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Articolo estratto con il permesso dell’autore, dott. Daniele Trevisani, dal testo “Team leadership e comunicazione operativa. Principi e pratiche per il miglioramento continuo individuale e di team

Chi riesce a trascinare i propri uomini con sé portando le loro anime nello scopo ha conseguito un risultato. Chi porta solo i loro corpi non ha conseguito nulla. Pertanto:

•     la leadership emozionale, o leadership emotiva, analizza e sviluppa la capacità di attingere con successo alle risorse emozionali per coordinare e dirigere i team, i progetti e le operazioni;

•     gestire le proprie emozioni precede la capacità di gestire le persone;

•     i tipi di comunicazione osservabili, gli scambi conversazionali, di segni e di segnali, sono potenti denotatori dei climi dei gruppi;

•     occorrono specifiche abilità per cogliere i segnali deboli che spesso caratterizzano gli stati emotivi (Emotional Detection Skills).

leadership emotiva.1

È difficile essere efficienti ed efficaci quando a predominare, nello stato d’animo, sono ansia, paura, depressione, timore e altre emozioni negative (nonostante le situazioni da affrontare possano essere difficili).

È altrettanto raro essere efficaci se non si possiedono doti di autoriconoscimento dei propri livelli di energie e stati individuali, e di quelli dei membri dei team. Il tormento interiore è parte della vita di chi opera in condizioni difficili, e le emozioni possono prendere il sopravvento “sequestrando” le risorse delle persone, come evocato in questo passaggio suggestivo di un brano di letteratura bulgara, che evoca alcuni passaggi di antiche guerre balcaniche tra i briganti bulgari ribelli che combattevano contro gli invasori turchi:

Quella notte Sinap non poté dormire, e pensò a lungo a ciò che era avvenuto. Un ceppo ardeva debolmente nel focolare, gettando sulla parete grandi ombre che si intrecciavano e correvano come fossero esseri vivi; passavano velocemente come cavalieri e sparivano, ed egli le guardava fissamente (Stoianov 1936).

I team inefficaci sono molto frequenti. Altrettanto frequenti sono i leader inefficaci, persone incapaci di entrare realmente nel ruolo e farsi riconoscere come leader. Il viaggio verso la leadership è un “viaggio eroico” (prendendo a prestito i concetti della psicologia degli archetipi), nel quale ci confrontiamo con i goals da raggiungere ma anche con le nostre capacità attuali, con chi siamo veramente, con che ruolo di vita stiamo giocando, e soprattutto con la nostra capacità di evolvere.

Nella maggior parte dei casi, la vera differenza (il vantaggio competitivo o il punto debole, nei casi di insuccesso) si colloca:

•     nelle abilità di comunicazione intrapsichica (il dialogo interno al­l’individuo stesso);

•     successivamente nella comunicazione ai membri dei gruppi, one-to-one e one-to-many;

•     nella gestione dei flussi comunicativi interni tra i diversi membri del team, dei climi emotivi che ne risultano, con ovvie ripercussioni sul­l’efficacia operativa.

In questa sfera di problematiche, l’intento del leader è di produrre una distinctive contribution, un contributo originale che proviene da un modo completamente diverso di analizzare un problema o una tematica (Mick 2003)[1].

Alcuni leader, apparentemente ottimi, non portano alcuna contribuzione distintiva, non identificano azioni positive da compiere, inconsistenze o lacune nelle conoscenze precedenti, non portano nuova luce.

Andare alla ricerca di un contributo creativo significa impegnarsi nella ricerca di contaminazioni: analizzare la leadership attingendo contemporaneamente all’antropologia, al management, allo sport, alla semiotica, alle scienze spirituali, alla drammaturgia, alla psicologia della comunicazione, a ogni possibile area del sapere, con l’aggiunta di esperienze di ricerca sul campo, concrete, nelle aziende (approccio olistico)[2].

Anche tra chi si sforza di superare i confini delle varie discipline, sono pochi coloro i quali riescono a generare un contributo applicabile e pragmatico, concreto, in grado di aiutare una persona, una coppia, un gruppo, un’azienda, a progredire.

Chi vi riesce agisce nella prospettiva che nel metodo ALM (Action Line Management) viene definita olistico-pragmatica. Olistica, perché aperta a ogni possibile contribuzione e campo dell’esperienza o del sapere, e pragmatica, perché necessariamente orientata a essere utile, contributiva, praticabile, e quindi “filtrante” rispetto a un puro esercizio intellettuale.

Con questo intento e questa sfida nella mente, la leadership operativa ha bisogno di appropriarsi di diverse aree tematiche, alcune delle quali introducono importanti innovazioni. Tra queste segnaliamo:

•     la teoria degli stati conversazionali;

•     la teoria dell’ecologia della comunicazione;

•     la teoria della leadership emozionale;

•     le tecniche di training mentale e psicoenergetica.


[1] David Mick, amico personale e tra i più brillanti ricercatori mondiali di management.

[2] Per un esempio di ricerca crossdisciplinare in area manageriale, vedi il lavoro di congiunzione tra marketing e semiotica condotto da Mick, Burroughs, Hetzel e Brannen (2004).

Altri materiali su Comunicazione, Coaching, Formazione, Potenziale Umano, Crescita Personale e Professionale, disponibili in questi siti e link:

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Temi e Keywords dell’articolo:

  • Leadership emotiva
  • Risorse emozionali
  • Stati emotivi
  • Gestire le emozioni
  • Comunicazione intrapsichica
  • Flussi comunicativi
  • Capacità di evolvere
  • Generare contributi innovativi
  • Approccio olistico-pragmatico

Articolo estratto con il permesso dell’autore dal testo di Daniele TrevisaniIl potenziale umano. Metodi e tecniche di coaching e training per lo sviluppo delle performance”. Franco Angeli editore, Milano.

Come aumentare le energie mentali

Le emozioni sono un vissuto permanente di ogni essere umano. La Self-leadership emozionale consiste nella capacità di vivere le emozioni come una risorsa, siano esse positive o negative, e non solo come un sottoprodotto della vita.

Questo prevede alcune capacità psicologiche che si possono apprendere:

  • riconoscere i propri stati emotivi (abilità di riconoscimento, detection skills);
  • saper ancorare il proprio stato emotivo a precise fonti, esperienze o vissuti (localizzazione emozionale),  riconoscere da dove vengono le propri emozioni;
  • disinnescare gli stati emotivi negativi e allontanarsi da emozioni negative croniche o superiori alle nostre capacità di elaborarle (scudo emozionale, emotional shielding);
  • aumentare la positività dei vissuti emozionali riuscendo a gioire e trarre emozioni positive anche da piccoli eventi (micro-eventi) o grandi eventi della vita (gioia situazionale, sensation windows);
  • aumentare la solidità emotiva opposta ad una fragilità emotiva, soprattutto in condizioni in cui la fragilità emotiva può bloccare o annebbiare l’individuo, rendere confuse le sue azioni e reazioni.

Principio 2 – Leadership emozionale ed energie mentali

Le energie mentali diminuiscono o si esauriscono quando:

  • l’individuo non è consapevole degli stati emotivi che sta vivendo;
  • l’individuo non è consapevole delle cause che producono un certo stato emotivo;
  • l’individuo non è in grado di proteggersi dalle emozioni negative, vivere con maggiore distanziamento le esperienze negative, e i vissuti emotivi negativi impediscono di raggiungere i propri obiettivi e risultati (fragilità emotiva);
  • l’attenzione è imprigionata sui vissuti negativi, in relazione a micro-eventi e macro-eventi personali (traumi emotivi irrisolti);
  • l’individuo non ha appreso a generare stati, situazioni, momenti, eventi (micro e macro) che possono generare emozioni e sensazioni positive;
  • l’individuo viene trascinato negli stati emotivi da persone ed eventi, senza riuscire ad arrestare i trascinamenti (essere in balìa degli eventi e delle persone).

Le energie mentali aumentano quando:

  • si genera consapevolezza degli stati emotivi vissuti (coscienza emotiva), della loro tipologia, intensità e localizzazione, con buona capacità di riconoscimento e di labeling (dare un nome alle emozioni e distinguerle);
  • si genera consapevolezza delle cause degli stati emotivi vissuti;
  • si acquisiscono capacità di protezione dalle emozioni negative, si apprende a far si che esse si manifestino e fluiscano senza bloccare il corso della propria vita e azione;
  • viene condotto un lavoro serio e programmatico per risolvere traumi emotivi passati (gravi o meno gravi) e quelli generati dall’operatività quotidiana, con un supporto umano (evitare l’elaborazione di traumi in solitudine o senza supporto);
  • l’individuo apprende a nutrirsi di emozioni positive, percepire le positività, generare le occasioni di positività, produrre un clima emotivo positivo;
  • l’individuo sa riconoscere e bloccare i trascinamenti emotivi, non è in balìa di eventi e persone, è meno soggetto ai “tiranti emotivi” generati dall’ambiente e dalle relazioni.

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  • supervisione

© Articolo estratto dal libro di Daniele Trevisani “Negoziazione interculturale. Comunicare oltre le barriere culturali. Dalle relazioni interne sino alle trattative internazionali”. Franco Angeli editore, Milano. Pubblicato con il permesso dell’autore

La Mental Noise Theory (rumore mentale)

La Mental Noise Theory evidenzia che le persone irritate o che vivono emozioni negative hanno maggiori difficoltà nell’ascoltare e nell’elaborare l’informazione.

Il “rumore mentale” può ridurre dell’80% l’abilità di elaborare la comunicazione e di capire[1].

Tra le ragioni che conducono alla riduzione di efficienza comunicativa sino al 20% si collocano:

  • traumi dovuti a esperienze precedenti;
  • agende (priorità) in competizione;
  • eccesso emotivo (eccesso di attivazione);
  • scarso senso di autoefficacia (self-efficacy) e assertività.

La consapevolezza delle proprie predisposizioni emotive

Secondo Schein[2], per poter negoziare o lavorare positivamente è necessario identificare la propria predisposizione emotiva

Schein evidenzia questa dinamica all’interno del processo di consulenza (relazione consulente-cliente) ma essa ha una validità che si estende a tutte le dinamiche di gestione del potere nei gruppi, come nel caso della negoziazione:

Se la mia indole mi predispone a rispondere a certi tipi di fatto con certi tipi di reazione emotiva, è necessario che io conosca questa predisposizione per giudicarne il grado di adeguatezza in determinate situazioni. Se per esempio tendo a mettermi sulla difensiva e adirarmi ogni volta che un cliente mi tiene testa o mi dà torto, devo riconoscere l’esistenza di questa tendenza e imparare a controllarmi o a gestire le mie emozioni nel miglior modo possibile,specialmente se, a mio giudizio, una polemica con il cliente non sarebbe produttiva ai fini del processo di consulenza. Non sempre, tuttavia, è sbagliato mettersi sulla difensiva o adirarsi. Talvolta è anzi la reazione più adeguata, ma per scegliere e decidere il modo migliore di affrontare la situazione è necessario conoscere le proprie predisposizioni[3]..

Come risulta evidente, la direzione data da Schein non è quella della repressione emotiva assoluta, ma la gestione consapevole.

L’ecologia della comunicazione e la leadership emotiva

L’ecologia della comunicazione rappresenta uno stimolo sensoriale complesso (inteso come insieme di input visivi, verbali, tattili, olfattivi, gustativi, cinestesici). Ogni elemento che raggiunge il sistema percettivo del soggetto è in grado di generare emozioni (forti o deboli, centrali o periferiche). 

La serie di stimoli sensoriali che si attivano nella partecipazione alla negoziazione è quindi un portatore di attivazione emozionale.

Noi viviamo costantemente all’interno di specifiche aree emozionali o vissuti emozionali, ci spostiamo di emozione in emozione, spesso velocemente, altre volte lentamente. 

L’incontro negoziale e le attività negoziali sono momenti di forte attivazione emotiva, poiché mettono in gioco i propri interessi personali, gli interessi del ruolo rappresentato, gli interessi dell’impresa, ma anche la propria “faccia” ed immagine, verso se stessi (autostima) e verso gli altri.

L’esito negoziale – positivo o negativo – può incidere sulla propria storia personale, sulla sicurezza di sè, sul senso di autoefficacia. 

Tali fattori emotivi si amplificano in genere nella negoziazione interculturale, in cui possono entrare in gioco altre ed ulteriori dimensioni[4], quali:

  • la Communication Apprehension (apprensione o ansia da comunicazione) amplificata da incontri di tipo interculturale;
  • l’etnocentrismo, la considerazione che la propria cultura sia superiore e la difficoltà di accettare opinioni provenienti da culture diverse;
  • la IWTC (intercultural willingness to communicate), intesa come generale atteggiamento o predisposizione (positiva o negativa) verso l’incontrare genti di culture diverse.

Diversi fenomeni rendono difficile mettere in pratica una gestione delle emozioni consapevole, razionale, in grado di farle emergere dal subconscio e dall’inconscio, per potervi “fare i conti” e reagire adeguatamente.

I rapporti tra le emozioni, la comunicazione interculturale e le performance del lavoro di gruppo

Quanto sono importanti le emozioni nell’incidere sulla performance?

Nel metodo ALM si evidenzia con forza che il vissuto emotivo di un gruppo è uno dei fattori più importanti per poter ottenere performance durature ed efficaci. 

Anche un gruppo momentaneo, composto da persone che negoziano per un tempo limitato, diventa per quel periodo di tempo un team, un raggruppamento di persone che cercano di raggiungere risultati, ciascuno per se (nei modelli più arretrati) o con soddisfazione reciproca elevata, nei modelli win-win più evoluti.

L’importanza dei vissuti emotivi nei gruppi interculturali è evidenziata anche nei setting più estremi, come nei multicultural crews spaziali. La pianificazione e gestione delle missioni spaziali cambia drasticamente quando i team sono composti da persone che provengono da culture e nazioni diverse.

Sebbene accomunati da una passione e da una professione, i diversi bagagli di esperienze e di acculturazione possono portare il team-member a collidere in ambienti ristretti, non appena queste differenze iniziano a trasudare.

Diversi studi esaminano il problema, per meglio comprendere l’influenza e la gestione delle differenze culturali tra membri di equipaggi e team tecnico-scientifici che lavoreranno e vivranno nello spazio nel futuro[5]. Questi studi si rifanno quindi alle ricerche sulla intercultural effectiveness (efficacia interculturale) sulla Terra, si occupano inoltre di come migliorare le procedure di e selezione/valutazione, il training interculturale, il monitoraggio e il supporto, e il debriefing delle esperienze vissute dagli astronauti.

Essere chiusi in una stanza a “far funzionare una negoziazione” non è molto diverso – per le dinamiche interculturali in corso – dall’essere chiusi in un’astronave e doverla far operare.

Durante le manovre (fisiche o conversazionali), possono emergere una molteplicità di vissuti emotivi (rabbia, delusione, o anche semplice fastidio) che stratificandosi possono portare alla rottura del rapporto e al malfunzionamento delle operazioni. 

Non si tratta solo di grandi scelte, ma a volte di micro-dettagli comportamentali, semplici gesti. Piccoli elementi secondari che all’interno di una cultura non disturbano possono risultare sgradevoli quando a giudicarli è una cultura diversa[6].

Riconoscere le emozioni è quindi indispensabile per la performance negoziale.

Il rischio dei trascinamenti emotivi durante le negoziazioni

Per trascinamento emotivo intendiamo la situazione in cui una emozione, apparentemente ben gestita e rimossa, si ripresenti sotto altre forme in momenti successivi e vada ad incidere negativamente sugli esiti di una negoziazione.

Il trascinamento può accadere:

  1. all’interno della stessa sessione negoziale, andando a colpire soggetti diversi da quelli che hanno generato un impatto emotivo negativo, ma anche
  2. tra le diverse sessioni, trasportando stati negativi da un incontro all’altro.

I trascinamenti intra-sessione

I trascinamenti intra-sessione accadono in modo molto maggiore di quanto ritenuto a livello cosciente. Un caso classico è quello della rabbia trattenuta verso uno degli interlocutori, che viene poi rigettata verso un’altro interlocutore presente, in forma modificata, attenuata o rafforzata.

Osserviamo il seguente caso, una trascrizione originale e non censurata, sul vissuto emotivo di una riunione negoziale:

Eravamo al tavolo da circa venti minuti ed eravamo appena entrati nel vivo, dopo un pò di convenevoli vari (chiacchiere sul tempo, il caffè della macchinetta, eccetera), iniziamo a discutere del merito ed ecco che entra uno, si siede, sta zitto un pò, poi inizia a dire le sue cazzate atomiche. Io chiedo se posso avere il piacere di sapere il ruolo nel progetto, e lui dice che lui ha un ruolo in tutti i progetti, e vuole vedere chi entra e chi esce dalla sua azienda. Sul progetto dice che non c’entra niente ma supervisiona un pò. Praticamente è venuto a dire che “teneva a bada” i suoi ragazzotti perché non facessero puttanate. Te la metto in un altro modo: era venuto a segnare il suo territorio come un cane che piscia sugli alberi per dire che quell’albero è suo. In pratica era entrato sulla riunione e aveva pisciato sui presenti, sui suoi collaboratori e sugli esterni, me compreso, per far capire che quello era territorio suo. Io ero appena entrato, non conoscevo nessuno, ero un esterno, e sulle prime ci sono rimasto male. Poi ho pensato che di stronzi come questi ne ho già visti un sacco in giro per le aziende, e non dovevo lasciarmi prendere più di tanto, dovevo andare dritto per la mia strada, che era di portare a casa il contratto e basta. Il bastardo magari se lo incontravo per la strada lo mettevo sotto in macchina, ma li no, altrimenti saltava tutto.

Ho continuato a farmi pisciare in testa per un pò, poi su alcuni punti l’ho contraddetto non in modo forte, ma appena sfumato, giusto per fargli capire che io ero un esperto e su certi punti non poteva permettersi di affermare di tutto e di più, senza sapere un cazzo. Comunque sta di fatto che entra ed esce dalla riunione, fa i cazzi suoi, risponde al cellulare, chiama gente in riunione e lavora li dentro, insomma, fa il figo, forse per far vedere che lui li può fare, poi esce e non torna più. Ho pensato “è morto, è sparito, finalmente, non torna più”. Verso la fine della riunione, lui non c’era ancora, cerchiamo di tirare le somme e a me esce una frase di questo tipo “si, possiamo certamente fare un buon progetto, l’importante è tenere fuori dal progetto la politichetta aziendale da due soldi, io sono uno che se c’è un problema lo dice e non fa finta di niente solo perché è scomodo dirlo”. Teniamo conto di una cosa: ero nel posto più sbagliato del pianeta per dire una cosa così. Avrei dovuto tirarla fuori dopo essere entrato come fornitore, dopo aver trovato qualche alleato, non lì, al primo incontro. E mi accorgo adesso che mentre dicevo questo strizzavo gli occhi, sembravo Clint Eastwood che sta per sparare a qualcuno. Adesso riconosco che avevo un mucchio di rabbia ancora addosso, farmi pisciare addosso dallo stronzo, mi aveva dato fastidio, e la stavo rigettando sugli altri, sui suoi collaboratori. Poi ti dirò che anche la sera a casa ero disturbato, ho fatto fatica ad addormentarmi, non sopportavo l’idea che uno stronzo raccomandato ignorante mi pisci in testa in quel modo. 

I trascinamenti tra sessioni

Il trascinamento tra sessioni si forma in seguito ad esperienze negative avute in rapporti precedenti con lo stesso soggetto o con la stessa categoria di soggetti. Possiamo avere avuto esperienze spiacevoli con una categoria e allargare queste esperienze all’intera categoria, entrando con una disposizione sbagliata nella negoziazione.

Gli stereotipi che si formano debbono essere usati con cautela. Soprattutto, è indispensabile apprendere a fare “pulizia mentale” dagli atteggiamenti negativi frutto di sessioni precedenti e poter entrare nella negoziazione con la mente libera. 

I trascinamenti tra stati emotivi della vita personale e le situazioni professionali

La vita personale genera inevitabilmente vissuti emotivi. 

Le relazioni con amici, familiari, parenti, gli eventi vissuti fuori dal lavoro impattano immancabilmente la persona. Alcuni individui sono bravi nel mascherare quanto accade loro (di negativo, soprattutto) nella vita personale, ma il mascheramento non è la strategia migliore.

Le tecniche più evolute sul piano professionale prevedono – per chi ha necessità di negoziazione pressante e per chi negozia ad alto livello – il ricorso a strumenti di counseling e coaching professionale, in grado di supportare il soggetto nell’elaborare i fatti della vita personale e professionale, ed integrare in modo armonico il vissuto personale con quello manageriale.

Non si può far finta che un manager che abbia appena avuto un trauma familiare o professionale possa vivere il lavoro come nulla fosse ed essere egualmente produttivo. Una difficoltà nel matrimonio, con i figli, o a causa di malattie, riduce la concentrazione e le energie mentali disponibili.

Allo stesso tempo, sul piano opposto, è possibile apprendere ad alimentarsi delle emozioni positive che la vita privata può offrire e assorbire queste energie per nutrire il piano professionale.

Si può tranquillamente affermare che oggi uno dei punti più sottovalutati del management sia la condizione energetica e motivazionale del soggetto, la visione del manager o collaboratore come “essere olistico” che ha una vita sia psicologica che fisica. 

La negoziazione interculturale può creare turbolenza emotiva e stress emotivo elevato. La negoziazione stessa (anche intraculturale) è un fenomeno che impegna a fondo i sistemi energetici della persona. L’addizione della variabile interculturale forte aumenta il costo cognitivo di attenzione, elaborazione, le probabilità di fraintendimento, di rottura, di riparazione.

È sul piano energetico quindi che i manager vanno aiutati a trovare e mantenere una condizione elevata, positiva, in grado di fornire loro il supporto necessario per le sfide negoziali interculturali.

Le tecniche per gestire e ridurre lo stress emotivo da negoziazione

Per gestire lo stress emotivo da negoziazione vengono utilizzate nel metodo ALM diverse strategie.

Le tecniche di training autogeno e meditative (tecniche passive) e altre tecniche di rilassamento (dissipazione fisica, sport, tecniche attive) sono estremamente utili per generare una buona predisposizione emotiva nel negoziatore, soprattutto se praticate nella stessa giornata, prima della sessione negoziale.

Sul piano immediato, la separazione tra vissuti emotivi personali e tempo professionale può essere facilitata da apposite tecniche di rilassamento, mentre a livelli avanzati e sul lungo periodo risulta più produttivo il ricorso alle professionalità di coaching e counseling manageriale, che aiutino il manager a rivedere in profondità sia gli elementi dello stile di vita (lifestyle training) che la modalità di gestire le emozioni (emotional management)[7].

Le tecniche utilizzabili sono:

  • strategie di preparazione concettuale e desk-work: analisi culturale, delle obiezioni culturali latenti, preparazione alla gestione delle obiezioni;
  • strategie di preparazione esperienziale: role playing situazionali per affinare e attivare gli schemi motori e conversazionali, creare readiness nelle le mosse conversazionali e creare sicurezza;
  • strategie di preparazione emozionale e riassetto emotivo: tecniche di rilassamento, training autogeno, concentrazione e meditazione;
  • tecniche fisiche di ricarica bio-energetica: lavoro fisico di rimozione dello stress tramite esercizio fisico finalizzato;
  • tecniche di disidentificazione, come quelle proposte da Assoagioli nella disciplina della Psicosintesi, che “allontanano” emotivamente il soggetto dall’esperienza in corso, come se fosse qualcosa che stia capitando ad altri e non intacca il proprio Self;
  • tecniche di ristrutturazione cognitiva, ad esempio passare dalla concezione della “negoziazione come scontro” alla “negoziazione come relazione d’aiuto” (aiutare la controparte a capire qualcosa o raggiungere un obiettivo);
  • tecniche di debriefing post-trattativa: in grado di sciogliere lo stress da negoziazione, rielaborarlo e utilizzarlo per la crescita anziché lasciare che esso blocchi l’individuo e lo impegni concettualmente ed emotivamente, rendendolo inadeguato a fronteggiare nuovi obiettivi o sfide.

[1] Fonte: ns. elaborazioni basate su Riley, Kirk (2005). Risky Business: Involving the Public in Environmental Decision Making. Materiale didattico, Great Lakes & Mid-Atlantic Center for Hazardous Substance Research, Michigan State University, East Lansing, Michigan

[2] Schein, E. H. (1999). Process Consultation Revisited: Building the Helping Relationship, 1999, Addison Wesley. It.: La consulenza di processo: come costruire le relazioni d’aiuto e promuovere lo sviluppo organizzativo. Milano, Cortina.

[3] Ibidem.

[4] Vedi ad esempio Lin Y, Rancer AS. (2003). Sex differences in intercultural communication apprehension, ethnocentrism, and intercultural willingness to communicatePsychol Rep. 2003 Feb;92(1):195-200

[5] Vedi Kealey DJ (2004). “Research on intercultural effectiveness and its relevance to multicultural crews in space”. Aviation Space Environmental Medicine2004 Jul;75(7 Suppl):C58-64.

[6] Ad esempio, non è difficile vedere uno studente statunitense anche adulto partecipare ad una lezione universitaria in canottiera e ciabatte d’estate, o ancora sentire “tirare sul col naso” frequentemente in una biblioteca americana ove molti abbiano il raffreddore, ma questi comportamenti provocano nella cultura italiana un notevole fastidio, per cui uno studente statunitense che si inserisca in un gruppo di studio italiano potrebbe generare fastidio e provocare emozioni negative, se non consapevole di questi micro-fenomeni.

[7] Esempi di servizi di lifestyle training, coaching e counseling manageriale, e temi di communication management training, sono riportati sul sito www.studiotrevisani.it

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Altre risorse online

Siti in sviluppo

Le parole chiave di questo articolo La gestione delle emozioni nella negoziazione interculturale sono :

  • Coaching professionale
  • Comunicazione interculturale
  • Ecologia della comunicazione
  • Emotional management
  • Emozioni
  • Lifestyle training
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  • Negoziazione interculturale
  • Performance negoziale
  • Predisposizione emotiva
  • Pulizia mentale
  • Rumore mentale
  • Stati emotivi
  • Stimolo sensoriale
  • Stress emotivo
  • Strumenti di counseling
  • Tecniche di rilassamento
  • Tecniche di training autogeno e meditativo
  • Trascinamento emotivo
  • Vissuto emotivo
  • Vita personale e professionale

© Articolo estratto dal libro di Daniele Trevisani “Strategic selling. Psicologia e comunicazione per la vendita consulenziale e le negoziazioni complesse”. Franco Angeli editore, Milano. Pubblicato con il permesso dell’autore.

Tecniche di ascolto attivo

L’ ascolto attivo si collega alla comunicazione paralinguistica e non verbale e comprende in particolare:

  • tecniche verbali di ascolto attivo;
  • tecniche paralinguistiche di ascolto attivo;
  • tecniche non verbali di ascolto attivo.

Tecniche verbali di ascolto attivo

Comprende parole che segnalano attenzione e comprensione.

  • Domande aperte: chi, dove, quando, come, perché, con chi, in quale modo, in quali tempi, per quanto, cos’altro… e altre domande che consentano di allargare il discorso e precisarlo.
  • Domande chiuse o di precisazione: verifica di parti del contenuto tramite domande che prevedano una risposta di tipo “Si/No” o altre categorie precise “molto/poco”, “prima/dopo” e altre di questo tipo.
  • Tecnica dello specchio (riflessione del contenuto): ripetizione di frasi o parti di frasi dette dalla controparte, senza modifiche e alterazioni. La tecnica dello “specchio” proviene dalle metodologie di ascolto empatico utilizzate nel colloquio terapeutico Rogersiano[1]. È una tecnica di origine psicoterapeutica, che consente al “cliente” di approfondire i propri contenuti e riflettersi nei contenuti stessi da egli espressi.
  • Parafrasi: utilizzo del “come se”. Ricerca della comprensione di quanto detto, con l’uso di metafore o esempi che cercano di valutare se si è realmente compreso il senso profondo di quanto la controparte dice.
  • Sintesi storica, riassunto: ripetizione di quanto asserito, sotto forma di riassunto dei punti salienti della “storia”.
  • Incoraggiamenti verbali: es, “bene”, “interessante”, “si”, “ok”.

Tecniche paralinguistiche di ascolto attivo

Utilizzo di vocalizzazioni che esprimono interesse per la “storia” e facilitano l’espressione, quali Uhmm.. ahh….emissioni gutturali o respiratorie…

Lo scopo delle tecniche paralinguistiche (assieme a quelle non verbali visuali) è quello di fornire segnali fàtici (di contatto), affinché l’interlocutore senta che siamo in ascolto, siamo presenti, e siamo interessati.

Tecniche non-verbali di ascolto attivo

Utilizzano l’atteggiamento del corpo per esprimere interesse:

  • postura aperta ed inclinata in avanti per indicare disponibilità; posizione del corpo rilassata e di disponibilità;
  • avvicinamento e allontanamento (prossemica): ridurre la distanza con l’interlocutore nei momenti di maggiore interesse, allontanarsi nei momenti di distensione;
  • espressione del volto: non dubitativa, ironica o aggressiva, ma attenta e partecipativa;
  • sguardo attento e diretto;
  • movimenti delle sopracciglia associati a punti salienti del discorso altrui;
  • cenni del capo, cenni assenso o di diniego;
  • gesti morbidi, lenti e rotatori per comunicare senso di rilassamento e incoraggiare ad andare avanti nella conversazione;
  • metafore non verbali utilizzando il body language, che dimostrano comprensione di quanto detto dalla controparte.

Sul piano non verbale, dobbiamo sempre considerare che numerose culture frenano l’espressione non verbale delle emozioni (es: quelle asiatiche), ma che anche questo dato è uno stereotipo comunicativo, di valenza solo probabilistica e non consegna certezze.

In sintesi, le tecniche principali per un accolto efficace sono:

  • curiosità e interesse;
  • parafrasi: ripetere con le proprie parole quanto capito (questo non equivale ad essere d’accordo con quanto detto dall’altro);
  • sintesi e riassunti: riformulare la “storia” nei suoi punti salienti, per consolidare quanto raccolto;
  • dirigere l’ascolto tramite domande mirate (ricentraggio conversazionale) per far luce sui punti ancora oscuri o i passaggi ancora non ben chiari;
  • evitare domande eccessivamente personali finche non si sia creato un rapporto solido e “caldo”;
  • offrire al parlante la possibilità di dare feedback sul fatto che quanto capito sia corretto, accurato o invece distorto o lacunoso;
  • ascoltare non solo le parole ma anche i segnali non verbali per valutare i sentimenti e stati d’animo;
  • verificare la corretta comprensione sia dei sentimenti che del contenuto, non ignorare l’aspetto dei sentimenti;
  • non dire alle persone come dovrebbero sentirsi o ciò che dovrebbero pensare (nella fase di ascolto, limitarsi a trarre informazioni, senza voler insegnare o valutare).

Ancora una volta, sottolineiamo che questi atteggiamenti sono preziosi e determinano la qualità della fase di ascolto, ma non vanno confusi con gli obiettivi di tutta la negoziazione (che prevede sia fasi di ascolto che fasi propositive e affermazioni anche dure o assertive). 

In una negoziazione è possibile (ed è anzi uno degli obiettivi strategici) modificare ciò che gli altri pensano (ristrutturazione cognitiva e persuasiva) o come gli altri si sentono (azione emozionale), ma questo obiettivo verrà perseguito solo ed unicamente se prima il negoziatore sia riuscito a porre in essere un ascolto attivo , attivando l’empatia necessaria per capire in quale quadro si stia muovendo.

I livelli di ascolto

Possiamo individuare una scala del livello di ascolto:

  • Ascolto schermato / distorsivo: non capire, non prestare attenzione, distorcere i dati in ingresso, i dati reali (fisici e emotivi) non vengono veramente percepiti, ma distorti, percezione limitata e/o errata, barriere culturali, di ruolo, pregiudizi, antipatie, antecedenti, stati emotivi del momento, scarse energie fisiche e mentali, poca umiltà.
  • Ascolto giudicante / aggressivo : interrompe continuamente, attacca, giudica e valuta, disapprova quanto detto, nessuno sforzo di capire o approfondire, caratterizzato dal fatto che non si ascolta veramente, ma si raccolgono informazioni per poi emettere immediatamente sentenze e giudizi. L’ascolto giudicante può emergere anche da una smorfia sottilissima emessa con un segnale non verbale quale “storcere il naso” durante un’affermazione altrui che non approviamo, e non è da confondere con la partecipazione emotiva a quanto detto dall’altro.
  • Ascolto apatico / passivo: privo di energia, stanco, “morto”, spento, nessun cenno del capo o altro segnale “fàtico” (segnali di contatto), disinteresse verso il comunicatore
  • Ascolto a tratti: attento in alcuni momenti, distratto in altri, viene espressa attenzione discontinua, vi sono pensieri o attività che interferiscono, poca concentrazione, si perdono brani.

Abbiamo poi fasi decisamente migliori quali:

  • Ascolto attivo / supportivo : Il soggetto viene incoraggiato a proseguire, aiutato ad esplorare i concetti, supportato tramite domande di approfondimento, aperte e chiuse. Forte partecipazione del body language, utilizza segnali corporei e verbali di partecipazione a quanto detto, riformulazioni e altri dispositivi linguistici e non verbali che servono per dare il segnale “quello che dici mi interessa, ti sto seguendo”.
  • Ascolto empatico: Sospensione del giudizio, interesse genuino, ascolto avalutativo, curiosità, azioni di approfondimento e metacomunicazione, l’ascolto degli strati profondi, la capacità di sintonizzarsi e capire i livelli più nascosti, emotivi e personali, del vissuto del nostro interlocutore, più che i dati numerici o oggettuali che ci espone.
  • Ascolto simpatetico: Dimostrazione di vicinanza, affetto, piacevolezza, esprime non solo comprensione ma apprezzamento, calore umano, piacere della relazione, gradimento dell’altro. 

Una nota importante sull’espressione di simpatia durante le fasi di ascolto: dimostrare simpatia non è obbligatorio. Se la nostra espressione è finta, verrà colta. Dobbiamo essere il più possibile autentici e veri. Non consigliamo di inoltrarsi in un ascolto simpatetico falso ma di compiere un’operazione decisamente più difficile e professionale: cercare nell’altro le “cose buone” che emergono, partendo dal principio che anche persone che non ci piacciono possono tuttavia avere alcuni tratti e caratteristiche che sono comunque interessanti. Non dobbiamo partire con un senso di superiorità ma con un atteggiamento di vero interesse per la scoperta di quanto può emergere.

Se poi la gradevolezza è vera, questo livello di ascolto verrà fuori naturalmente, ma è essenziale non bloccarlo a priori in nome di una presunta “freddezza professionale” che non è l’obiettivo vero di un ascolto di qualità.

Dobbiamo anche distinguere un altro aspetto fondamentale dell’ascolto: la presenza di almeno due diversi piani di ascolto: i dati e gli stati emotivi. Questo qualifica la differenza tra un ascolto informativo e un ascolto psicologico.

Ascoltare dati non equivale ad ascoltare stati emotivi.

Possiamo infatti applicare un ascolto di tipo:

  • psicologico : Interesse per gli aspetti psicologici, ascolto viscerale, delle sensazioni, del livello umano, attenzione centrata sulla persona e sul suo vissuto, ascolto di emozioni, stati umorali, sensazioni, rapporti umani.
  • tecnico-informativo : ascolto meccanico, concentrato sui dati, numeri e fatti.

Un negoziatore avanzato e un venditore di alto livello saranno in grado di applicare il livello di ascolto corretto, o entrambi, a seconda delle situazioni, senza entrare in uno stato di ascolto prefissato, stereotipato e rigido.


[1] Rogers, Carl R. (1961). On becoming a Person. Boston, Houghton Mifflin.

Rogers, Carl R. (1951). Client-Centered Therapy: Its Current Practice, Implications, and Theory. Boston, Houghton Mifflin.

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Altre risorse online

© Articolo estratto dal libro di Daniele Trevisani “Strategic selling. Psicologia e comunicazione per la vendita consulenziale e le negoziazioni complesse”. Franco Angeli editore, Milano. Pubblicato con il permesso dell’autore.

Conoscenza e consapevolezza del cliente

Nella vendita consulenziale è indispensabile acquisire la capacità di compiere diagnosi e analisi della controparte, il sistema complesso con il quale stiamo per interagire.

L’analisi è fondamentale per far emergere il sistema cliente in tutta la sua pienezza, anticipare i possibili rischi, e cogliere tutte le opportunità che esso racchiude.

Ecco i tratti principali della conoscenza del sistema-cliente:

  1. Chi sono loro – Con chi tratto
  2. Chi e cosa rappresentano
  3. Storia e network
  4. Missione e posizionamento
  5. Bisogni latenti (BSS), espressi e potenziali
  6. Livelli di arousal e stati emotivi – 
  7. Grado di “copertura” – Fornitori
  8. Sociogrammi decisionali
  9. Cultura e stili comunicazionali
  10. Potenziale economico e relazionale

Chi sono “loro” – Con chi tratto

In genere, l’”altro” – in termini commerciali e negoziali – è un soggetto pericoloso solo finché non lo si conosce bene. 

Larga parte dell’attività consulenziale – anche nella vendita – consiste esattamente nel conoscere l’”altro”, il sistema-cliente, le sue strutture, i suoi funzionamenti, i suoi bisogni dichiarati e quelli latenti. 

Questo significa ricercare sintomi e “segnali deboli”, capirne le finzioni e le realtà, svelarne le contraddizioni. Il teatro è maestro nella capacità di svelare le contraddizioni. Molte rappresentazioni giocano tutto il loro valore sullo smascheramento, sul meccanismo del “giù la maschera”, seguito spesso dal “vediamo cosa c’è realmente sotto la maschera”. 

Smascherare, e farlo delicatamente e artisticamente, senza urtare le difese psicologiche della controparte (o farlo solo come strategia e non involontariamente), è uno degli obiettivi della vendita consulenziale e della negoziazione. 

Nel teatro, la “rivelazione” o “smascheramento” è il momento in cui il grande avvocato da tutti temuto si dimostra cornuto, o incapace di educare il figlio che diventa paradossalmente un ladro. 

È il momento in cui tutta l’impalcatura drammaturgica crolla, è lo “strappo nel cielo di carta” del teatrino delle marionette ci cui ci parla Pirandello, il momento in cui il pubblico si accorge che è in corso una recita, il momento in cui siamo costretti a prendere atto che è in corso una rappresentazione scenica e non ci stanno esponendo una realtà ma una sua visione spesso distorta, lacunosa, artefatta. 

Basare una vendita su dati distorti, lacunosi, artefatti, incompleti, non è certo garanzia di successo.

Chi e cosa rappresentano

Ogni azienda è parte di qualche sistema politico o istituzionale, di un network evidente o latente, di qualche cultura o mondo, e “sta per” (rappresenta) qualcosa di altro. 

La scienza semiotica (scienza dello studio dei segni e dei sistemi di comunicazione simbolica) ci aiuta a far luce sui simbolismi che le aziende utilizzano ( lato denotativo ) e sui significati che assumono ( lato connotativo ). 

Conoscere il livello semiotico, capire il senso del “stare per” e del “significare qualcosa”, è indispensabile. Dobbiamo distinguere le rappresentazioni istituzionali dalle rappresentazioni di ruolo. Ogni negoziazione infatti subisce il problema della stratificazione dei ruoli, della molteplicità dei ruoli compresenti in un individuo, e della confusione su chi abbia veramente il potere decisionale.

Spesso dietro ai simboli di potere ostentato (uffici in centro, vestiti eleganti, siti web evoluti) si nasconde un vuoto e una misera colossale. Non dobbiamo prendere quindi per “veri” i segnali denotativi, ma prenderli solo come “indizi” di qualcosa che deve essere esplorato e convalidato.

Potremmo avere una trattativa con un buyer di un colosso industriale, che rappresenta la formalizzazione della burocrazia di acquisto, ma dal potere decisionale nullo, oppure un colloquio con un personaggio apparentemente secondario ma che in realtà rappresenta la famiglia che detiene il controllo azionario, e funge da gatekeeper (controlla il “cancello” di alcuni rami di potere aziendale) – un vero decisore e influenzatore. 

Nulla deve essere dato per scontato.

Storia e network

La storia di un’azienda è fondamentale per capire le sue evoluzioni attuali. Una delle attività essenziali del venditore consulenziale e negoziatore di alto livello, è lo studio della storia del cliente o controparte, i suoi cambiamenti epocali e i micro-mutamenti che si trova a subire a causa della concorrenza, della tecnologia, della legislazione e dell’ambiente. 

Chi comanda adesso, chi comandava prima, e perché chi comanda adesso è nella condizione di farlo. In che posizione del suo ciclo storico è un certo decisore? È in fase di declino e sta per lasciare l’azienda o è una new-entry nel ruolo e ha bisogno di dimostrare la sua capacità?

Fare vendita consulenziale significa entrare nei processi del cliente, fare “consulenza di processo”[1] nella vendita significa capire la traiettoria del cliente (passato, presente, ipotesi di possibili futuri) e inserirsi come elemento utile. 

Il network riguarda le reti di rapporti in cui è inserita l’azienda, ad esempio – se trattiamo con la grande distribuzione – dobbiamo sapere se stiamo trattando con una grande cooperativa legata al settore della “cooperazione bianca” di ispirazione cattolica, o se essa si riconosce ed è inserita nell’area della “cooperazione rossa” di sinistra, o se invece appartiene ad aree conservatrici, o altri network industriali o politici. 

I profili di appartenenza ai network creano profondi vincoli sulle scelte, soprattutto vincoli politici, mentali, ideologici e influenzano la decisione dei partner e fornitori cui affidarsi. 

È sbagliato basare una vendita consulenziale sulla sola pura politica o appartenenza ad un network, ma dimenticare questo dato può creare gaffe ed errori conversazionali, conoscerlo invece permette di anticipare alcuni meccanismi di funzionamento del cliente (anticipare, non certo prevedere esattamente). 

Nessun ragionamento euristico (stereotipi di ragionamento, es: è cattolico quindi….) deve essere preso come assoluto e dato per scontato. 

Missione e posizionamento

La missione rappresenta “cosa fai per chi”e “a chi sei utile e per cosa” e non va confusa con l’obiettivo economico del vendere e guadagnare. 

Il ragionamento sulla missione è intriso, nella mente di molti manager, di un costante fraintendimento tra (1) ottenere risultati aziendali per sè (vendere, guadagnare), e (2) portare risultati ai clienti, avviare “relazioni di aiuto”.

Il senso vero della missione è portare risultati ai clienti, e questo è l’unico motore vero delle vendite, è ciò che le rende possibile.

Per poter vendere, nel B2B (vendita da impresa ad impresa) dobbiamo capire come la nostra soluzione può aiutare ad aumentare il valore complessivo che il cliente può offrire ai propri clienti. Dobbiamo ancora una volta entrare nei processi e capire la catena del valore dell’impresa cliente.

Anche nel negoziare, dobbiamo capire se le nostre proposte o soluzioni aiutano la controparte a risolvere un suo problema e non solo un nostro problema.

Dobbiamo capire se e dove i nostri flussi di valore possono avere impatto sui flussi di valore che il nostro cliente potrà portare ai propri clienti o interlocutori-chiave. 

Se uno dei nostri vantaggi competitivi ipotizzati è il tempo di consegna rapido (elemento del marketing mix), non è detto che esso sia anche un elemento del value mix (il mix di valore effettivo percepito dal cliente). 

Il tempo di consegna rapido può impattare positivamente i tempi di consegna del cliente ai propri clienti? Gli è stato richiesto? O è abbastanza marginale? 

Nessuna risposta che vale per un cliente vale automaticamente anche per un altro.

È importante per il cliente ottenere miglioramenti sui tempi di consegna? Se si, abbiamo una carta da giocare, se no (e non vi sono altri fattori organizzativi da considerare) si tratta di un vantaggio inutile, puramente autoreferenziale (un puro parlarsi addosso, vuoto, improduttivo).

Centrare la missione del cliente e il suo posizionamento ci aiuta a negoziare per creare il successo del cliente negoziale, ancora prima del nostro.

Se riusciamo a diventare un elemento del successo del cliente, il nostro successo sarà una semplice conseguenza.

I bisogni possono essere espressi e formalizzati, oppure latenti e non pronunziati, per numerosi motivi (desiderio di coprire informazioni, bisogno di gestire l’immagine pubblica, di non rivelare debolezze). 

Bisogni espressi, latenti (BSS), e bisogni potenziali.

I bisogni latenti partono dalla radice del Bisogno Sottostante Servito (BSS) del cliente. I desideri di acquisto di un cliente possono essere portati sul tavolo della negoziazione, oppure rimanere latenti, o ancora stare nel non detto

I bisogni latenti sono diversi dai bisogni potenziali in quanto un bisogno potenziale non è allo stato di consapevolezza nel cliente, si tratta di qualcosa di non ancora pensato nemmeno dal cliente.

Un BSS rappresenta la motivazione sottostante l’acquisto. Esempio: compriamo un PC portatile per soddisfare l’esigenza di scrivere o analizzare dati, e farlo anche potendosi spostare. Vogliamo una videocamera per poter fissare ricordi e momenti. Qualsiasi tecnologia ci aiuti a “fissare ricordi e momenti” per poterli rivedere in seguito, copre il BSS, e quindi è essenziale concentrarsi sul bisogno e non solo sul prodotto.

  1.  Quali sono i veri bisogni del cliente? Li abbiamo capiti davvero?
  2. Quanto bene sta risolvendo il prodotto le esigenze di base per cui viene acquistato? E’ una soluzione già ottimale, o si può fare di meglio?
  3. Quali spazi scoperti e margini di miglioramento rimangono? 
  4. Come evolve la domanda e quali nuove caratteristiche possono costituire fattori di successo? Le aspettative e attese crescono, e in che direzione? 
  5. Quali trend di scenario hanno il potenziale di incidere sul nostro futuro, e cosa faremo per utilizzare i trend anziché esserne sommersi?

Livelli di arousal e stati emotivi

L’analisi motivazionale del cliente ci porta a chiederci perché è in corso un tipo di bisogno e se possiamo rispondervi, o se possiamo stimolare un bisogno nel caso siamo convinti di poter portare un beneficio al cliente. 

L’analisi emotiva ci porta ad interessarci del quanto forte è un livello di bisogno, quali emozioni si associano nel cliente a questo bisogno (ansia, tristezza, gioia, aspettativa, disagio nel parlarne, gioia del parlarne, e altri stati emotivi). 

L’arousal è l’attivazione del cliente, il suo grado di “agitazione interiore”, la tensione sottostante il bisogno. Ad esempio, può esistere un bisogno disperato ma questa urgenza viene mascherata (ancora una volta teatralmente) come semplice curiosità.

Grado di “copertura” – Fornitori

Quanto risulta “coperto” un cliente dai fornitori che ha già? La nostra controparte ha già qualcuno che sia in grado di coprire le esigenze? Qualcuno che possa dare risposte a bisogni sentiti o emergenti? 

L’analisi diventa interessante soprattutto sui bisogni non ancora espressi o sui bisogni potenziali e futuri, che ancora non si sono manifestati ma presto potrebbero farlo.

Capire su quali piani e bisogni un cliente è “scoperto” o ha poco margine di sicurezza nei fornitori attuali è un’acquisizione informativa essenziale.

Sociogrammi decisionali

Con chi trattare? Per saperlo, è necessario capire gli influenzatori del processo di acquisto, chi è con e chi è contro, chi è neutro, chi gioca su un tavolo aperto e chi gioca “sotto il tavolo”. Capire quali sono le relazioni e i giochi di potere, i rapporti di forza nella controparte, è un elemento chiave.

Nelle vendite e nelle negoziazioni complesse è essenziale riuscire a risalire la catena decisionale, arrivando al top delle organizzazioni. Occorre arrivare ai livelli decisionali che contano, e farlo per gradi o direttamente, a seconda di quanto “schermati” e filtrati siano questi livelli.

È anche importante riuscire a presidiare diversi livelli organizzativi (uscire dal solo settore acquisti, parlare anche con il marketing, con le vendite, con l’amministrazione o con l’area produzione e con l’area qualità), per iniziare a creare un consenso allargato verso la nostra azienda e la nostra proposta.

Questa attività di relationship building è essenziale per creare basi solide nel sistema-cliente.

Cultura e stili comunicazionali

Quali regole vigono in azienda e nel cliente, quali valori, simboli, abitudini, modi di essere, stili di gestione, stili di comportamento e comunicazione. Anche in questo caso valgono le regole di riconoscimento, per capire quale stile è attivo tra le tante possibilità.

Potenziale economico e relazionale

Da un’analisi complessiva dei dati, possiamo ricavare il potenziale del cliente. L’analisi comprende il potenziale economico degli acquisti, i volumi attuali e futuri, il tipo di rapporto avviabile, i rientri materiali e immateriali che possono arrivare da questo rapporto.

Dovremo quindi valutare attentamente alcuni aspetti indispensabili, come le caratteristiche del cliente (dimensioni, fatturato, settore), i costi logistici di ingresso (cliente comodo da raggiungere e servire), quante e quali risorse sarà necessario dedicargli, i termini e le modalità di pagamento, ed ancora, se è un cliente che offre buone prospettive (dirette o indirette) per espandere i nostri contatti, un cliente dal buon potenziale economico, dove praticare prezzi remunerativi con la possibilità di sviluppare margini adeguati.

Pertanto il nostro interesse per questo tipo di cliente (valore d’immagine e relazionale), non dipende solo dai fatturati generabili, ma dall’immagine che ne deriva, dalla possibilità di ingresso in aree di mercato nuove o interessanti e diversi altri fattori intangibili.

Per ciascuna “falla” o segnale dovremo valutare se e come muoverci.


[1] Vedi Schein, E. (2001). La consulenza di processo. Come costruire le relazioni d’aiuto e promuovere lo sviluppo organizzativo. Milano, Raffaello Cortina Editore

Altri materiali su Comunicazione, Formazione, Potenziale Umano, Crescita Personale e Professionale, disponibili in questi siti e link:

Altre risorse online

©Copyright. Estratto dal testo di Daniele Trevisani “Psicologia della libertà. Liberare le potenzialità delle persone”. Roma, Mediterranee. Articolo estratto dal testo e pubblicato con il permesso dell’autore.

Il confine corporeo della libertà

In questa ricerca di libertà, abbiamo un confine, il corpo, e questo limite fisico è anche una risorsa straordinaria.

Siamo menti che “abitano” un corpo, degli “embodied minds”, menti incorporate, creature viventi dotate di autocoscienza, cellule e atomi che miracolosamente prendono atto di esistere, e possono muoversi. Ma non per questo, automaticamente, diventiamo liberi. Ad esempio, non possiamo volare, né teletrasportarci.

Poniamo sul tavolo un’ipotesi di lavoro: la libertà è un sentimento vissuto, un sentire corporeo, una forma di dialogo interno, che ci dice che stiamo vivendo a pieno la nostra vita come la vogliamo e senza essere ingabbiati da forze subdole.

Attenzione. Non ha a che fare strettamente con catene, con mura, con “non libertà” fisiche molto ovvie come la prigione. Alcuni pensano che essere single sia un’enorme forma di libertà, altri lo vivono come una prigione (la prigione della solitudine e dell’isolamento). Lo stesso per l’avere famiglia e figli. Prigione esistenziale per alcuni, “il mio focolare più bello” per altri. 

Allenarsi e combattere senza paura e senza ansie inutili è possibile. Lo stesso vale per il lavoro, o fare una presentazione o public speaking. Se lo vivi come un obbligo, viene meno ogni forma di gusto e gioia di vita e dell’atto stesso. Possiamo scoprire i piaceri nascosti in questi brani di vita?

Si tratta di vivere allenamenti e gare, o performance lavorative, come atti di libertà, atti di vita, momenti di festa e di gioia, nel rispetto delle tradizioni. Pensieri come “devo vincere” o “devo fare bella figura” non portano a libertà ma danno sostegno ad emozioni negative, che vogliamo invece tenere lontane da noi nel Dojo, sul ring, o sul lavoro.

La libertà ha come contraltare l’imprigionamento, la paura, l’ansia. Ebbene, queste “prigioni” sono molto più corporee di quanto pensiamo. Costruiscono muri invisibili che ingabbiano le persone peggio delle sbarre.

Un messaggio importante: esistono esercizi, seri, molto seri, che ti aiutano a distinguere le “percezioni”, le “sensazioni” di paura e di ansia inutili e controproducenti, e possono liberarti da paure inutili. Li conduco personalmente, derivano dalle Arti Marziali e dal training mentale per gli sport da ring. Del resto non puoi combattere ad alti livelli se hai paura di farti male, paura della gara, paura di confrontarti, paura del pubblico, vergogna di poter perdere, e quasi tutti gli atleti e potenziali campioni si arrestano per queste paure e non per veri traumi. 

Ne farò omaggio prima possibile alla comunità tramite video, essendo quasi impossibili da descrivere a parole.

Ma torniamo a quanto invece si può scrivere.

Vorresti essere libero dalla paura, libero dall’ansia? Tutti lo vorremmo, ma se fossimo completamente liberi dalla paura, nessun segnale arriverebbe a dirci “stop” nell’attraversare una strada piena di camion e saremmo schiacciati come topi. Quindi, vogliamo liberarci di “tutte” le paure o vogliamo imparare a gestirle diversamente e discriminarle?

Io ascolto i messaggi della paura, li tratto con rispetto e imparo da essi, ma non mi faccio limitare”. Questa frase di Ross Heaven, che proviene dalle tecniche usate nella formazione dei Ninja, i guerrieri giapponesi, esprime bene come un certo approccio di consapevolezza aumentata possa liberare la persona da fardelli inutili.

 

Focusing porta di libertà? L’approccio degli “Embodied Minds”

Così come Paul Watzlawick ha ben espresso, “non è possibile non comunicare”, e che quindi ogni azione o non azione fatta in presenza di altri ha un valore comunicativo[1]. Allo stesso modo, noi dobbiamo renderci conto pienamente che “non è possibile non abitare un corpo”, e il corpo ci condiziona, positivamente o negativamente, ci parla. Che lo ascoltiamo o meno, ci manda segnali e flussi di comunicazione non meno importanti di quelli che scorrono tra le persone (comunicazione mente-corpo).

La libertà richiede prendere atto del corpo e gestirlo in modo consapevole-assertivo, prendere atto del valore della comunicazione mente-corpo e gestirla in modo il più possibile deciso da noi e non esserne solo vittime.

Occorre riconoscere che per comunicare bene all’esterno, è utile capire cosa sta succedendo ai nostri stati interni, stati fisici come le emozioni, stati corporei, i livelli di stanchezza e di stress, stati pre-verbali ancora prima che parole. 

Immaginate una persona che non sa ascoltare bene i propri stati d’animo. Come mai farà ad esprimersi in una comunicazione autentica e libera?

Le emozioni, ricordiamolo, abitano nel corpo[2]. Fare Focusing[3] significa esattamente questo. Andare ad ascoltarsi. Ascoltarsi dentro. Lasciare spazio ai propri segnali interni. Questa è una forma suprema di libertà.

Dal momento in cui capisci di esistere, fino al decidere di dare un’impronta speciale alla tua vita passa molta strada. Questa comprende un atteggiamento altrettanto assertivo sul come esistere e dove voler vivere – sia in termini di ambienti fisiche che di ambienti psicologici.

Da soli è davvero difficile riuscire ad impostare una vita veramente propria e consapevole, fuori dagli schemi proposti con violenza da pubblicità, mass media, esempi negativi attorno a noi e altre forme che subdolamente cercano di dirci “cosa” sia la vita. 

Siamo travolti da messaggi che sin da bambino ti dicono che tu vali in funzione del tuo telefono o della tua auto o della dimensione dei bicipiti o della tua casa o del marchio delle tue scarpe. 

Coaching e Counseling portano un messaggio diverso. Tu vali perché sei, per quello che pensi, per il contributo che dai e darai a questo pianeta, alla cultura umana, sia che tu ci riesca o che tu anche solo ci provi. Tu vali. A prescindere.

Una delle più alte forme di liberta è esprimere se stessi senza nessuna maschera.

Ma come ci ha ricordato Goffman, pioniere su questo tema, siamo creature sociali, e in qualche modo diamo sempre una “rappresentazione” di noi stessi, anche quando cerchiamo di essere genuini.

“Come esseri umani siamo principalmente creature dagli impulsi variabili, con umori ed energie che cambiano da un momento all’altro, come personaggi davanti a un pubblico tuttavia, non possiamo permetterci alti e bassi”.[4]

Le forme del nostro comportamento esterno non sono spesso congruenti con il sentire corporeo interno, le nostre sensazioni, gli stati emotivi che proviamo.

Ecco, forse allora una delle forme estreme di libertà è quella di mostrare anche fuori i nostri sentimenti interni e gli stati interni che viviamo, uscire dal “personaggio” ed essere più veri possibile, anche a costo di apparire “variabili” o come altri dicono, “umorali”. Umorali ma veri, è meglio che standardizzati sempre, ma falsi.

E se sei davvero libero, questo comprende una grande varietà di libertà, ad esempio cercare le emozioni che una certa musica ti dà, anziché ascoltare la stupida radio commerciale. La musica produce emozioni[5]. E tu che emozioni vuoi vivere? 

Che si tratti di musica “epica”, classica, o rock anni ’70, poco importa. Ma accendere la radio e pensare che quella e solo quella che passa il convento radiofonico sia la musica, non è grande esempio di libertà.


[1] Watzlawick, Paul, Janet H. Beavin, and Don D. Jackson. Pragmatics of Human Communication: A Study of Interactional Patterns, Pathologies, and Paradoxes. New York: Norton, 1967.  

[2] Buck, Ross. The Communication of Emotion. New York: Guilford P, 1984.

[3] Letteralmente, “focalizzazione”, nel senso indicato da Gendlin. Vedi bibliografia per approfondimenti.

[4] Goffman, Erving (1959), The Presentation of Self in Everyday Life. New York, Doubleday. Trad. it. La vita quotidiana come rappresentazione, Bologna, Il Mulino, p. 68.

[5] Budd, Malcolm. Music and the Emotions. London: Routledge & Kegan Paul, 1985.

 

Altri materiali su Comunicazione, Ascolto, Empatia, Potenziale Umano e Crescita Personale disponibili in questi siti e link:

Altre risorse online

 

Articolo estratto dal testo “Parliamoci Chiaro: il modello delle quattro distanze per una comunicazione efficace e costruttiva” copyright Gribaudo Editore e Daniele Trevisani, pubblicato con il permesso dell’autore.

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Nell’articolo a seguire andrò a parlare della quarta ed ultima distanza, quella referenziale, che riguarda la differenza tra i vissuti che ogni persona porta con sé nella comunicazione. 

In questo modello, per vissuto si intende sia l’esperienza diretta del mondo esterno, sia la parte più interna ed emotiva, gli stati interiori che sperimentiamo e con i quali abbiamo a che fare quanto con gli oggetti esterni.

Possiamo dire che i referenti sono “ciò di cui facciamo esperienza”, nel senso di “esperire”, o experiencing. Sono, in altre parole, quelle entità fisiche o mentali con cui veniamo a contatto, e possono essere sia estremamente fisici (es, un’auto), che estremamente psichici o mentali, per esempio uno stato d’animo particolare. 

Questa distanza è quindi chiamata “referenziale” perché riguarda i “referenti” e riguarda l’intera storia della persona, le sue esperienze interne ed esterne, il vissuto emotivo interiore, le emozioni provate nel corso della storia personale, il tipo di sensazioni ed emozioni che hanno caratterizzato il passato, sino al presente. 

Si tratta in termini scientifici di grado di varianza tra tracce mnestiche (tipo di input presenti in memoria). Per esempio, chi non ha mai vissuto un jet-lag (disagio dovuto al cambio di fusi orari dopo voli transcontinentali) non potrà capire la reale sensazione che si prova, così come chi non ha mai sofferto di mal di denti non potrà certo capire una semplice descrizione, verbale o scritta, del mal di denti. 

Senza una quota di vissuto condiviso l’incomunicabilità è assicurata. E soprattutto, quando parliamo con qualcuno di cui non conosciamo il passato e il presente, meglio essere cauti nel fare affermazioni che riguardano la persona stessa o il suo contesto, fino a che il quadro non si è chiarito. 

Il vissuto referenziale dal punto di vista percettivo riguarda tutto ciò che si è visto, odorato, toccato, sentito sulla pelle e gustato. È un mondo fatto di sensi, di sensazioni, di filtri percettivi, che ci parla di come noi viviamo le cose e gli eventi. 

E come se non bastasse, nella distanza referenziale si collocano anche le memorie di quanto abbiamo vissuto in famiglia, i traumi, i successi, i valori. La nostra famiglia, ristretta o allargata, e persino la nostra nazione, ci hanno fornito modelli di comportamento e valori di sfondo che permeano la nostra vita.

In linguistica, l’ipotesi di Sapir-Whorf (o Sapir-Whorf Hypothesis,), conosciuta anche come “ipotesi della relatività linguistica“, afferma che lo sviluppo cognitivo di ciascun essere umano è influenzato dalla lingua che parla. Nella sua forma più estrema, questa ipotesi assume che il modo di comunicare determini il modo di pensare.

Possiamo dire con certezza che linguaggio, pensiero e realtà siano collegati tra di loro, per cui imparare un modo diverso di esprimersi e anche una lingua diversa, ci offre nuovi modi per osservare la realtà. Questo vale anche per i sottocodici comunicativi: se apprendo il linguaggio del pensiero positivo, anche la realtà potrà sembrarmi diversa. 

Ma quali sono quindi i tipi di “referenti” con cui possiamo venire a contatto, e sui quali possiamo, al momento opportuno, comunicare, o almeno provarci? 

  • Oggetti fisici del mondo reale: una caffettiera, un piatto di spaghetti, un taxi…
  • Stati mentali interiori: felicità, tristezza, depressione, gioia, aspettativa, curiosità… 
  • Scene della natura: una cascata, un lago, le onde del mare, un albero innevato… 
  • Scene dal mondo delle relazioni: litigi, feste, compleanni, matrimoni… 
  • Azioni: tutto quello che può essere rappresentato con un verbo, dove ogni verbo rappresenta una possibile sfumatura dell’agire e dell’essere (es: dormire, mangiare, rilassarsi, ecc…)
  • Stati sensoriali: ogni senso ci trasmette dei referenti o stati, e avremo quindi:
    • Referenti visivi.
    • Referenti olfattivi
    • Referenti gustativi
    • Referenti tattili o aptici (tutto ciò che ci trasmettono gli organi della pelle e il movimento, inclusi quelli legati al toccare altre persone): l’aptica è costituita dai messaggi comunicativi espressi tramite contatto fisico, quindi non verbale. Si passa da forme comunicative codificate, ad altre di natura più spontanea. L’aptica è un campo nel quale le differenze culturali rivestono un ruolo cruciale.
    • Referenti cinestesici (il movimento del corpo nello spazio che produce sensazioni)
    • Referenti uditivi
    • Referenti emotivi (gli stati emotivi): emozioni che proviamo ora, o che abbiamo provato in passato, sono certamente dei “referenti” sui quali si può comunicare o almeno tentare di farlo. Le emozioni e gli stati dell’umore sono oltre 200, per cui la capacità conversazionale di trattarli in tutte le loro sfumature, richiede impegno e addestramento. 

Per ciascuno di questi stati o “referenti” esistono esperienze molto soggettive: in pratica, realtà diverse si nascondono dietro alla stessa parola. Per quanto ci sforziamo di capire un’altra persona, ci sarà sempre qualche sfumatura della sua esperienza che differisce, anche in modo molto sottile, dalla nostra, per cui l’incomprensione e il disaccordo possono insinuarsi in questa “distanza referenziale” senza che ce ne accorgiamo. 

libro "Parliamoci Chiaro" di Daniele Trevisani

Per approfondimenti vedi:

Capitolo in omaggio dal volume Self Power: Psicologia della Motivazione e delle Performance, di Daniele Trevisani, dedicato al tema fondamentale che porta le persone e i team ad una condizione speciale, in cui si generano alte performance e allo stesso tempo benessere e piacere: Il “Flusso” (flow) e la “Zona”: incroci di emozioni e stati d’animo in cui tutto sembra fluire.

  • Capitolo Scaricabile (clic sul titolo successivo)

Self-Power. Psicologia della Motivazione e Performance – cap 9 – Flow, il Flusso

copertina e quarta self power