ideali[4]:

  • Autocrazia: viene considerata come la forma più primitiva di leadership e si caratterizza per l’utilizzo di metodi autoritari, quali la forza e la tradizione, per ottenere l’acquiescenza. Si ritiene che questa forma di leadership si dimostri adeguata soltanto in situazioni caratterizzate da forme «primitive» di tecnologia, quali la guerra[5], la caccia e l’agricoltura, che implicano la ricerca dei mezzi fondamentali di vita ad un livello di sussistenza.
  • Burocrazia: viene definita come un rapporto razionale e utilitario fra dipendenti e capo, i compiti assegnati sono molto specializzati, le modalità per il loro svolgimento sono completamente stabilite dal superiore in modo razionale e le ricompense economiche sono legate in una qualche misura alla prestazione. Si ritiene che questo tipo di leadership sia il più efficace in situazioni caratterizzate da tecnologie di «routine», che comportano lo svolgimento di compiti ripetitivi, poiché in questo caso la specializzazione è conveniente, mentre uno stretto controllo dall’alto è necessario per assicurare l’ottenimento di prestazioni ottimali.
  • Relazioni Umane: sottolineano l’aspetto sociale nel rapporto fra capo e dipendenti; in questo caso per ottenere l’acquiescenza si impiegano ricompense e sanzioni di tipo sociale. Il capo usa l’autorità in forme socialmente accettabili, incoraggia l’interazione sociale e l’affiliazione. Si ritiene che le tecnologie di «servizio», che comportano l’erogazione di servizi personali per assistere gli altri (si pensi al ruolo delle insegnanti e delle infermiere), siano le più appropriate a questo stile di direzione, in quanto le relazioni umane incoraggiano l’interesse sociale e migliorano le capacità sociali.
  • Partecipazione: viene definita come un rapporto egualitario nel quale i dipendenti vengono incoraggiati a condividere le responsabilità del superiore nella soluzione dei problemi. Si ritiene che questo stile di leadership risulti più efficace in situazioni caratterizzate da tecnologia di tipo «influenza»: cioè nelle quali i compiti dei subordinati comportano l’esercizio di una “influenza” o di un controllo sul comportamento di altre persone. Ne costituiscono esempi tipici il ruolo dei capi, dei politici e dei venditori.
  • Autonomia: viene definita come un rapporto nel quale non viene esercitato sui dipendenti alcun controllo; il superiore fornisce soltanto informazioni e un supporto amministrativo ai dipendenti per aiutarli a svolgere i loro compiti. I dipendenti sono liberi di scegliere i compiti da svolgere e le modalità del loro svolgimento. Si ritiene che questo tipo di leadership sia più efficace per i compiti «creativi», che comportano la creazione di sistemi complessi o di idee, attività nelle quali si richiede originalità.

Questo schema integrato, quindi, sembra rappresentare una sintesi efficace delle più importanti conoscenze acquisite fino ad oggi sulla leadership sotto il profilo sociologico.

Per quanto riguarda il metodo storiografico, invece, appare prevalente l’approccio comparato alle biografie dei singoli personaggi, investiti di un ruolo di leader in una singola fase storica[6].

Rapporto con i seguaci

Una delle caratteristiche fondamentali dei membri di un gruppo di stato elevato è quella di proporre idee e attività nel gruppo utilizzando in questo modo dei mezzi per influenzare i membri del gruppo a modificare il loro comportamento. Ma, dal momento che l’influenza sociale è comunque sempre un processo reciproco, quello che caratterizza i leader è che possono influenzare gli altri nel gruppo più di quanto siano influenzati loro stessi. Per questo motivo nelle più recenti teorie sulla leadership ci si propone di ritenere la leadership una relazione, anche perché come afferma Peter Drucker il leader è colui che ha dei seguaci: senza seguaci non ci possono essere leader.

Nei sistemi politici di tipo consociativo, come quello imperniato sulla democrazia cristiana in Italia, “la leadership era essenzialmente un esercizio di pazienza. E di parola. Chi guidava una comunità politica aveva il compito di curarsene, destinandole tempo. E di accrescerne la consapevolezza e lo spirito di appartenenza dedicandosi alla sua formazione. I leader di quella stagione regolavano il loro cammino sul passo dei loro militanti. Guidandoli, ma senza mai lasciar crescere troppo la distanza. I leader dell’epoca finivano così per conformarsi ai loro seguaci”[7].

In psicologia sociale

Per il concetto di leadership esistono diverse definizioni qualificabili differentemente in base all’approccio teorico adottato[8]. Tutte o quasi le definizioni raccolgono tuttavia il senso più generale, ovvero che la leadership è considerata una relazione sociale che prende forma in una situazione che richiede scelte di principio e di comportamento. In base ai diversi significati che i diversi approcci attribuiscono alla figura del leader e, a seconda dei parametri presi in considerazione dai ricercatori, si avranno tre categorie di definizioni, ognuna delle quali focalizza l’attenzione su alcuni elementi che ne influenzeranno lo sviluppo di una definizione.

La prima categoria di definizioni è caratterizzata dall’attenzione ai tratti e alle capacità caratteristiche dei leader o alla funzione di conduzione. Questo insieme di definizioni esamina solo le qualità intrinseche del leader, trascurando il contesto.

Il secondo insieme di definizioni focalizza l’attenzione sul controllo, sulla spinta, sulla direzione delle azioni o degli atteggiamenti che un soggetto riesce ad imprimere ad altri soggetti o ad un gruppo, con la più o meno acquiescenza dei seguaci, senza usare la coercizione. Con queste definizioni non si riconosce una categoria speciale di persone che sono leader, ne che particolari azioni o qualità conferiscano la leadership. Si tratta di un complesso di definizioni denominate anche funzionaliste.

La terza categoria di definizioni si dedica all’azione di influenza, qualunque essa sia, che determina un cambiamento utile al raggiungimento degli obiettivi del gruppo. Questo terzo significato appare come valutativo: esso sembra sottintendere che una leadership auto-centrata non è leadership autentica e che tutto si debba o si possa comunque ridurre ad un problema di influenzamento, per di più ad una sola via. Si tratta in ogni caso di un tipo di definizione che possiamo qualificare come riduttivisticamente e comportamentisticamente situazionalista.

Bernard Bass nel manuale sulla leadership propone 11 categorie di significati attribuiti alla leadership nel corso dell’ultimo secolo:

  1. Leadership come focus della dinamica di gruppo, il leader viene visto da alcuni autori come protagonista, punto di polarizzazione, centro focale di gruppo. La tendenza che si riscontra in queste prospettive di studio è di considerare il concetto di leadership strettamente legato a quello di struttura e dinamica di gruppo;
  2. leadership come personalità e suoi effetti: questa definizione fa parte della teoria dei tratti secondo la quale si devono ricercare le caratteristiche che rendono alcune persone più capaci di altre nell’esercitare la leadership. Gli studiosi ricercano una definizione che descriva più le caratteristiche che il leader deve possedere per essere tale, piuttosto che una spiegazione del termine leadership;
  3. leadership come l’arte di indurre il consenso. La leadership è definita come l’abilità di manipolare le persone così da ottenerne il meglio con i minimi contrasti e la massima cooperazione attraverso il contatto face-to-face tra leader e subordinati; viene quindi vista come un esercizio di influenza unidirezionale, il gruppo e i suoi membri vengono messi in secondo piano e considerati soggetti passivi;
  4. leadership come esercizio dell’influenza: in tal caso l’utilizzo del concetto di influenza segna un passo decisivo nell’astrazione del concetto di leadership; gran parte degli studiosi che operarono negli anni cinquanta utilizzarono definizioni affini. Il concetto di influenza implica una relazione reciproca tra individui, non necessariamente caratterizzata da dominio, controllo o induzione del consenso da parte del leader;
  5. leadership come comportamento. questa definizione, caratteristica dell’Organizational Behavior, emerse nello stesso periodo della precedente; I ricercatori cercarono di spiegare quali fossero gli atti e i comportamenti caratteristici dell’esercizio della leadership, quelli propri di un individuo orientato alle attività di gruppo;
  6. leadership come forma di persuasione: è un tipo di definizione che cerca di rimuovere ogni implicazione alla coercizione, focalizzando invece l’attenzione alla relazione con i seguaci. Più recentemente la strategia persuasiva è stata indicata come una delle modalità di leadership;
  7. leadership come relazione di potere: per spiegare questo tipo di affermazione, gran parte degli studiosi che l’hanno adottata hanno utilizzato due soggetti di riferimento, A e B, simulando tra loro relazioni di potere; se A induce B ad attuare dei comportamenti per raggiungere un comune obiettivo, allora A ha esercitato leadership su B;
  8. leadership come strumento per raggiungere l’obiettivo: quest’idea è comune a molti studiosi che l’hanno inclusa nelle proprie definizioni, ma alcuni più di altri hanno centrato la loro sul raggiungimento dell’obiettivo. Questi studiosi considerano la leadership come forza principale per stimolare, motivare e coordinare coloro che si muovono per raggiungere un obiettivo comune;
  9. leadership come fattore emergente dell’interazione: ciò che differenzia questa affermazione dalle precedenti è il nesso di causalità; in questa si nota che la leadership viene considerata un effetto dell’azione del gruppo e non più un suo elemento formante. La sua importanza sta nell’aver messo in evidenza che la leadership emerge dal processo di interazione tra individui e non avrebbe ragione di esistere senza di esso;
  10. leadership come ruolo di differenziazione: fa parte della teoria dei ruoli secondo la quale ogni individuo interagendo con altre persone o con un gruppo gioca un ruolo, solitamente diverso, dagli altri individui. Diversi autori utilizzano definizioni che vedono nella leadership un attributo che differenzia i membri all’interno di un gruppo;
  11. Leadership come l’iniziazione di una struttura, con questa affermazione si vuole intendere che la funzione di leadership è indispensabile per l’avvio di una struttura e per il suo mantenimento.

Leadership formale e leadership informale

È necessario porre un’importante distinzione tra due concetti spesso imprecisi nella letteratura sull’argomento: la leadership formale, che viene spesso associata al leader imposto dall’esterno, nella psicologia del lavoro al manager, e la leadership informale, derivante dall’interno del gruppo; tale distinzione corrisponde, al limite, a quella che corre tra leader imposto dall’esterno (il “sergente” della oleografia popolare) e il leader espresso dall’interno del gruppo (il “profeta ” o “guru” trascinatore)[9].

Non esiste il concetto di leadership senza l’abilità nel “Comunicare” le proprie idee. Il vero leader è orientato alle persone e “Condivide”, motivando le sue scelte e le sue idee trasformando il “Concetto” in un “Ideale”. Alla base della leadership c’è il confronto.

Il modello motivazionale che utilizza il leader si richiama al modello di Eduard Spranger che divide le preferenze motivazionali in 6 macro categorie: Teorico, Utilitaristico, Individualistico, Estetico, Sociale e Tradizionale.

Per poter portare a termine l’incarico o il progetto necessita la collaborazione dei suoi collaboratori o seguaci. L’abilità nell’utilizzare al massimo il potenziale dei propri collaboratori è direttamente proporzionale al successo dell’iniziativa. Attraverso il “Coordinamento” – caratterizzato dal controllo motivante – il leader riesce a pilotare il cambiamento. Questo tipo di leadership viene anche definita Leader 4C.

Leadership diretta e leadership indiretta

Quando si parla di leadership ci si rende conto che spesso l’influenza scaturita dai grandi leader non deriva dal diretto contatto con esso, ma avviene attraverso alcuni intermediari. È necessario dunque porre una chiara distinzione tra leadership diretta, che comprende le relazioni e le interazioni fra un leader riconosciuto e i suoi immediati collaboratori, e la leadership indiretta.

Quest’ultima è detta anche leadership ‘a distanza’: consiste nell’influenza di un leader riconosciuto su persone che non sono subordinate direttamente a lui/lei.

Ecologia della leadershipleadership contributiva e leadership tossica

La qualità della leadership può essere contributiva e costruttiva (tendente a far progredire la qualità del lavoro, la formazione e crescita delle persone e dei team) o, come definita in letteratura, “leadership tossica”[10].

De Vries e Miller, in un esame sugli effetti della leadership sui climi organizzativi, evidenziano la presenza di una realtà denominabile “organizzazione nevrotica”, dove, secondo gli autori, come mostrato da numerosi studi empirici, le Organizzazioni in Crisi (o a scarso rendimento) diventano permeate da un sistema che si basa sulle appresentazioni intrapsichiche nevrotiche del loro leader, creando una cultura aziendale (intesa anche come politiche di selezione, premiazione, punizione e promozione) che tenderà ad estendere lo Stile Nevrotico all’intero funzionamento organizzativo[11].

In campo militare, la funzione della leadership è molto incentrata sulla capacità di far crescere le capacità operative delle persone e secondo questa visione, le organizzazioni che pongono enfasi sulle performance dovrebbero vedere nel compito primario della leadership la capacità di costruire team e risorse umane adeguate al ruolo. Obiettivo primario di ogni leader deve essere quello di addestrare il personale e le unità dipendenti ad assolvere con successo i compiti ricevuti[12].

Note

  1. ^ lìder, in Treccani.it – Vocabolario Treccani on line, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 15 marzo 2011.
  2. ^ Dall’inglese head, “testa” e per estensione metaforica “capo”.
  3. ^ W.E.Halal, Toward a general theory of Leadership, da «Human Relations», aprile 1974.
  4. ^ De Vito Piscicelli P., Zanarini E., L’arte del comando. Prospettive di psicologia delle organizzazioni., Roma, Carocci, 1996.
  5. ^ Philip Langer, Robert Pois, Command Failure in War: Psychology and Leadership, 9780253343789, 025334378X, Indiana University Press, 2004.
  6. ^ Ionescu, Ghiţa, Leadership in an interdependent world: the statesmanship of Adenauer, de Gaulle, Thatcher, Reagan and Gorbachev n.p.: Longman, 1991.
  7. ^ Marco FolliniSul costume politico dell’Italia di MoroIl Mulino (ISSN 0027-3120), Fascicolo 2, marzo-aprile 2018, p. 361 (doi: 10.1402/89676).
  8. ^ David M. Messick, Roderick M. Kramer, The Psychology of Leadership. New Perspectives and Research, 9780805840940, 0-8058-4094-X, 0-8058-4095-8, Psychology Press, 2004.
  9. ^ Mark A. Thomas, Gurus on Leadership, 9781854183460, 1-85418-346-X, Thorogood, 2006.
  10. ^ Lipman-Blumen, Jean, The Allure of Toxic Leaders: Why We Follow Destructive Bosses and Corrupt Politicians–and How We Can Survive Them., Oxford University Press, USA., 2004.
  11. ^ De Vries, K., & Miller, D., L’organizzazione nevrotica., Milano, Raffaello Cortina Editore, 1992, ISBN9788870782134.
  12. ^ Stato Maggiore della Difesa (2009),”L’Addestramento Militare” (PID/O-7 Vol. I), III Reparto – Centro Innovazione Difesa, Roma. Stato Maggiore della Difesa (2009),”L’Addestramento Militare” (PID/O-7 Vol. I), III Reparto – Centro Innovazione Difesa, Roma. Cap. 2 “I leader e l’addestramento”, p. 14

Persuasione come forma di comunicazione finalizzata a creare o modificare gli atteggiamenti

Atteggiamento

Con il termine atteggiamento si indica la disposizione di ogni persona di produrre risposte emotivesentimentalicomportamentali, determinate dall’ambiente familiaresociale o lavorativo, riguardo a situazioni, gruppi o oggetti.

Gli atteggiamenti rappresentano uno dei costrutti di maggior interesse per la psicologia sociale sin dalle sue origini. È possibile definire l’atteggiamento come una tendenza psicologica che viene espressa valutando una particolare entità con un determinato grado di favore o sfavore. Con il termine tendenza psicologica si mette in evidenza il fatto che gli atteggiamenti rappresentano un aspetto non stabile nel tempo che influisce sul comportamento coinvolgendo spesso le relazioni interpersonali, le particolari scelte di vita o il modo di essere. Inoltre esso si basa sempre su una valutazione dichiarata ad uno specifico oggetto.

L’atteggiamento esprime ciò che ogni persona è disposta a fare: si può esprimere sia in termini verbali che comportamentali, in modo transitorio o permanente.

Gli studi della psicologia sociale

Il concetto di atteggiamento è stato studiato da Gordon Allport come il tratto d’unione tra l’opinione e la condotta.

Per gli studiosi Thomas e Znaniecki, coloro che hanno identificato per primi questo costrutto, l’atteggiamento è un processo mentale che determina le risposte effettive e potenziali di ogni individuo al suo ambiente sociale. Dunque nella prospettiva comportamentista l’atteggiamento è “una disposizione verso”. Con l’avvento del cognitivismo si iniziò a considerarlo una valutazione di un oggetto psicologico, secondo queste prospettive la questione dell’atteggiamento rimane individuocentrica.

La prospettiva costruttivista che considera la conoscenza come frutto dell’interazione tra persone, di un loro continuo modellamento dei significati e quella culturale che pone al centro della propria riflessione la costruzione di significati all’interno di una data comunità, pongono la questione dell’atteggiamento su di un piano differente. L’atteggiamento viene dunque costruito nelle interazioni e specificatamente, per la psicologia discorsiva, nei discorsi.

Esempi di atteggiamenti

Funzioni dell’atteggiamento

La psicologia sociale distingue uno studio della struttura intra-attitudinale dell’atteggiamento, volta ad identificarne la struttura interna, dallo studio della struttura inter-attitudinale, volta a cercare differenze e similarità tra mappe dove confluiscono più atteggiamenti.

Le funzioni degli atteggiamenti nei processi cognitivi, emotivi, comportamentali e sociali sono molteplici. La principale funzione risulta essere conoscitiva. Gli atteggiamenti infatti sono alla base dei processi cognitivo-emotivi preposti alla conoscenza e all’orientamento nell’ambiente. Gli atteggiamenti possono inoltre avere funzioni strumentali, espressive, di adattamento sociale (basti pensare agli studi di Sherif dell’atteggiamento nei confronti dell’ingroup, il proprio gruppo di riferimento, rispetto all’outgroup, il gruppo esterno), egodifensivo (un esempio può essere considerato il classico studio sulla personalità autoritaria portato avanti da Theodor Adorno negli anni cinquanta).

Questo costrutto risulta centrale in tutta la psicologia sociale poiché, attraverso numerosissime declinazioni, le teorie degli atteggiamenti sono state adoperate in tutti questi campi applicativi:

  • verso oggetti o comportamenti specifici con finalità predittiva della condotta, nelle ricerche di mercato.
  • gruppi o minoranze etniche, attraverso lo studio dei pregiudizi e degli stereotipi.
  • Scopi e fini astratti, dove questo tipo di atteggiamenti sono definiti valori personali.
  • Gli atteggiamenti in relazione al sé, definita autostima.

La struttura degli atteggiamenti

L’atteggiamento come valutazione in relazione ad un oggetto è stato associata a tre componenti psicologiche:

  1. Una componente cognitiva, costituita dalle credenze associate alla valutazione globale che consta dell’atteggiamento. Incentrati sullo studio di tali credenze, emergono una moltitudine di modelli che definiscono l’atteggiamento in termini di aspettativa per valore: per questo filone di studi l’atteggiamento è definito come la sommatoria delle credenze, associate all’oggetto stesso, definite in termini di aspettativa sul verificarsi di essa, moltiplicato il valore soggettivo di cui essa è investita. Nell’ambito della social cognition, gli autori che più di altri hanno improntato un’analisi dell’atteggiamento in termini di credenze sono Martin Fishbein e Icek Ajzen, ai quali si deve, nei suoi esiti più recenti, la teoria del comportamento pianificato. Due fondamentali processi cognitivi associati all’atteggiamento, sono l’accessibilità, intesa come influenza nei processi cognitivi dell’atteggiamento in una specifica situazione, e la disponibilità, definita come la presenza o meno delle connessioni tra atteggiamento e schemi cognitivi. Higgins fu uno dei principali autori che analizzarono i processi cognitivi associati all’atteggiamento in termini di disponibilità e accessibilità. Nel dettaglio, attraverso analisi di tipo sperimentale, ipotizzò che gli atteggiamenti ad elevata accessibilità fossero i più resistenti ai cambiamenti.
  2. Una componente affettiva, che comprende i sentimenti, gli stati d’animo, le emozioni e le reazioni del sistema nervoso che accompagnano l’atteggiamento stesso. Un autore che ha incentrato la sua analisi sulla componente affettiva rappresenta Osgood, i cui studi, di matrice comportamentista, hanno messo a punto un sistema di valutazione degli atteggiamenti basato su un questionario volto all’espressioni delle reazioni emotive della valutazione, denominato differenziale semantico.
  3. Una componente comportamentale, definibile come la spinta ad azioni, esplicite od implicite, alla base della valutazione che l’atteggiamento veicola. Numerosi studi si sono occupati della predittività dell’atteggiamento nei confronti del comportamento. Il primo a sollevare il problema fu il classico studio di LaPiere (1934). La ricerca, sviluppata al di fuori del setting sperimentale, consisteva nell’accompagnare, lui un professore universitario bianco, una coppia di cinesi in alcuni alberghi e ristoranti per studiare le reazioni degli esercenti nel vedersi richiedere alloggio per gli stranieri. La quasi totalità degli albergatori accettarono di prestare i propri servizi per la coppia. In seguito La Piere mandò una lettera a tutti gli alberghi visitati chiedendo la possibilità di ospitare una coppia di cinesi, ed in questo caso il 92% degli esercenti si rifiutarono di ospitare dei clienti cinesi. Da questo studio se ne svilupparono numerosissimi altri volti a definire la relazione tra atteggiamento e comportamento. L’apporto più organico è stato costruito da Fishbein e Ajzen (vedi teoria del comportamento pianificato), attraverso la canonizzazione del principio di compatibilità. Questi autori infatti postulano che atteggiamento e comportamento debbano riguardare uno stesso grado di specificità perché l’uno sia predittivo dell’altro.

Per quanto concerne la struttura interna degli atteggiamenti, esso, in maniera canonica, è rappresentato come un continuum di valutazione, dove, idealmente, ad un estremo si collocano le persone con valutazione negativa, e all’altro estremo si collocano le persone con valutazione positiva. Su tale concettualizzazione di atteggiamento come continuum di basa la costruzione delle scale di Thurstone. Judd e Kulik (1980) evidenziano invece come, per quanto riguarda atteggiamenti controversi nel dibattito sociale, si ipotizzi una rappresentazione articolata su due categorie piuttosto che un continuum. Questi autori sperimentarono questo approccio bipolare allo studio dell’atteggiamento, nei confronti di una tematica rilevante nel dibattito sociale come l’aborto.

La formazione e il cambiamento degli atteggiamenti

il tema del cambiamento degli atteggiamenti non slegato a quello della loro formazione, e definito in psicologia sociale in termini di persuasione. Numerose teorie si focalizzano su vari aspetti del processo di costruzione e modellazione degli atteggiamenti, alcune in riferimento ai processi affettivi, altre ai processi cognitivi, altre alle dinamiche di appartenenza sociale.

I processi affettivi

L’approccio comportamentista allo studio degli atteggiamenti, ricerca la causa del loro cambiamento nei rinforzi che l’ambiente associa allo stimolo, ossia l’oggetto dell’atteggiamento. Più nel dettaglio, le teorie che si rifanno al modello del condizionamento operante di Skinner considerano il rinforzo come un elemento che aumenta la frequenza di una risposta presente nel repertorio, ma senza introdurne di nuove. Le teorie che afferiscono al modello del condizionamento classico di Pavlov definiscono l’atteggiamento come uno degli anelli finali di una lunga catena di apprendimento, al cui punto di partenza (come afferma Pavlov) si trova sempre una risposta incondizionata. Nello specifico in questo ambito di studio le parole diventano stimoli condizionati che sono in grado ri suscitare risposte condizionate analoghe a quelle suscitate dagli stimoli incondizionati (per esempio cibo e carezze). Il processo attraverso cui le parole sono associate agli stimoli incondizionati, è detto condizionamento di primo ordine, mentre il processo che lega le parole agli oggetti dell’atteggiamento, è detto condizionamento di secondo ordine.

Zajonc (1968), a partire da queste indicazioni di matrice comportamentista, sottolinea l’effetto di cambiamento dell’atteggiamento, della mera esposizione ad uno stimolo. Tale ripetuta esposizione infatti produce di per sé un effetto di familiarità con lo stimolo stesso che ne aumenta il gradimento. La correlazione tra frequenza dell’esposizione e atteggiamento risulta infatti generalmente positiva. L’effetto della mera esposizione risulta essere più marcato in queste condizioni:

  • Con stimoli complessi piuttosto che semplici.
  • Con esposizioni di breve durata piuttosto che lunga.
  • Con un più lungo intervallo tra esposizione e misura dell’atteggiamento.
  • Se gli stimoli sono presentati in sequenze eterogenee.

Sul cambiamento degli atteggiamenti attraverso i processi affettivi, un altro contributo fondamentale risale agli anni sessanta, ed è quello di Carl Hovland e della scuola di Yale. Nei suoi studi sull’appello alla paura nel mutamento degli atteggiamenti, ipotizzò un modello di riduzione della tensione. Qualora i mezzi persuasivi riescano ad indurre uno stato di tensione sufficientemente elevato (similmente a bisogni di tipo fisiologico come la fame), e qualora vi siano nel messaggio informazioni\raccomandazioni per ridurre questo stato di tensione, l’appello alla paura avrebbe allora una efficacia persuasiva. Studi afferenti a questi autori affermano inoltre che un appello alla paura di moderata intensità suscita un maggiore cambiamento rispetto ad un appello con paura forte.

Molti studi evidenziano inoltre che anche dinamiche di role playing producono un cambiamento di atteggiamento. Contributo di questo genere auspicano un’elevata importanza dei giochi di ruolo all’interno della formazione professionale, da adoperarsi come strumento per costruire e modellare atteggiamenti da applicarsi nei contesti e nelle dinamiche di lavoro.

I processi cognitivi sull’atteggiamento

Le teorie dell’atteggiamento incentrate sui processi cognitivi si concentrano perlopiù nelle interpretazioni delle comunicazioni in base ai propri atteggiamenti sociali. Esemplificativa in questo senso è la teoria del giudizio sociale di Muzafer Sherif. L’autore ipotizza, in base al proprio atteggiamento, un’area di accettazione, che contiene affermazioni accettate dal soggetto, un’area di rifiuto, e un’area di indifferenza. L’estensione di queste aree, e le affermazioni che in esse confluiscono, dipendono dalla forza, dall’accessibilità e dalla struttura in generale dell’atteggiamento per la persona. La ricezione di un’affermazione che cadrebbe nella zona del rifiuto, produrrebbe effetti diversi dall’accettazione a causa del coinvolgimento dell’io dell’atteggiamento stesso, instaurando verso lo stimolo perturbatore alcuni meccanismi difensivi. L’innovazione di questa teoria rappresenta l’inserimento dei meccanismi del Sé nella strutturazione dell’atteggiamento, e nei meccanismi di decodifica della realtà che esso comporta.

Un’altra significativa teoria incentrata sui processi cognitivi per la modifica dell’atteggiamento, è rappresentata dai modelli aspettativa x valore, di cui gli autori più significativi sono Fishbein e Ajzen (teoria del comportamento pianificato). La modifica dell’atteggiamento sarà tanto forte quanto più si riuscirà a far accettare al soggetto credenze legate all’oggetto dell’atteggiamento stesso (operazionalizzate in termini di aspettativa x valore).

Un autore che si è dedicato attraverso un modello esaustivo dei processi cognitivi dell’atteggiamento in un’ottica di ricezione e accettazione del messaggio è William McGuire, appartenente alla scuola di Yale, definì un processo di persuasione basato sulle seguenti fasi:

  1. Esposizione
  2. Comprensione
  3. Accettazione
  4. Ritenzione
  5. Comportamento

Se solo una di queste fasi non si realizza, la catena persuasiva viene spezzata e non si realizza il cambiamento dell’atteggiamento. La definizione operativa di questo modello consiste nell’associazioni ad ogni fase di una probabilità, in modo tale che, moltiplicandole tutte insieme, si ottiene la probabilità dell’evento finale persuasione. Successivamente questo autore, constatando la difficoltà di separare le fai del processo persuasivo l’una dall’altra ridefinì il suo modello in questi termini:

p (Persuasione) = p (Ricezione) X p (Accettazione).

I modelli di persuasione a due vie

Alcune teorie sul cambiamento e la formazione degli atteggiamenti si concentrano sia sulle componenti emotive che su quelle cognitive, identificando due percorsi comunicativi separati. Una delle più significative teorie in questo senso è la teoria della probabilità dell’elaborazione (Elaboration Likehood Model, ELM, di Petty e Cacioppo, 1986), proponendosi come sistematizzazione dei contributi precedenti nell’ambito della persuasione. Il modello ELM distingue:

  • Una via centrale di persuasione, che si associa ad una elaborazione cognitiva del messaggio, nonché una considerazione sistematica delle sue argomentazioni.
  • Una via periferica di persuasione, che corrisponde ad un’analisi non razionalistica della comunicazione, incentrata su aspetti emotivi, come per esempio la l’interesse estetico del messaggio, della fonte e dell’atto comunicativo in toto.

Quando la motivazione e la capacità cognitiva sono elevate esiste un’elevata probabilità che si precorra la via centrale della comunicazione, mentre quando la motivazione, o la capacità cognitiva sono ridotte è più probabile allora che venga seguita la via periferica.

È importante notare che questa teoria è stata sviluppata attraverso una metodologia sperimentale. Ne consegue che sono stati identificati nessi causali, non semplicemente correlazionali tra le variabili. Nel dettaglio Petty e Cacioppo hanno definito operativamente la motivazione in termini della maggiore o minore vicinanza temporale delle conseguenze che il messaggio persuasivo raccontava, mentre hanno definito la capacità cognitiva aggiungendo o meno una quantità di rumore nell’evento comunicativo.

I cambiamenti di atteggiamento ottenuti attraverso la via centrale, sono risultati essere più persistenti nel tempo, ed hanno sviluppato un maggiore potere predittivo nei confronti del comportamento, nonché hanno sviluppato una maggiore resistenza ad eventuali tentativi di contro-persuasione. Un’altra variabile identificata in letteratura ed associate alla scelta della via periferica sono l’esperienza della fonte (più tale esperienza sarà esteticamente rilevante più sarà auspicata un’interpretazione di tipo periferico ed affettivo), mentre variabili associate alla scelta di una via centrale sono la qualità delle argomentazioni (più la qualità logica sarà elevata più sarà probabile un’elaborazione cognitiva delle stesse argomentazioni), ed infine il coinvolgimento con l’oggetto dell’atteggiamento (in maniera simile a quanto si è detto per la motivazione).

Voci correlate

Differenziale semantico

Il differenziale semantico è una tecnica di valutazione psicologica, ideata da Osgood, Suci e Tannenbaum nel 1957, per operazionalizzare la misura del “significato implicito” dei termini linguistici.

Mentre la semantica denotativa di un termine può essere sempre chiara e condivisa tra diversi attori comunicativi, la connotazione è in genere più difficile da riconoscere, è variabile in base ai contesti ed è spesso molto soggettiva.

Lo strumento tradizionale del questionario non è in grado di discriminare tra le diverse dimensioni connotative dei termini utilizzati, e quindi ai ricercatori (in particolare, in quelli attivi nell’ambito della psicologia sociale) si imponeva la necessità di sviluppare tecniche di indagine che permettessero queste valutazioni.

Definito l’elemento o gli elementi rispetto a cui si vuole studiare l’atteggiamento personale dei soggetti (ad esempio, l’atteggiamento verso gli immigrati, o verso un partito politico), si sottopone agli stessi un foglio comprendente una serie di scale di “prossimità semantica” tra due poli. I soggetti devono indicare, su una scala graduata solitamente a 7 posizioni (simili, ma concettualmente diverse dalle Scale Likert), “a quale dei due poli” si avvicina di più – secondo loro – l’oggetto d’indagine. La misurazione avviene lungo la gradazione discreta tra le coppie bipolari di aggettivi contrapposti, ed i risultati del campione vengono poi aggregati per gli studi statistici relativi.

Le ricerche eseguite dai tre studiosi, su diversi “oggetti” di valutazione e su ampi campioni di soggetti appartenenti a culture differenti, dimostrarono che il metodo del Differenziale Semantico è in grado di evidenziare “strutture cognitive latenti” riferite in particolare a tre diverse dimensioni, segreganti l’una dall’altra. Ad ogni dimensione corrisponde un fattore psicologico attributivo, costitutivo dell’atteggiamento soggettivo rispetto all’oggetto indagato.

  • Valutazione (indica la positività/negatività dell’elemento valutato): viene misurato attraverso l’uso di coppie di aggettivi come “buono-cattivo” – “bello-brutto” – “piacevole-spiacevole”;
  • Potenza (indica la forza/debolezza dell’elemento valutato): viene misurato attraverso coppie di aggettivi come “forte-debole” – “grande-piccolo” – “pesante-leggero”;
  • Attività (indica l’attività/passività dell’elemento valutato): viene misurato attraverso coppie di aggettivi come “attivo-passivo” – “rapido-lento”.

La maggiore proporzione di varianza dei dati, nelle analisi fattoriali, si riferisce al fattore Valutazione, che per questo motivo è stato da loro considerato come quello che concretizza maggiormente il concetto di atteggiamento proprio della psicologia sociale.

Voci correlate

Gli atteggiamenti e la comunicazione persuasiva

Atteggiamenti, cambiamento e coerenza cognitiva

Fritz Heider formulò la teoria dell’equilibrio cognitivo, secondo cui gli individui sono spinti da forze interne a tenere in equilibrio le proprie cognizioni relative ad un dato oggetto, o un gruppo di oggetti che siano legati gli uni con gli altri. Quando per qualche ragione tale equilibrio viene a mancare, le persone cercherebbero immediatamente di ripristinare una condizione di coerenza. Per queste ragioni le relazioni sarebbero costituite da una configurazione triadica formata da:

  1. Un atteggiamento verso un’altra persona;
  2. Un atteggiamento verso un oggetto;
  3. La percezione del modo in cui l’altra persona valuta l’oggetto target.

Quindi se due persone hanno lo stesso atteggiamento verso lo stesso oggetto, stanno bene insieme, creando un “quadro” coerente dotato di buona forma.
Le situazioni squilibrate invece creano tensioni spiacevoli e le persone, per eliminare il disagio, cercano di riequilibrare il sistema (a Federica piace Claudio, ma non il calcio. O si convertirà e accetterà il calcio, o Claudio la abbandonerà, o il rapporto finirà).
Il passaggio da una condizione di squilibrio ad una di equilibrio avviene attraverso quello che viene detto “il principio dello sforzo minore”.

Le emozioni giocano poi un ruolo molto importante nel formulare un’idea su un individuo o un comportamento. L’emozione che ci scaturisce da un dato comportamento produce, per un effetto di razionalizzazione, l’elaborazione di un’idea che ne sia correlata (se un dittatore commette una strage, noi lo disprezziamo o il nostro partner è buono e intelligente, perché ne siamo attratti).

A tal proposito Leon Festinger sviluppò la teoria della dissonanza cognitiva, secondo cui l’incoerenza atteggiamento-comportamento è riconducibile a due situazioni: produzione di decisioni in regime di libera scelta e che siano contrari ai nostri atteggiamenti (comportamenti contro-attitudinali). È il caso della scelta tra un lavoro noioso ma ben ricompensato, oppure uno piacevole ma economicamente precario. Qualsiasi sia la scelta finale tenderemo a massimizzare i lati positivi e a minimizzare quelli negativi, convincendoci infine, di aver fatto la scelta giusta.

Festinger e Carlsmith provarono, attraverso degli esperimenti, come il mutamento delle proprie convinzioni avvenga più facilmente ricevendo una ricompensa piccola piuttosto che una grande. Il principio regge sul fatto che una grande ricompensa possa condurre un comportamento contrario alle proprie attitudini, ma noi non cambieremmo le nostre attitudini. Invece se supportati da una piccola ricompensa saremo portati a credere che se abbiamo commesso un comportamento per “così poco”, evidentemente lo approviamo. Allo stesso modo, la piccola punizione sarà più efficace della grande punizione (è il caso della buona educazione a cui consegue una interiorizzazione delle norme sociali).

Si pone dunque centrale, la quantità di libera scelta che l’individuo possiede o pensa di possedere nel esprimere un determinato comportamento. Ulteriori elementi che producono un cambiamento dei propri atteggiamenti sono le conseguenze (previste o prevedibili) e l’irrevocabilità. Per cui dopo aver preso una decisione, sulla quale non si potrà tornare indietro, e/o che abbia prodotto delle conseguenze negative, saremo portati a legittimare il comportamento ormai eseguito.

La teoria dell’autopercezione

Daryl J. Bem produsse poi la teoria dell’autopercezione, secondo la quale, osservando ciò che facciamo inferiamo cosa ci piace e cosa ne pensiamo al riguardo. Tale teoria porta alle stesse previsioni della teoria di Festinger, ma mentre quest’ultimo vede negli atteggiamenti delle predisposizioni durevoli, Bem sottolinea che gli atteggiamenti sono solo delle affermazioni casuali, prodotti sulla base dei comportamenti che finora abbiamo avuto. Questa teoria spiega quindi quel processo per cui passiamo da un’idea di piacere, nel produrre un comportamento, a un’idea di obbligo (gioco a tennis perché mi piace, ma se sono pagato per farlo diventa un obbligo e non una passione).

Gli atteggiamenti: un modello tripartito

Gli atteggiamenti appaiono così costituiti da più parti:

  • componente cognitiva, le credenze, le conoscenze, ecc.;
  • componente emotiva, affettiva, emozionale;
  • componente comportamentale.

Tutte e tre queste componenti hanno una loro dimensione valutativa e possono esprimere la positività o la negatività dell’atteggiamento. Breckler dimostrò come queste componenti fossero distinte le une dalle altre, ma che allo stesso tempo fossero interrelate. Allport diede una definizione degli atteggiamenti in linea con il modello comportamentista e con le social learning theories, enfatizzando il ruolo delle esperienze del passato nella formazione degli atteggiamenti. Krech e Crutchfield diedero invece una definizione degli atteggiamenti all’interno di una prospettiva cognitivista per cui l’enfasi viene posta sull’organizzazione mentale e sulle capacità strutturanti e costruttive dei processi cognitivi. Ma la definizione di atteggiamento più soddisfacente arrivò dai lavori di Zanna e Rempel, secondo i quali, pur mantenendo la distinzione tra componenti cognitive, affettive e comportamentali, tutte e tre le parti confluirebbero in quel miscuglio di processi percettivi che contribuiscono alla costruzione e ricostruzione della realtà sociale.

Atteggiamenti e comportamento

Il processo di cambiamento degli atteggiamenti è quindi il risultato di esigenze di tipo cognitivo e motivazionale interne agli individui. L’atteggiamento è quindi anch’esso una struttura cognitiva che fa parte della memoria a lungo termine ed è dotato delle stesse caratteristiche degli schemi, delle categorie, ecc. Hovland e Sherif elaborarono poi la teoria del giudizio sociale che determinerebbe il processo per cui tendiamo a ricordare di più i nostri atteggiamenti che sono coerenti con il resto della società piuttosto che quelli contrari. Wicker notò che non vi sarebbe invece alcuna relazione tra atteggiamento e comportamento (coloro che si dichiarano religiosi non è detto che vadano a messa, ecc). Ajzen e Fishbein mostrarono poi che sia il comportamento che gli atteggiamenti sono caratterizzati da quattro elementi diversi: l’azione (prendere la pillola); l’oggetto (il controllo delle nascite); il contesto (è un’azione inusuale?); il tempo (quando si compie questo comportamento?). In base a questi elementi è possibile rintracciare una correlazione tra atteggiamento e comportamento solo quando sono tutti presenti in maniera generale e danno vita a più comportamenti (se voglio controllare le nascite, dovrò essere costante nel tempo, e dovrò utilizzare tutte le precauzioni. Altrimenti se userò solo una volta la pillola, non vi sarà un atteggiamento vero di voler controllare le nascite).

Ajzen e Fishbein continuarono il proprio lavoro sviluppando la teoria dell’azione ragionata, basata sull’idea che le persone si comporterebbero in maniera razionale, attraverso la quale sarebbe possibile fare una serie di previsioni: L’intenzione esplicita di voler produrre un dato comportamento; L’idea che ha la persona di quel comportamento (lo trova legittimo o riprovevole?) e l’idea che dello stesso comportamento ha la società (secondo la stessa persona); La credenza sulla probabilità degli esiti (questo comportamento produrrà i suoi frutti?); La motivazione soggettiva (per quale fine ultimo? Per compiacere qualcuno? ecc.). A questo modello presto Ajzen aggiunse un ulteriore elemento: La percezione del controllo sull’esito dell’azione (credo di farcela a dimagrire? Altrimenti non ci provo neanche). Inoltre vi sono poi degli elementi esterni (se ho intenzione di fare uso di droga, ma non conosco uno spacciatore, non potrò eseguire il comportamento specifico). Infine, Manstead, Proffitt e Smart aggiunsero ancora, che anche le abitudini e le esperienze passate influenzano i comportamenti (il primo allattamento, al seno o artificiale, condiziona nella madre, la scelta della modalità del secondo allattamento).

La funzione psicologica degli atteggiamenti

Gli atteggiamenti hanno varie funzioni nella organizzazione psicologica degli individui:

  • funzione di adattamento sociale (ad esempio pregiudizi razziali e identità etnica);
  • funzione di definizione del self (rafforzamento della propria identità personale);
  • funzione di espressione dei valori;
  • funzione ego difensiva (xenofobia causata dalla paura del diverso);
  • funzione conoscitiva (indirizzamento della memoria, del pensiero, ecc.).

Comunicazione e persuasione

Gli atteggiamenti funzionano quindi come una cerniera tra ciò che è sociale e ciò che è individuale. Il cambiamento di un atteggiamento nella sua totalità è per lo più da ricondurre all’influenza sociale e alle capacità persuasive degli altri. Hovland si interessò proprio a quest’ultima questione, analizzando la comunicazione persuasiva in termini di un sistema composto da una serie di componenti.

  • Modello Shannon-Weaver sulle fasi della comunicazione, e sue applicazioni alla comunicazione persuasiva. In primo luogo bisogna tenere presenti gli stimoli esterni quali: la fonte (chi emette il messaggio? È credibile?), essa pare più persuasiva quando è ritenuta simile a sé stessi e se è rappresentativa del proprio gruppo di appartenenza; il messaggio (è comprensibile? Ha toni emotivi? È articolato in argomentazioni inoppugnabili?) è tanto più persuasivo quanto più l’ascoltatore è motivato ad ascoltarlo (nelle sue argomentazioni, o in casi di disinteresse, nella sua lunghezza o nel numero di argomenti posti). Impatto psicologico hanno inoltre l’ordine delle argomentazioni (effetto primacy), l’esplicitazione delle conclusioni e il modo con cui si articolano i punti di vista. La comunicazione persuasiva utilizza in generale, ad esempio per fini propagandistici, l’emotività (rabbia, ostilità, paura, …). L’oggetto, verso cui avere un certo atteggiamento; la situazione o contesto (la quale può produrre distrazione o contro-argomentazione). La distrazione è un elemento che funziona come un’arma a doppio taglio: se è poca, facilità la persuasione, se è troppa l’azzera.
  • In secondo luogo bisogna considerare il target, l’audience, ovvero la persona o le persone che ricevono il messaggio. L’audience infatti può essere più o meno predisposta all’essere d’accordo con il messaggio. Un atteggiamento iniziale positivo o negativo, produce infatti una selezione di certi messaggi piuttosto che altri.
  • Una terza variabile è costituita dallo spettro di risposte che il messaggio persuasivo può produrre nell’audience. L’inevitabile tensione che viene prodotta da un messaggio persuasivo, il quale ovviamente contrasta con la nostra posizione attuale, se non si risolve in un cambiamento di atteggiamento, può portare, per esempio, a screditare la fonte (è il caso degli avvocati o dei politici, quando in malafede, non avendo contro-argomentazioni solide, screditano l’accusa o gli avversari). Inoltre il messaggio può anche giungere distorto, può essere appreso solo in parte, può essere rivisitato, può essere dimenticato, in alcuni casi può non essere accettato (contro ogni evidenza) o infine, può dare vita ad un dibattito.

Grobel analizzò come la televisione possa divenire uno dei principali strumenti di strategia militare, utilizzando una comunicazione persuasiva focalizzata alla creazione dell’immagine del nemico. Quando i media (in accordo con i governi) vogliono favorire nell’opinione pubblica l’accettazione di una guerra, offrono un’immagine stereotipata, semplificata e negativa delle altre persone e degli altri gruppi. Scopo di una comunicazione persuasiva di tipo bellico è non solo quello di far entrare in guerra la popolazione, ma anche di giustificare la violenza, di distrarre dalle colpe e dai problemi che gravano sul gruppo di appartenenza, di rafforzare il noi (in chiave straordinariamente positiva) mediante la definizione del loro (in chiave negativa).

Strategie di cambiamento degli atteggiamenti

Secondo l’ottica comportamentista la formazione e il cambiamento degli atteggiamenti avviene sulla base dei principi del rinforzo, quindi sui paradigmi del condizionamento classico e del condizionamento operante. Ad esempio, nella pubblicità, per favorire un atteggiamento positivo verso un determinato prodotto, questo viene associato ad una situazione piacevole (relax, regali, sensualità). Inoltre, a causa dell’effetto esposizione ([mere] exposure effect), la semplice esibizione continua di un prodotto induce a renderlo piacevole. (Robert Zajonc dimostrò questo effetto, attraverso l’esposizione di diverse foto alcune delle quali uguali. Queste risultarono infine le più gradite).[6] Da sottolineare che l’effetto esposizione produce l’effetto opposto quando è fin troppo ripetuto. Vi sono poi gli stimoli subliminali che incidono sulle nostre valutazioni (messaggi di frazioni di secondo o criptate, leggibili però a livello inconscio).

Quindi, l’associazione (con cose e persone di cui abbiamo un giudizio positivo), il rinforzo (aver ricevuto premi, o comunque buone sensazioni insieme all’oggetto in questione) e l’imitazione (di un idolo, di un punto di riferimento, ecc.) possono favorire il cambiamento dei nostri atteggiamenti.

Irving Lorge teorizzò, dopo diversi studi, che il modo con cui stabiliamo degli atteggiamenti è totalmente cieco e dipende dalle associazioni che facciamo in maniera passiva con elementi che niente hanno a che fare con il contenuto di ciò che si valuta (scambiando le citazioni di leader democratici e di dittatori, le frasi attribuite erroneamente a questi ultimi vengono disprezzate e viceversa).

L’approccio di Asch e la Gestalt Theorie

All’analisi di Lorge, Solomon Asch diede un’interpretazione completamente diversa: il giudizio negativo o positivo dato alle citazioni non sarebbe basato sull’irrazionale associazionismo che ne facciamo con il falso autore, bensì con l’interpretazione che di queste frasi, l’idea dell’autore ci fa fare (ogni tot anni occorre una rivoluzione, ha un senso differente se pronunciato da un democratico o da un dittatore).

Le teorie dell’elaborazione sistematica

A partire dagli anni sessanta e settanta, sono gli approcci cognitivi a dominare la ricerca sugli atteggiamenti e il loro cambiamento. Secondo la teoria della risposta cognitiva di Greenwald, la formazione e il cambiamento degli atteggiamenti può essere spiegato in termini di valutazioni razionali soggettive dei pro e dei contro. Ci baseremmo cioè sulla totalità delle informazioni (figura nuova) che abbiamo nell’interpretare un comportamento e non sulla loro semplice somma. NB. La comunicazione persuasiva quindi sarebbe un atto solo logico matematico, ma dobbiamo ricordare che si attivano invece risposte subconscie e inconsce che determinano il risultato della comunicazione persuasiva, l’accettazione o rifiuto delle proposte.

Si attiverebbe quindi un’analisi di aspettativa-valore secondo la quale cercheremmo di pensare a: i possibili esiti di questa decisione; il valore che diamo a questi esiti (positivo, molto positivo, negativo, ecc.); quanto questi esiti sono probabili (esito positivo molto probabile, esito negativo poco probabile, ecc.). L’atteggiamento sarà quindi il risultato della nostra utilità soggettiva che verrà misurata in termini di prodotto del valore degli esiti per l’aspettativa relativa di essi (es. vado a una festa? Si perché molto probabilmente mi divertirò ballando. No perché molto probabilmente mi annoierò perché non si ballerà.).

Il modello della probabilità dell’elaborazione

Petty e Cacioppo formularono il modello della probabilità dell’elaborazione nel 1986. Questo modello evidenzia come le persone utilizzano entrambe le strategie (passive e attive) nell’esposizione a messaggi persuasivi. A volte si è disposti ad andare al centro della questione e mettersi in gioco, ascoltando bene le argomentazioni (percorso centrale della persuasione); a volte invece, non si è disposti ad ascoltare approfonditamente un discorso (percorso periferico della persuasione). La probabilità che l’ascoltatore usi un percorso piuttosto che un altro dipende da una serie di fattori di tipo individuale tra i quali la motivazione e l’abilità. Anche il semplice umore determina l’attivazione di un percorso piuttosto che un altro (l’umore negativo favorisce l’approfondimento, quello positivo invece predilige la poca voglia a rovinarselo). In ogni caso, l’esito del cambiamento di atteggiamento è differente in base al percorso intrapreso: il percorso centrale produce cambiamenti profondi, quello periferico produce invece cambiamenti superficiali.

Date: 18 e 19 maggio 2019 Montegrotto Terme, hotel Olympia

La comunicazione persuasiva e la comunicazione nel coaching. Daniele Trevisani

  1. Shannon Weaver: la struttura fondamentale della comunicazione persuasiva e della comunicazione motivazionale
  2. Theory of Planned Behavior (Teoria del Comportamento Pianificato): perché le persone fanno o non fanno le cose, acettano o meno i messaggi persuasivi, quali processi mentali si attivano a fronte di una decisione di fare o non fare, aderire o non aderire ad una proposta o percorso di coaching. Atteggiamenti, aspettative altrui, e controllo situazionale percepito. Esercitazioni pratiche di analisi di un colloquio di coaching tramite TPB
  3. Quadrato della Comunicazione. Le sfumature sottili della comunicazione ed il loro grande effetto pratico sulla persuasione. Esercitazione pratica
  4. 4 Distances Model. Il modello delle 4 Distanze della Comunicazione, le implicazioni sulla persuasione, con esercitazioni pratiche

Il colloquio motivazionale. Lorenzo Manfredini

  1. Cosa significa motivare e quale ruolo gioca un colloquio motivazionale ben condotto
  2. Struttura del colloquio
  3. Fasi del colloquio e loro caratteristiche
  4. Errori prevalenti nei colloqui
  5. Sperimentazione diretta di colloqui

Costo 150 Euro + 50 quota associativa per i non associati STEP.

Per iscrizione, prendere contatto con gli organizzatori da questo modulo

Applicare nelle aziende il concetto di “Forze Speciali”

formazione aziendale, formazione forze speciali, metodi di formazione alternativa

© Daniele Trevisani. Testo estratto dal libro Team leadership e comunicazione operativa. Principi e pratiche per il miglioramento continuo individuale e di team. Franco Angeli editore. Con commenti inediti dell’autore.

Da 12 anni ho il privilegio di svolgere, oltre alla formazione aziendale “classica”, una speciale formazione comunicazionale a favore delle Forze Speciali in ambito ONU. Questa esperienza ultradecennale mi ha permesso di osservare alcune peculiarità del loro funzionamento e capire tutti i benefici che ci sono ne portare un certo atteggiamento all’interno di gruppi aziendali, e come farlo. Tradurre l’atteggiamento di Forze Speciali e Forze di Elite all’interno di un’impresa permette di operare su concetti di focalizzazione, monotasking, diversificazione dei ruoli, e chiarezza dei ruoli, in modo eccezionale.

Una grande varietà di Forze Speciali, in senso olistico, intesi come gruppi ad alte performance, diventa tale quando riesce a compiere il salto di qualità che divide un assembramento di persone da un gruppo di persone estremamente motivate.

Il primo fattore a rendere speciale un team è la motivazione e senso di appartenenza, il secondo, l’addestramento continuo, la formazione continua.

Un terzo fattore, è la consapevolezza delle proprie possibilità.

 

Ogni individuo si comporta nella vita come se avesse un’opinione ben definita della sua forza e delle sue possibilità; come se all’inizio di un’azione, si rendesse conto della difficoltà o della facilità di un dato problema: in sintesi come se il suo comportamento dovesse derivare dalle sue opinioni (Adler, op cit, p. 17).

 

Dobbiamo quindi fondere un lavoro molto sottile, come l’immagine che un gruppo ha di se stesso, e una persona ha di se stesso, con un lavoro molto pratico come l’addestramento e la formazione su capacità allenabili. Il tutto confluisce nella ricerca di un vero e proprio “Stile di Vita” (Lifestyle) in cui affrontiamo le nostre paure anziché nasconderci, accettiamo esperienze anche senza la certezza di pieno successo e apprendiamo da esse

Quando una sconfitta non diventa qualcosa che distrugge il nostro senso di valore personale e la nostra personalità, quando elaboriamo un piano di vita che cominci ad avere senso, stiamo imparando atteggiamenti che Adler individua come veramente fondamentale per raggiungere risultati duraturi.

Se predomina il puro timore di un pericolo di sconfitta, se il perdere si confonde malamente con un abbassamento del senso di personalità, si cercherà di scappare dalla situazione. Al contrario, un atteggiamento sano consiste nel fatto di applicarsi, studiarla, allenarsi, lasciarsi allenare, cercare risorse ulteriori, potenziarsi, attivare il fuoco sacro del superare l’ostacolo e andare avanti. Questo è un grande salto di qualità.

Questo è ciò che anima le Forze Speciali, la consapevolezza di poter convivere con l’errore e anzi cercarlo per imparare da esso, e l’inutilità degli orpelli e dei packaging alla propria personalità. Le Forze Speciali si dedicano parecchio alla ricerca di “Lessons Learned” – lezioni apprese dagli errori che accadono e inevitabilmente fanno parte di un ambiente sfidante – e poco alla ricerca di un colpevole umano su cui scaricare tutto.

Se l’ideale di perfezione è una persona che non sbaglia mai, non avremo mai veri leader né veri gruppi, si cercheranno solo vittorie facili e scontate.

Un leader conduce ricerca anche in territori inesplorati, e apprende dagli errori, a volte persino andando a cercare dove sarà il punto di caduta per poi imparare e spostarlo alla prossima occasione un pò in avanti.

Come riferisce Adler, “ogni epoca culturale forma il proprio ideale di perfezione rapportandolo ai suoi pensieri e ai suoi sentimenti”.[1] Per cui è davvero il caso di confrontarsi con la cultura che ci circonda e “farla uscire”, attivando quello che oggi nella scienza memetica possiamo chiamare uno “smontaggio” della cultura in cui siamo immersi, o in termini informatici, un “reverse engineering”, andare a vedere con quale software siamo stati programmati e poi riprogrammarci con maggiore coscienza.

Questo lavoro è indispensabile per fare nella vita quello che vogliamo noi e non quello che la cultura storica in cui siamo nati ci dice sia bene o male senza il nostro permesso.

Grandi riflessioni sulla vita si devono accompagnare a grande addestramento del corpo e delle facoltà mentali.

Le Forze Speciali addestrano le facoltà mentali continuamente, dall’ingresso sino al grado di comando, e ai più alti gradi, la mente viene posta in condizione di apprendere dall’esperienza. La Formazione e l’addestramento sono continui. Perchè quando si va in una missione dove la vita e la morte si toccano con mano, è bene avere con se una mente lucida. Esiste una certa “spiritualità dell’addestramento” che non è mai visto come una perdita di tempo ma un rafforzamento delle proprie facoltà da cui può dipendere il futuro di altre persone e il proprio, e anche la vita. Nelle aziende, al contrario, la formazione viene da alcuni vissuta come una perdita di tempo, da altri come un male minore, da pochi e dai migliori invece come una leva della propria competitività e di riflesso di quella aziendale e del Paese. Questo non è fattore di poco conto. Come vivi la tua formazione, è un aspetto di come vivi la vita.

Quando parliamo di “addestramento”, non intendiamo l’esecuzione di semplici ordini robotizzati, ma l’interiorizzazione e completa assimilazione dell’azione entro un modo di fare e di essere.

Se non partiamo dal miglioramento di sè e delle proprie capacità, avremmo sempre bisogno di dare istruzioni e ordini, senza mai arrivare al fatto che le persone abbiano la volontà interiore di migliorare e la capacità di dirigere le attenzioni dove serve, arrivando ad una autonomia operativa che toglie il bisogno di essere guidati passo per passo. Il vero salto di qualità in un gruppo si ha quando sia sempre meno bisogno di dare ordini e sempre più coscienza autonoma di cosa è bene fare data la situazione, il contesto, la sfida, il compito, lo stato delle cose.

Una Formazione vera deve passare non solo dai concetti ma entrare nell’azione in cui questi concetti possono essere provati, vissuti, toccati con mano.

Il valore dell’esperienza è assoluto, ma serve l’abilità di apprendere dall’esperienza (la ‘meta-capacità’ di apprendere dall’esperienza): potremmo cadere senza capire mai perché siamo caduti, potremmo stare male senza capire mai perché e come siamo arrivati a stare male, potremmo persino avere dei risultati ottimi senza capire se è stato frutto del caso o di qualche nostra strategia che possiamo replicare e potenziare. Possiamo vivere una vita come alghe mosse dalle correnti senza mai mettere a sistema nel nostro repertorio di comportamenti le modalità vincenti che invece ci appartengono.

 

  • Nelle aziende, possono e devono diventare Team Speciali i team di progetto che vogliono sviluppare idee e concetti d’innovazione, si concentrano su come progettare un futuro veramente migliore dando vita a progetti nuovi, innovazione vera e non solo su carta o per fini pubblicitari e di propaganda, cui segua il nulla;
  • diventano Team Speciali anche le famiglie che decidono di far crescere figli sani, coscienti e forti, in una società che offre loro modelli malati, una sfida per certi versi enorme;
  • sono Forze Speciali i corpi scelti dell’Esercito e altre Forze che operano in ambienti difficili e in missioni critiche, rischiando la vita e con sacrificio;
  • sono Team Speciali, in un concetto esteso, le equipe mediche che effettuano interventi difficili che pochi altri riescono a realizzare;
  • sono Team Speciali i team agonistici e sportivi negli sport estremi, che devono trovare il modo di esplorare ogni angolo del potenziale umano, se vogliono sopravvivere;
  • sono Team Speciali i team sportivi anche in sport ordinari, dove la percezione di quello che si fa diventa sacra;
  • sono Forze Speciali gli operatori che agiscono nelle Centrali Operative, di Sicurezza e Protezione Civile, e devono apprendere l’arte del coordinamento di migliaia di flussi informativi, arrivando a comprendere significati nascosti ai più, per poi trasformarli in decisioni e azioni;
  • sono persone speciali e gruppi speciali alcuni gruppi dediti alla spiritualità o alla religione, in cui si giunge alla trascendenza dei limiti umani e alla connessione con valori sovra-umani, sovra-ordinati, percependo un senso dell’universo che sfugge alle persone comuni. Anche la spiritualità ha proprie forme di leadership.

 

Per essere veri leader serve visione. Ma visione vera, proiettata in un futuro migliore, non solo nel prossimo “trimestre finanziario” come accade troppo spesso nelle aziende.

I governanti pensano a inaugurare garage e centri commerciali, mentre gli scienziati ci dicono che dovremmo preoccuparci di altro.

Da una intervista a Stephen Hawking, astrofisico:

 

Quale sarà il nostro destino come specie, secondo lei?

“Credo che la sopravvivenza della specie umana dipenderà dalla sua capacità di vivere in altri luoghi dell’universo, perché il rischio che un disastro distrugga la Terra è grande. Quindi vorrei suscitare l’interesse pubblico per i voli spaziali. Ho imparato a non guardare troppo in avanti, a concentrarmi sul presente. Ci sono ancora molte altre cose che voglio fare”[2]

 

Chi si preoccupa di qualcosa di più grande di se stesso ha capito il valore della vita. Chi cerca di lasciare un contributo fisico o morale, un lascito che può andare oltre la propria vita individuale, è un vero leader spirituale e morale, gli altri sono solo maschere che abusano di questa parola.

[1] Adler, op cit p 31.

[2] Mario Valenza, 27/09/2015. Intervista a Stephen Hawking: “Il futuro dell’umanità è su un altro pianeta“, Il Giornale.

______

© Daniele Trevisani. Testo estratto dal libro Team leadership e comunicazione operativa. Principi e pratiche per il miglioramento continuo individuale e di team. Franco Angeli editore

Il modello è stato sviluppato per prevedere i comportamenti nei quali il soggetto non dispone del completo controllo volitivo, perché qualche barriera interna od esterna si frappone all’azione.[1]



La teoria prevede che anche un compito difficile può essere tentato, se la percezione di potercela fare è alta (del tipo “potrei persino lanciarmi da un grattacielo, se penso di aver gli strumenti per atterrare bene”).

Viceversa, anche azioni semplici non verranno attuate, se l’individuo percepisce barriere tali (interne o esterne) che lo possano bloccare (Es: “non ce la farò mai a parlare a quella persona, sono troppo timido”).

Queste percezioni partono dall’esperienza passata, da un analisi del proprio stato attuale, e dall’anticipazione di circostanze future (credenze sul futuro).

Uno dei contributi importanti fornito dalla T.P.B. consiste nel far emergere l’importanza delle credenze del soggetto come principali determinanti del suo comportamento: credenze soggettive, e non realtà oggettive.

Le credenze, come tali, possono essere anche profondamente errate, dovute a disinformazione, o scarsa conoscenza di stati reali, situazioni oggettive e dati di fatto.

Nel modello osserviamo infatti che:

  • sono le credenze sugli esiti dei comportamenti a creare l’atteggiamento verso l’intraprendere o meno un’azione (non le prove reali sugli esiti dimostrabili del comportamento);
  • sono le credenze su come gli altri reagiranno, a creare la percezione di doversi adattare alle aspettative altrui (non la conoscenza reale di come gli altri reagiranno, ma una pura ipotesi anticipativa di tale reazione);
  • sono le credenze del soggetto rispetto a ciò che egli può o riesce a fare, e non le sue reali capacità, a limitare il campo del fattibile.

1.1.1.             Behavioral Beliefs: le credenze comportamentali

Le credenze comportamentali collegano il comportamento target ai suoi esiti previsti. Es: “credo che per avere maggiore forma fisica si debbano assumere molte vitamine”. Questo pensiero rappresenta una pura credenza, che in alcuni casi non trova riscontro nella realtà. Infatti l’assunzione di vitamine, da sola, non è sufficiente a creare forma fisica, e in alcuni casi di sovradosaggio può anzi danneggiare l’organismo. In sintesi:

  • Una credenza comportamentale è la probabilità percepita che il comportamento target produca un certo risultato (outcome), un risultato che potrà essere positivo o negativo.
  • La somma delle credenze possedute dall’individuo forma l’atteggiamento verso il comportamento.

Poniamo il caso di un consumatore di fronte alla scelta di acquistare cerchi in lega leggera per la propria auto. Una delle pulsioni verso l’acquisto nasce dalla credenza che il cerchio in lega sia più leggero e riduca gli spazi di frenata dell’auto. Se questo risultato (outcome) è valutato molto positivamente (il cliente è molto sensibile al discorso “sicurezza”), la credenza inciderà positivamente sulla propensione specifica all’acquisto.

La propensione d’acquisto tuttavia è influenza da tutto l’insieme di credenze del cliente. Se una credenza ulteriore è che i cerchi in lega possano arrugginire facilmente, prima dei cerchi tradizionali (un outcome negativo), avremo una fonte di credenze che riduce la propensione all’acquisto.

La scelta si farà più difficile in quanto due credenze diverse, dai risultati attesi opposti (uno positivo, l’altro negativo), sono in conflitto, creando dissonanza cognitiva nel cliente.

Compito di chi vende o agisce nel marketing è quindi scoprire:

  • quante e quali sono le credenze “attive” nel soggetto;
  • quante e quali sono positive, negative, e con che intensità;
  • come le credenze si rapportano tra loro (decostruzione della mappa mentale delle credenze o belief-system);
  • quali credenze sono tra di loro in antitesi, creando dissonanza palese o latente;
  • quali credenze possono essere create per modificare lo stato attuale;
  • su quali credenze è più agevole agire per modificarne la direzione o intensità;
  • quali sono determinate da valutazioni d’esperienza personale, e quali sono basate su fonti non validate.

1.1.2.             Normative Beliefs: le credenze normative

Le credenze normative si riferiscono alle aspettative comportamentali percepite nei referenti importanti per l’individuo (persone o gruppi), quali la moglie o marito, famiglia, amici, colleghi, collaboratori o capi, clienti, partner, concorrenti o fornitori, e altri che assumono funzione di referenti in relazione al ruolo ricoperto e al comportamento in esame.

Le credenze normative (ciò che pensiamo gli altri vorrebbero noi facessimo o non facessimo), in combinazione con le motivazione ad adattarsi alle aspettative altrui, formano la “norma soggettiva”.

In termini psicanalitici, dobbiamo ricordare che il modello TRA non include soggetti importanti che possono anche non essere presenti, ma fungono comunque da “altri soggetti di riferimento”. Gli “altri latenti” o “referenti latenti” sono soggetti cui l’individuo guarda mentalmente per capire se questi sarebbero contenti o meno dell’azione che sta per intraprendere. Vediamo da una nostra trascrizione d’intervista in profondità come questo fenomeno degli “altri latenti” sia presente in modo marcato:

Quando sto per fare qualcosa di importante penso sempre se mia nonna avrebbe voluto o no, lei si che sapeva come si stava al mondo…. era una persona eccezionale. Mi ha cresciuto lei.

I “referenti latenti” possono essere anche figure istituzionali cui l’individuo si ispira per analizzare la bontà di un suo comportamento: Padre Pio, Che Guevara, il Papa, un leader politico ammirato, il collega di tanti anni fa che ha svolto da mentore e ispiratore, un docente carismatico, e altri.

Gli “altri rilevanti reali” sono invece soggetti presenti fisicamente nella vita del soggetto, soggetti con i quali ha realmente a che fare. Questi soggetti sono spesso multipli, nel senso che in molte scelte l’individuo deve render conto a numerose persone e gruppi Es: scegliere un abito ha un’influenza sia sulla famiglia che sul gruppo di persone con cui si lavora. Le loro “opinioni latenti” sulla bontà dell’acquisto agiscono in background sulla scelta.

Anche in questo caso dobbiamo notare che si tratta comunque di credenze: un cliente potrebbe rifiutare un acquisto gradito, nell’ipotesi che la mogli abbia una reazione negativa, o un buyer potrebbe evitare di svolgere un acquisto di soluzioni informatiche per un motivo simile (timore di ripercussioni da parte di colleghi che non apprezzeranno la scelta).

Questo rappresenta un problema dal momento in cui non si tratta di certezze ma di credenze, e come tali suscettibili di errore e percezioni distorte della realtà.

In termini di marketing, il lavoro sulla norma soggettiva richiede al venditore la capacità di modificare la percezione del rapporto individuo-gruppi, in due direzioni:

  • direzione A: emancipando l’individuo dalla pressione percepita dei gruppi, o,
  • direzione B: facilitando l’acquirente a vendere egli stesso l’idea della soluzione ai propri gruppi di riferimento, fornendogli argomentazioni adeguate.

Bisogna, in altre parole, ridurre le pressioni sociali percepite verso il non-acquisto ed eliminare la fonte di obiezione “quelli che contano per me non vorrebbero questo acquisto”.

Nel caso delle opinioni latenti negative sull’acquisto di un prodotto informatico

“se fosse vero, dati alla mano, che questa soluzione fa risparmiare all’azienda 50.000 euro all’anno, a parità di risultato rispetto alla situazione attuale, può essere per Lei interessante parlarne al suo Amministratore Delegato? Come pensa reagirà? Quali sono i dubbi che potrebbe avere? Che reazione avrebbe?”

Questi casi si inseriscono all’interno dell’ampia gamma delle riflessioni guidate indirizzanti, la cui tecnica verrà ulteriormente ampliata nei prossimi lavori di ricerca del metodo ALM.

1.1.3.             Control Beliefs: credenze sulle proprie capacità di controllo della situazione

Le credenze sul controllo degli eventi e sulle proprie capacità di azione sono al centro dell’intenzione di fare o no fare, agire o non agire, acquistare o non acquistare. “Sarò in grado di far digerire questo acquisto a mia moglie?” può chiedersi un marito. “È bello, ma sarò in grado di rendere realmente funzionante il nuovo sistema informatico?”, potrebbe chiedersi il buyer di un’azienda? “Sarò in grado di affermarmi anche se dovessi incontrare atteggiamenti ostili?” “Ho il controllo della situazione?” “Ce la posso fare?” sono altre domande inerenti le credenze sul controllo.

Il controllo comportamentale percepito si riferisce alla riflessione del soggetto rispetto alla sua abilità di “performare” un certo comportamento[1].

Le credenze sul controllo hanno a che fare con le presenza percepita di fattori che possono facilitare o impedire la prestazione o comportamento. Poniamo il caso di un manager che debba affrontare un discorso in pubblico: se anticipa tra gli uditori la presenza di elementi ostili, ma si ritiene in grado di dominarli, andrà tranquillamente verso la prestazione. Se non ritiene di avere le energie sufficienti per farlo, cercherà di evitare la situazione.

Il problema dei control beliefs non dipende solo dalla forza delle sfide esterne, ma anche e soprattutto dalla capacità interna che l’individuo sente di possedere, in relazione alle sfide (stato bio-energetico e psico-energetico dell’organismo)[2].

Anche sfide banali possono apparire gigantesche se i control beliefs sono negativi. Al contrario, il soggetto che sente di possedere grado elevato di autostima, sicurezza di sé, autocontrollo, e livelli energetici elevati, percepirà le condizioni per realizzare una buona prestazione, sia essa comunicativa, o in qualsiasi altro contesto comportamentale.

Relativamente all’acquisto, il cliente basa le sue credenze di controllo sulla base di passate esperienze, e giungere alla conclusione che “sì, sono in grado di gestire questa situazione, quindi procedo verso l’acquisto”, oppure “no, non ce la posso fare, è troppo difficile per me far passare la cosa, non sono in grado, non ce la faccio”, e quindi non procedere all’acquisto.

Le credenze sul controllo sono assolutamente diverse dal reale controllo che l’individuo possiede. Il controllo comportamentale reale si riferisce alle reali abilità, capacità e strumenti e altri prerequisiti posseduti, necessari per produrre un certo risultato o azione. Il controllo percepito si basa invece sulle credenze.

1.1.3.1.      La percezione di disponibilità economica, fattibilità e finanziabilità dell’investimento come leve facilitanti

La T.P.B. è in grado di spiegare numerose scelte del consumatore. I campi di applicazione di questo modello comportamentale sono vasti, e spaziano dal marketing finanziario al marketing turistico, dai comportamenti di consumo individuale agli acquisti aziendali. Ad esempio, nel marketing sportivo diverse ricerche evidenziano che la scelta di uno sport si basa spesso su percezioni errate di ciò che si è o meno in grado di fare. Queste credenze – errate – influenzano comunque la gamma di sport che si scelgono[3] (es: “non ce la farò mai a fare karatè” – profezia autoavverante che si ripercuote sull’atto di scelta).

La credenza “non ce la posso fare” caratterizza anche gli aspetti finanziari di molti acquisti.

Tra le cause che possono (1) bloccare o (2) fornire un “lasciapassare” all’acquisto, si inserisce un importante elemento del control belief: la percezione di poter finanziare l’investimento, di essere o non essere economicamente all’altezza della spesa.

Esistono infatti acquisti o investimenti aziendali che (a) sono personalmente ritenuti utili (= atteggiamento positivo), (b) non trovano barriere all’acquisto da parte dei gruppi di riferimento (= lasciapassare normativo), ma (c) sono percepite come troppo onerose in relazione alle disponibilità personali o aziendali (= blocco sul senso di controllo dell’investimento).

Nel metodo ALM è necessario porre attenzione sia ai dati oggettivi (es: il fatturato aziendale, la disponibilità economica misurabile) che al sistema di credenze dell’individuo.

I blocchi d’acquisto non partono solo da reali condizioni finanziarie o da vera indisponibilità ma anche da barriere mentali.

La percezione di non poter finanziare un investimento deriva spesso, nella nostra esperienza, da una errata allocazione dei budget mentali: casi in cui le risorse finanziarie esistono, ma sono mal distribuite.

In questi casi alcuni budget di spesa improduttivi sono sovrafinanziati, mentre nuove possibilità di investimento, più produttive, non hanno ancora trovato “canali mentali” aperti nel cliente[4]. Il caso tipico è dato dalla carenza di budget per la formazione. La formazione aziendale, se ben condotta, produce in realtà un ROI (Return on Investment) molto elevato, rispetto a spese in investimenti materiali che rimangono spesso inutilizzati.

Il venditore consulenziale dovrà quindi sapersi muovere su diversi fronti:

  • Aiutare il cliente a dirottare budget mentali da spese improduttive a nuove forme di investimento più produttivo. Il lavoro sui budget mentali implica un processo consulenziale e pedagogico sul modo di gestire le risorse del cliente, un’attività di che richiede grande professionalità.
  • Saper gestire la dilazione nel tempo dell’investimento (es: rateizzazione)-
  • Saper suggerire soluzioni di finanziamento dell’investimento tramite fonti diverse (da fonti pubbliche, quali i finanziamenti agevolati, a fonti private di credito).
  • Saper creare messaggi e comunicazione centrata sul ritorno dell’investimento (creare credenze positive su come l’investimento metterà il soggetto in grado di produrre più utile e fatturato, e quindi di ripagare abbondantemente la spesa).

Il supporto professionale del venditore/consulente consiste quindi nel creare maggiore percezione di controllo sulla finanziabilità, fattibilità e ritorno dell’investimento (messaggio: “anche tu puoi farlo”), sino a dirottare risorse da budget improduttivi ad altri budget (consulenza sui budget mentali).

Il consulente d’acquisto che agisce sui control beliefs si trova quindi ad agire non solo come consulente “di risultato” (cosa otterrai dall’investimento) ma anche come consulente sul metodo di finanziamento, là dove esistono barriere mentali dovute a credenze errate da parte del cliente sul fatto che l’investimento non sia alla sua portata.

Il consulente che intende agire sui control beliefs deve creare una relazione di aiuto nei riguardi del cliente, relativa al come implementare la soluzione. Questo significa accompagnare il cliente nel processo di cambiamento.

Ad esempio, una soluzione informatica costosa, ma gradita e produttiva, può trovare barriere dovute ai control beliefs quando il cliente pensa di non essere in grado di gestire la transizione al nuovo sistema informatico (difficoltà di migrazione).

Il consulente che offra un servizio di accompagnamento, tutoraggio e coaching nella transizione/migrazione al nuovo sistema rimuoverà in questo modo diverse barriere legate alla percezione “non ce la posso fare”, che caratterizza i control beliefs negativi. Questo significa vendere qualcosa di ben superiore al prodotto/servizio: la capacità di “vendere sicurezza”.


[1] Performare (to perform) è il verbo utilizzato dagli autori della TPB, e questo esprime il senso più profondo della sensazione di capacità nel fornire una prestazione.

[2] Fonte: Ricerche dell’autore (in corso) sulle relazioni tra sistemi energetici e prestazioni comunicative. Per ottenere informazioni sullo stato di avanzamento e prossime pubblicazioni inerenti il tema, inviare una mail a dt@studiotrevisani.it

[3] Bryan, A. D. e Rocheleau, C. A. (2002). “Predicting Aerobic Versus Resistance Exercise Using the Theory of Planned Behavior”. American Journal of Health Behavior, Volume 26 Number 2, March/April 2002.

[4] Per un approfondimento sulle teorie dei budget mentali, vedi capitolo 8 (“Budget Mentali e psicologia economica”) nel volume Psicologia di Marketing e Comunicazione. Milano, FrancoAngeli, 2002.


[1] Vedi Ajzen, I. (1991). “The theory of planned behavior”. Organizational Behavior and Human Decision Processes, 50, 179-211.

_____________

Copyright, Articolo di Daniele Trevisani, Studio Trevisani, sintesi didattica al volume “Comportamento d’acquisto e comunicazione strategica”, Franco Angeli editore, Milano.

Articolo elaborato dal volume “Il Potenziale Umano” – Autore: dott. Daniele Trevisani, www.studiotrevisani.it 

______

Chi si impegna per produrre performance umane deve assumere un preciso abito mentale. È l’assetto del guerriero, del Samurai, del combattente, del ricercatore concentrato, del missionario che crede in una causa.

È l’atteggiamento focalizzato di chi desidera ottenere qualcosa che reputa importante e – durante l’esecuzione – non si lascia distrarre da altro. Di chi ha un valore e lotta per esso. Di chi fa della causa una parte di sé.

Non riguarda solo  enormi imprese, ma anche e soprattutto la vita di ogni giorno. Il più grande Samurai di ogni tempo, Musashi, così descrive l’abito mentale di chi vuole intraprendere la vita del Samurai:

Chi voglia intraprendere la via dell’Hejò (strategia)

tenga a mente i seguenti precetti.

  • Primo: Non coltivare cattivi pensieri.
  • Secondo: Esercitati con dedizione.
  • Terzo: Studia tutte le arti.
  • Quarto: Conosci anche gli altri mestieri.
  • Quinto: Distingui l’utile dall’inutile.
  • Sesto: Riconosci il vero dal falso.
  • Settimo: Percepisci anche quello che non vedi con gli occhi.
  • Ottavo: Non essere trascurato neppure nelle minuzie.
  • Nono: Non abbandonarti in attività futili.

È eccezionale notare come anche oggi questo abito mentale sia dotato di enorme suggestività per chi intende sviluppare il proprio potenziale. Ci parla, infatti, di un atteggiamento di fondo.

È l’atteggiamento di serietà con cui un calciatore professionista rimane persona umile, cura alimentazione e riposo, rispetto al divo del calcio che assume atteggiamenti da star e si presenta tardi agli allenamenti.

È lo spirito di una ragazza che decide di sputare (esatto, sputare) sul modello proposto dai media di cosa sia una ragazza “arrivata” (fotomodella,  star televisiva, protagonista di reality show, anoressica, o bambola da chirurgo plastico) e piuttosto si impegna nello studio, in una professione utile, o in campo sociale, mandando a quel paese il modello che fa coincidere carriera con arcata dentale, natiche e scollatura.

È il coraggio di un ricercatore che intraprende vie di ricerca e sperimentazione inusuali ma dalle quali pensa di poter dare una aiuto al mondo, piccolo o grande, anche andando contro i baroni accademici e lo status quo.

È la saggezza del lottatore che cura attentamente il suo recupero prima di gettarsi in una nuova battaglia, consapevole del fatto che se non avrà riposato abbastanza non potrà sostenere molte battaglie e si brucerà.

È la passione di chi si impegna per una causa, fatica, fa rinunce ma non le rimpiange, e si sacrifica per qualcosa di cui forse non vedrà nemmeno i frutti in vita.

Ma non tutto è solo sacrificio. Le performance sono anche contribuzione, gioia, celebrazione, divertimento, piacere, il gusto di fare qualcosa di importante, essere parte di qualcosa, di lasciare un segno, di compiere imprese assieme a qualcuno e fare team. O la voglia di essere ciò che possiamo essere.

I veri performer sanno anche celebrare i propri risultati e vivere a pieno.

Ciascun precetto di Musashi si riferisce anche oggi ad una o più aree della psicologia delle performance e mantiene una validità assoluta:

Primo: Non coltivare cattivi pensieri. L’esercizio di un atteggiamento mentale positivo, il pensiero positivo, la concentrazione su ciò che di buono e utile vogliamo ottenere, allontanarsi da pensieri negativi o dal male; la ricerca di quello che oggi chiamiamo uno “stile cognitivo” efficace.

Secondo: Esercitati con dedizione. Oggi chiamato training, formazione, tecniche di allenamento e addestramento, e soprattutto, la necessità del performer di applicarsi in un active training, cioè in esercitazioni attive e non solo analisi teorica, e farlo con dedizione, nel tempo, e con continuità.

Terzo: Studia tutte le arti. L’approccio enciclopedico, la contaminazione positiva che deriva dall’andare fuori dai propri recinti e studiare le cose più disparate, interessarsi anche di ciò che altre discipline indagano, il contrario della chiusura in un recinto professionale o disciplinare, male odierno, il contrario delle sette, e della cultura dell’egoismo.

Quarto: Conosci anche gli altri mestieri. La capacità di muoversi ed agire anche in campi esterni, l’allargamento del proprio repertorio professionale, sapersi muovere anche fuori dal proprio campo di azione limitato, essere capaci anche in altre abilità e professioni, spaziare, non chiudersi.

Quinto: Distingui l’utile dall’inutile. Concetto similare a quello che nel sistema HPM chiamiamo Retargeting Mental Energy, o ricentraggio delle energie mentali, ciò che permette alle persone di capire veramente cosa merita il proprio impegno e cosa non lo merita, dove centrarsi o ricentrarsi nel proprio focus di attenzione, e quindi verso cosa direzionare le energie personali.

Sesto: Riconosci il vero dal falso. Coltivare le capacità di analisi, la percezione pura e decontaminata da preconcetti e distorsioni, il bisogno di verità, il bisogno di pulizia psicologica, il bisogno di sviluppare le capacità di riconoscimento (detection) indispensabile ad esempio in chi svolge il mestiere di negoziatore o di comunicatore, o in chi guida le persone (leader) o in chi lavora in gruppo (team working). Ed ancora, il bisogno di distinguere fatti da opinioni, teorie accertate da ipotesi, affermazioni personali da idee condivise.

Settimo: Percepisci anche quello che non vedi con gli occhi. La percezione è il fenomeno oggi più centrale in molte forme di psicologia, e comprende sia la propriocezione (capacità di percepire se stessi), che la percezione ambientale. Il settimo precetto di Musashi indirizza verso abilità di percezione aumentata, disambiguamento dalle illusioni percettive, sviluppo della sensibilità umana e sensoriale, ricerca di significati e quadri di analisi (Gestalt), e il potenziamento delle facoltà di osservazione. Tratta quindi di una “percezione allargata”, opposta ad una chiusura percettiva.

Ottavo: Non essere trascurato neppure nelle minuzie. Il bisogno di entrare nelle micro-competenze, la ricerca dell’eccellenza, l’abbandono di un atteggiamento di pressapochismo e banalizzazione. Attenzione ai dettagli che contano, assunzione di un atteggiamento di amore per quello che si fa e per come lo si fa.

Nono: Non abbandonarti in attività futili. Capire che il tempo è prezioso, e dobbiamo veramente decidere se abbandonarci ad uno squallido clone del modo con cui le persone comuni usano il tempo (copiare il mainstream), lasciarsi andare come bastoni sul corso di un fiume di qualunquismo, assecondare la piattezza di ciò che tutti gli altri fanno, o assertivamente prendere in mano il nostro tempo e decidere di farne qualcosa, allenarci, studiare, intraprendere, esplorare, scrivere, condividere, sperimentare nuove conoscenze; ed ancora, capire che esistono diversi macro-tempi, quello della produttività, dello studio, dell’auto-organizzazione, delle relazioni sociali, e quello del recupero, della meditazione, del relax, ma non esistono i tempi delle relazioni obbligate, lo spreco di tempo con persone piatte o arroganti o prepotenti, e vanno riconosciute e rimosse le attività di pura abulia o distruzione di sé.

Le lezioni di Musashi vengono da un performer che ha passato la vita a sfidare la morte, e hanno un significato odierno assoluto.

È ancora più incredibile notare come già nel 1600 Musashi concentrasse tutta la sua analisi su aspetti di enorme attualità: sinergia tra corpo e mente, correlazione tra preparazione fisica e mentale, il fatto che la preparazione o una vittoria sia una conquista personale e non un diritto da pretendere, e che prima si debba cercare un approccio mentale e strategico valido, e solo dopo vengono i dettegli operativi. Una lezione che nel terzo millennio moltissimi sportivi e manager devono ancora imparare.

Quando si dedicano assiduamente tutte le proprie energie all’Hejò e si cerca con costanza la verità è possibile battere chiunque e ovviamente raggiungere la supremazia, sia perché si ha il pieno controllo del proprio corpo, grazie all’esercizio fisico, e sia perché si è padroni della mente, per merito della disciplina spirituale. Chi ha raggiunto questo livello di preparazione non può essere sconfitto.

Dobbiamo oggi riflettere sul significato profondo che queste parole assumono: dedizione, ricerca della verità, pulizia spirituale, sono il vero messaggio di fondo. La ricerca della supremazia e della vittoria appartengono ad una realtà medioevale, vengono dall’essere nati in un certo momento storico dove questo significava vivere o morire. Se, in una mattina del 1600, qualcuno si fosse presentato a noi con una spada per ucciderci, sarebbero state drammaticamente importanti anche per noi.

Oggi i nemici veri non portano spade ma, là fuori, si aggirano ringhiando.

Si chiamano miseria, ignoranza, ipocrisia, prepotenza, arroganza, dolore esistenziale, fame, violenza, bambini che soffrono, nepotismi, corruzione, sistemi clientelari – e soprattutto- fonte di ogni male, l’incomunicabilità.

I nemici possono essere anche dentro: presunzione, chiusura mentale, perdita di senso, perdita di stima in sè, perdita di valori, perdita di orizzonti, chiusura verso nuovi concetti, auto-castrazione, smettere di sognare o credere in qualcosa, chiusura della propria prospettiva temporale in orizzonti sempre più brevi e limitati, vivere solo per se stessi.

Contro questi nemici gli insegnamenti di Musashi, e lo spirito guerriero che li anima, hanno ancora enorme senso e validità.  Respirare ogni giorno a pieni polmoni uno spirito guerriero per fini positivi è un abito mentale. Alzarsi con questo spirito, andare a dormire con questo spirito, risvegliare gli archetipi guerrieri e direzionarli per costruire, è una sfida nuova, entusiasmante, che fa onore al dono di esistere.


Miyamoto Musashi, 1584-1645, giapponese, considerato nelle arti marziali come il più grande Samurai vissuto in ogni tempo. Ebbe il primo duello mortale a 13 anni, e vinse. Vagò per il Giappone come Ronin (guerriero errante) per anni, battendosi per sessanta volte ottenendo sempre la vittoria, lottando anche contro più avversari contemporaneamente o superando imboscate e duelli con decine di avversari. A 50 anni si ritirò per dedicarsi allo studio, alla letteratura e ad altre discipline artistiche risultando un maestro in molte di esse. Nel­la pittura, nella calligrafia, le sue opere oggi fanno parte del patrimonio artistico giap­po­nese. A 60 anni si ritirò in una grotta per scrivere il suo Manuale. In Giappone oggi è leggenda.

Musashi, Myamoto (1644), Il libro dei cinque anelli (Gorin No Sho), edizione italiana Mediterranee, Roma, 1985, ristampa 2005, p. 61.

Ivi, p. 62.

_________

Copyright, dal Volume:

“Il Potenziale Umano”

Metodi e tecniche di coaching e training per lo sviluppo delle performance