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© Articolo estratto con il permesso dell’autore dal testo di Daniele Trevisani – “Psicologia di marketing e comunicazione. Pulsioni d’acquisto, leve persuasive, nuove strategie di comunicazione e management”. Franco Angeli editore, Milano.

La psicologia della Gestalt può essere considerata – in linea molto semplificata – una scuola di pensiero nella quale si pone attenzione ai rapporti tra un “tutto” e i suoi componenti, tra elemento e insieme di appartenenza.

Le ricerche sottolineano che le persone, andando alla ricerca di una coerenza con i propri costrutti mentali, mettono in pratica comportamenti di percezione selettiva, percezione distorsiva e attenzione selettiva. In altre parole, filtrano la realtà e cercano di ricostruirla per ridare ad essa un senso. Nel farlo, utilizzano dei “set” o “frame” (punti di osservazione e modalità di inquadramento), come linee guida. Le ripercussioni sulla fruizione del prodotto e sulla customer satisfaction sono numerose. Le caratteristiche del prodotto possono infatti venire giudicate in maniera diversa – più o meno positiva – a seconda del frame adottato.

Nell’immagine che segue è presentata una figura che contiene due possibili interpretazioni, una “anziana signora” o la “giovane col volto girato”. Quali delle due seguiremo per prima, è un effetto del nostro set percettivo (frame).

Un osservatore che apprenda a vedere nell’immagine la “giovane” farà in seguito fatica a percepire l’anziana signora. Viceversa, un osservatore cui venga immediatamente insegnato a vedere l’anziana signora avrà difficoltà successive a percepire la giovane.In termini di marketing, questo determina un fenomeno di imprinting (marchiatura), per cui le sensazioni iniziali in un rapporto con il prodotto formano il set (o frame) attraverso il quale il resto dell’esperienza verrà filtrato. Se esse sono negative, tutto il resto della prestazione verrà giudicato tramite un filtro negativo. Ad esempio, una grave “gaffe” comportamentale nei primi secondi di una presentazione di vendita (se il soggetto viene colto mentre fa cenni di nascosto ad un suo collega) è in grado di instillare un frame di sospetto e atteggiamento negativo per tutto il resto dell’incontro. Allo stesso modo, un sito internet poco curato produce un transfer di immagine negativa di cui soffrirà sia la vendita che la valutazione del prodotto.

La Gestalt di prodotto e le illusioni percettive

Analizzare la Gestalt di marketing significa valutare le interazioni tra i molteplici elementi (parti) di cui si compone il prodotto/servizio/prestazione, e l’effetto complessivo che ne emerge, in termini di impatto sul cliente. Significa quindi andare oltre la semplice somma delle parti, e capire l’effetto complessivo, globale, sinergico, di un insieme di input con i quali il cliente viene a contatto.

La psicologia della Gestalt ha evidenziato come, di fronte ad un insieme di percezioni, colui che percepisce tende ad organizzare i diversi stimoli in maniera coerente secondo schemi precostituiti, ed il tutto crea qualcosa di diverso dall’insieme delle parti.

Il cubo di Necker è un esempio di come un insieme di elementi costituisca una Gestalt, dimostrando che la percezione è qualcosa di più di una semplice “ricezione” passiva di stimoli, ma diviene nella mente umana “organizzazione” attiva degli stimoli provenienti dall’esterno. L’insieme di oggetti presenti sul piano dell’immagine viene infatti organizzato percettivamente sino ad identificarvi una forma geometrica – un cubo, oggetto che in realtà non esiste, un oggetto virtuale che viene “costruito” dal fruitore. Questo accade anche nella percezione di altri “oggetti mentali”.

Così come dall’organizzazione di queste figure è possibile percepire qualcosa di diverso dalla semplice somma dei componenti, l’organizzazione del design del prodotto, la somma dei suoi elementi percettivi – visivi, olfattivi, tattili, gustativi – crea una realtà che è diversa dalla somma delle parti. Il prodotto è quindi una Gestalt, una realtà complessa superiore ad una semplice somma di componenti, un’entità che acquista una personalità propria anche in relazione a come i diversi componenti si rapportano tra loro. L’impresa stessa, il valore del suo marchio, il valore della sua offerta, costituiscono un’insieme di Gestalt di livello ancora superiore. Le implicazioni che ne derivano sono la contaminazione continua (positiva o negativa) tra elementi comunicativi dell’impresa, tra la comunicazione del sito web e una visita aziendale, tra il packaging e la pubblicità, tra una promozione e la percezione del valore del marchio, in un crescendo di interazioni complesse.

La ricerca della strutturazione e della congruenza con i propri schemi cognitivi è una delle costanti della mente umana. Il tentativo di semplificazione della complessità, la ricerca di categorie in cui incasellare gli eventi e le cose, la strutturazione di elementi in insiemi omogenei, nasce da un bisogno di consistenza, di coerenza tra elementi, di omogeneità di senso e significato.

Le illusioni ottiche dimostrano che non sempre quello che si percepisce è corretto. Ad esempio, molti sarebbero disposti a giurare sul fatto che le linee della figura successiva non siano parallele, mentre in realtà esse sono esattamente parallele.

Le implicazioni per la psicologia del prodotto sono numerose e si riferiscono alla necessità di considerare il prodotto anche nei suoi minimi dettagli. L’esperienza totale di prodotto (ETP) si forma per organizzazione di una molteplicità di dettagli.  La somma dei dettagli costruisce una Gestalt di prodotto – una visione d’insieme. Ogni dettaglio del prodotto è significativo, coerente o incoerente, consonante o dissonante, rispetto all’immagine globale.

Il cliente non valuta un prodotto o un’impresa per quello che sono realmente. Egli elabora input che provengono da un insieme percettivo di contatto (ogni elemento, oggetto, persona, lettera, packaging, media, che veicola qualcosa dell’impresa e del prodotto, nel momento in cui il cliente li incontra).  Questo insieme di contatto può produrre informazioni distorte o divergenti dalle intenzioni aziendali.

La presenza di elementi dissonanti, in questo insieme, contravviene al tentativo del consumatore di formare una immagine coerente di prodotto, e genera un effetto negativo a catena su tutto il processo valutativo.

Ad esempio, nelle prime fasi di contatto con l’impresa, potrebbe succedere che (1) venga visitato innanzitutto il sito aziendale con funzione di orientamento e valutazione preliminare, e (2) vengano ricercate informazioni ulteriori sulla società tramite altre fonti. Se il sito aziendale è sbagliato e proietta un’immagine negativa, le ricerche ulteriori di informazioni sull’impresa saranno guidate da un tentativo latente di ottenere conferme negative, che rinforzino l’opinione iniziale scaturita dalla navigazione del sito, ed evitino l’instaurarsi di una dissonanza interna.

Le contaminazioni tra elementi possono portare a detrazioni di immagine le quali si traducono immediatamente in riduzioni di fatturato, nel momento stesso in cui generano una minore propensione all’acquisto.

© Articolo estratto con il permesso dell’autore dal testo di Daniele Trevisani – “Psicologia di marketing e comunicazione. Pulsioni d’acquisto, leve persuasive, nuove strategie di comunicazione e management”. Franco Angeli editore, Milano. Vietata la riproduzione senza citazione della fonte.

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Articolo di Daniele Trevisani, anticipazione editoriale dalla rivista Communication Research n. 2/2010, Copyright.

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Vivere il brand significa aiutare: Le relazioni umane al centro del vissuto della Marca.

Dal 2000 e 2001, annio in cui ho pubblicato il volume “Competitività Aziendale” e “Psicologia di Marketing”, quando parlo di Brand, ripeto più o meno le stesse cose, e cioè che il Brand è una questione di relazioni umane e non di pubblicità. Inutile investire in grandi budget se poi il contatto vero con le persone disconferma quanto promesso. Quando le persone si sentono trattate male, quando non sono ascoltate, quando chiami al telefono e si disinteressano di te, quando cerchi di contattare le aziende e non ci riesci, quando chiami un centralino, quando hai qualcosa che non va nei prodotti acquistati. il brand si vive quando qualcuno che tu percepisci come “azienda” ti guarda e come ti guarda, quanto ti parla e cosa dice. Li nasce il vissuto del brand.

La sola differenza che vedo, ora, è che esistono nuovi strumenti (es: le neuroscienze) che offrono prove di quanto prima si teorizzava.

Storie di ordinario disinteresse. Ieri sono entrato in un concessionario di auto di un brand tedesco tra i più noti del mondo. Dopo 20 minuti di attesa, dove nessuno si è degnato di chiedersi cosa ci facessi li, me ne sono andato. Non puzzavo, ero vestito bene (camicia bianca e abito scuro), non sembravo un punkabestia, avevo persino un leggero strato di gel che offusca i capelli grigiastri sulle tempie che (dicono…) fanno tanto George Clooney (a me fanno solo incazzare, ma non fa niente)…. come un povero ebete… giravo per la concessionaria… allibito… in un clima surreale post-nucleare, tipo quello di un un ufficio ministeriale in cui entri e tutti fanno qualcosa tranne guardarti…  entravo e uscivo dalle auto per riempire il tempo e il disagio, cercavo disperatamente con gli occhi qualcuno cui chiedere qualcosa. Volevo un preventivo. Niente da fare. Una povera receptionist mi guarda e apre le braccia come per dire:  sono tutti occupati in altro (e non c’erano altri clienti in quella concessionaria alle 16). Non penso neanche di tornarci.

Vivere il brand significa tanto, ma vorrei soffermarmi un secondo su due significati particolari: (1) aiutare tramite il brand le persone, concretamente, e (2) fare qualcosa che si collega agli eventi di vita delle persone. Io vivo un brand se questo è parte della mia vita. In caso contrario “conosco” un brand, ma non lo vivo. Vivo un brand quando le persone me lo fanno vivere, e non credo più alla pubblicità se non tocco con mano, sono diventato diffidente, e come me tanti altri, a forza di scottature.

Se dimentichiamo la dimensione del brand come “aiuto” concreto verso i bisogni del cliente scivoliamo nella pura dimensione pubblicitaria che non si concretizza nei comportamenti reali, quotidiani. In questo caso saremmo solo in un ambiente falsamente vivo, di plastica, patinato e di pura immagine, che non è il nostro.

L’aiuto verso i bisogni del cliente ci permette inoltre di non fermare l’attenzione all’atto di acquisto ma di entrare nella dimensione dell’uso del prodotto, la vera dimensione (nessuno di noi compra ad esempio una TV come soprammobile, salvo alcune patologie, ma ricerca un beneficio d’uso o di possesso correlato al prodotto acquistato). La dimensione dell’utilizzo quotidiano e dei “costi psicologici” che rallentano un acquisto o ne diminuiscono la fruizione completa, sfugge spesso al marketing, tanto concentrato su costi e ricavi quanto poco attento a cosa accade ai prodotti una volta pagati, a come questi entrano nelle case e nella vita delle persone (la dimensione micro-sociologica o etnometodologica, direbbero gli accademici).

Non mi piace parlare con i robot telefonici, e vorrei che mi chiedessero cose serie. A me, ad esempio, Vodafone continua a far telefonare da un robot-software (pensando che apprezzi parlare con voci registrare e non abbia di meglio da fare), per sapere se il povero ragazzo (che io immagino nella mia menta un CO-CO-CO che non arriva alla fine del mese), il quale ieri mi ha risposto al servizio 190, mi è piaciuto. Non mi ha mai chiesto una volta se la benedetta e pubblicizzatissima chiavetta va sempre come vorrei, cioè in UMTS, o quante volte mi ritrovo invece incastrato con una connessione al rallenty, che fa persino rimpiangere i vecchi modem. La dimensione più banale, l’analisi dell’uso quotidiano del prodotto, sembra essersi persa, dimenticata, nonostante i tanti powerpoint sventolati nei Business Master MBA, e dalle mitiche (e mi sia consentito, plasticose) società di consulenza internazionali che trasudano di parole anglofone tanto quanto sono disancorate alla vita dell’uomo della strada e della famiglia dei paesi, delle città, delle provincie.

Acquisto frenato. Altro esempio concreto, da un caso reale di acquisto problematico: acquisto di un TV al plasma di nuova generazione, bloccato, frenato e posticipato dalla “paura” di non sapere come collegarlo a tutti i dispositivi già esistenti collegati alla TV precedente.

Nel caso reale: acquirenti poco alfabetizzati dal punto di vista informatico, etò 66 e 73, con TV attuale collegata a lettore DVD, lettore VHS, decoder attuale in funzione, per canali a pagamento di una nota impresa televisiva cui non facciamo pubblicità. Tutti questi dispositivi ora funzionano magicamente assieme, dopo diversi interventi di tecnici (chiamati dopo ore di disperati tentativi autonomi, in un groviglio di cavi tragicomico), e la sola idea di dover ripartire da zero, sostituire tutto e dover riconfigurare tutto da soli spaventa i due acquirenti. Per non parlare della incredibile confusione tra tecnologie LCD, plasma, ultra-led, tutto-tronics, ultra-flat, e altri misteri della fede, che i poveretti davvero non capiscono (anche se la differenza di prezzo può essere di migliaia di euro).

Brand Caldi e Brand Freddi

  • Cosa farebbe un Brand Vivo, un Brand Caldo,  nella Grande Distribuzione o in altro settore, di fronte a questo stato di cose?
  • Cosa farebbe un Brand Passivo, un Brand Freddo,  nella Grande Distribuzione o in altro settore, di fronte a questo stato di cose?

Dobbiamo consigliare a queste persone di rivolgersi ad un negozio specialistico o ad un installatore? Dobbiamo pensare che in fondo non è un problema nostro? Il loro problema diventa il nostro problema o rimane loro? Il filo rosso che collega il cliente al brand finisce appena usciti dalla barriera delle casse? E dove inizia? Come essere e diventare referenti assoluti e prioritari di una categoria di bisogni? Domande non facili.

Ma il problema non si ferma qui. Anche supposto che si attivi qualche forma di servizio, a pagamento o in coordinamento con service esterni, questo andrebbe comunicato adeguatamente. Come insegna una legge basilare del marketing, nessun valore è tale se non percepito.

E siamo certi che un eventuale installatore riesca a mentenere elevato il valore del Brand, non essendo parte (banalmente) della stessa partita IVA, ma lavorando per la propria?

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Articolo di Daniele Trevisani, anticipazione editoriale dalla rivista Communication Research n. 2/2010, Copyright.