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© Articolo estratto con il permesso dell’autore dal testo di Daniele Trevisani – “Deep coaching. Il Metodo HPM™ per la crescita personale, il coaching in profondità e la formazione attiva”. Franco Angeli editore, Milano.

Le sei aree primarie del metodo HPM sono divise in tre macro-categorie: energie, competenze, direzionalità, e queste tre categorie a loro volta sono divise in due aree: soft e hard. Questo dà vita a sei celle di lavoro, sei aree di attività sulla crescita personale che valgono sia per le prestazioni fisiche che per quelle mentali o intellettuali. Ed inoltre, si prestano ad un’analisi delle performance sia individuali che di gruppo. 

Vorrei esprimere un concentrato di senso in una frase su cui discutere:

Le performance sono un grande banco di prova per la condizione umana…ci parlano dell’istinto umano a crescere, esplorare nuovi orizzonti, ricercare… capire chi sei… e cosa puoi arrivare a fare.

Daniele Trevisani

Ogni gara o competizione mette in moto i principi delle performance, ogni sfida aziendale, sportiva, o personale, ogni progetto, ci costringe a fare i conti con il nostro stato di preparazione e le nostre energie. Ogni volta che sentiamo la volontà di cambiare e migliorarci, la chiamata verso una vita diversa si fa strada in noi e dobbiamo imparare ad ascoltarla e non a silenziarla. Mai. Le buone intenzioni valgono poco se non diventano un progetto. E francamente, non è decisivo che un progetto abbia successo o fallisca, perché anche da ogni fallimento possiamo imparare. Possiamo evolvere solo se proviamo e ci avventuriamo in strade nuove.

Sbagli il 100% dei colpi che non spari.

(Wayne Gretzky)

Il viaggio verso la crescita delle energie umane, fisiche e mentali, è un percorso di esplorazione che deve diventare progetto, un progetto di Deep Coaching. Ognuno può progredire partendo da qualsiasi stato o condizione. Una persona depressa o ansiosa può iniziare a vedere una luce, e questo è già progresso, tanto quanto il miglioramento di un record mondiale in qualsiasi sport e disciplina. Una persona immatura può maturare… chi si sente inadeguato in un lavoro può cambiare, ri-orientarsi, formarsi. Un’impresa in crisi può generare nuove idee o trovare nuove strade, così come un’impresa vincente può fare da traino a tante startup e diventare fonte di utilità sociale per tutti.

Qualsiasi sia la condizione di partenza, occorre credere in sé stessi, nella possibilità di crescere, di migliorare, di fare dei salti in avanti. Il progresso personale e professionale avviene solo se ci lavoriamo sopra concretamente. Il miracolo della vita è talmente grande che va celebrato e non sprecato, e come sottolinea Einstein:

Ci sono solo due modi di vivere la propria vita: 
uno come se niente fosse un miracolo; 
l’altro come se tutto fosse un miracolo.

Albert Einstein (citato in Michael J. Gelb, Il Genio che c’è in te)

Ogni volta che alleni il tuo corpo o la tua mente, rendi omaggio al miracolo della vita che ha reso possibile che in quel giorno tu ti sia potuto allenare e formare, mentre altri più sfortunati, non possono. Ogni giorno che incontri un pensiero buono, ringrazia per l’incontro e fallo tuo.

Approfondimento sulle sei aree di lavoro del Metodo HPM.

Approfondiamo le sei specifiche aree di lavoro di un percorso di crescita personale e professionale nel metodo HPM.

Energie fisiche (stato bioenergetico) e autostima.

Le energie corporee sono il substrato fondamentale necessario per mettere in atto qualsiasi percorso di crescita personale, qualsiasi azione o volontà, anche intellettuale o legata all’autostima. Sentire di avere un corpo vitale aiuta ad avere energia vitale. E per avere un corpo vitale bisogna allenarlo, ogni singolo giorno, anche con tecniche diverse.

Dobbiamo letteralmente usare ogni giorno una parte del nostro tempo per curare il corpo e potenziarlo, anche se questa sembri una strada periferica per il lavoro sulla crescita personale, sull’autostima, sullo sviluppo personale e professionale.

Iniziamo a battere nuove strade della vita, partendo dal corpo, e ne scorgeremo panorami prima impensabili.

Due strade divergevano nel bosco, ed io… io scelsi quella meno battuta e questo fece la differenza.

(Robert Frost)

Il corpo è la casa della nostra anima e del nostro pensiero. Persino il fatto di pensare, come pensiamo, e le attività mentali sia consapevoli che subconscie, sono processi che si basano su energie biologiche. La nostra vita e abilità, il nostro pensiero e azione, dipendono dalla qualità del sangue, dall’ossigeno, dai nutrienti, dal respiro, dai muscoli, da ogni nostro sistema organico – tutti fattori che incidono sulla lucidità e sul benessere fisico e anche mentale. Pensare, progettare, ideare, richiede energie elevate e una macchina biologica e corporea attiva, ben funzionante. Nessuno può liberarsi del proprio corpo, e quindi è meglio averlo come alleato anziché come nemico, come propulsore anziché come palla al piede, al massimo livello possibile. Le prestazioni prevalentemente intellettuali o manageriali tendono a snobbare il corpo e sottovalutare le energie corporee, così come le performance fisiche snobbano quelle mentali. Due gravissimi errori. Nel metodo HPM ci concentriamo su alcune domande: come entrano in scena le energie corporee nelle performance, anche in quelle intellettuali? Come è possibile aumentarle? Come agire sul proprio stato fisico, sulla condizione del corpo, sul suo stato di forma o condizione bioenergetica?

La linea guida fondamentale del metodo HPM suggerisce almeno una attivazione corporea o allenamento al giorno, ogni giorno, per tutta la vita, per tendere verso quello stato corporeo e bioenergetico (stato delle energie fisiche) che farà da propulsore ad ogni nostra volontà e da base solida per i nostri sogni.

Il futuro appartiene a coloro che credono nella bellezza dei propri sogni.

(Eleanor Roosevelt)

Energie mentali (stato psico-energetico)

Non si possono domare i sognatori.
[Sonhadores nao podem ser domados].

(Paulo Coelho)

Sognare è bello. Concretizzare i sogni ancora meglio. Questo richiede però buone dosi di energie psichiche, motivazione, perseveranza. Aiutare le persone a trovare le proprie migliori energie mentali è un compito arduo e allo stesso nobile, ed uno degli obiettivi primari del Deep Coaching. Seminare nel terreno delle energie mentali e vederne i fiori crescere è una grandissima soddisfazione per qualsiasi coach e formatore serio.

Se la vita è solo un passaggio, in questo passaggio seminiamo almeno dei fiori.

(Michel de Montaigne)

Il “poter fare” dipende in larga misura dal livello di energie fisiche, mentre il “voler fare” richiede accesso alle energie mentali. È indispensabile quindi esaminare il fronte psicologico della prestazione e del benessere individuale. 

Quali sono i fattori che generano motivazione e demotivazione? Quali incidono sull’autostima e la migliorano, e quali invece la distruggono ed erodono? Possiamo fare nostro un piano di crescita delle nostre energie mentali? La risposta è si, e questo in particolare grazie al “training mentale”, una pratica del metodo Deep Coach in grado di produrre grandi miglioramenti nello stato mentale, testata su atleti campioni del mondo sino alla formazione di dirigenti, Generali ONU, comandanti di navi e leader d’azienda, così come con studenti e persone comuni.

Nel training mentale non importa quanto rapidi siano i cambiamenti, ma in genere lo sono, ed anche in modo molto evidente. Quello che conta è essere costanti, lavorare su un percorso.

Non importa quanto vai piano, l’importante è non fermarsi.

(Confucio)

Quali interventi concreti sono possibili? Se riusciamo ad isolare variabili in grado di generare o ridurre le energie mentali avremo aperto una via determinante per capire meglio come funziona l’uomo e cosa si rompe nel funzionamento della persona e delle organizzazioni quando essi non riescono a raggiungere i propri obiettivi. 

Dobbiamo inoltre introdurre il concetto fondamentale della preparazione emotiva e del training emozionale. Questo viene realizzato in specifiche sessioni di Training Mentale con metodi frutto di un nostro lavoro di ricerca che distingue tra “emozioni Alfa” (emozioni legate al risultato, competitive, agonistiche, motivate alla vittoria o conclusione), e “emozioni Beta” (il piacere dell’azione in sé, il piacere del percorso, la scoperta delle sensazioni positive durante l’azione stessa). 

Il sostegno alle emozioni Beta, reso possibile dal training mentale, significa riappropriarsi anche del proprio vissuto e gustare le piccole azioni, nella vita, nello sport e nel management, una pratica indispensabile che rappresenta una nuova sfida e offre immense opportunità per incrementare benessere, autostima, fiducia in sé stessi e piacere del vivere, del lavorare, del fare progetti.

Nel Metodo HPM si suggerisce la pratica di almeno un esercizio di training mentale o di rilassamento al giorno, tutti i giorni, per tutta la vita.

Non permettete a nessuno di indurvi a beffeggiare i sognatori.

(Napoleon Hill)

Micro-competenze

I dettagli fanno la perfezione e la perfezione non è un dettaglio.

(Leonardo da Vinci)

Le micro-competenze sono date dai dettagli minimali in grado di fare la differenza in una performance. Nel Deep Coaching, non dobbiamo mai cadere nell’ossessività, bensì nella ricerca dell’eccellenza, e questo passa anche per la ricerca di dettagli allenabili che possono fare la differenza. Le energie diventano utili e concrete quando le sappiamo tradurre in azione, e questo richiede competenze. Trasformare energie latenti in energie applicative richiede specifiche abilità. Dobbiamo quindi esaminare la realtà microscopica dei comportamenti e del pensiero, sviluppare tecniche di focusing per riuscire a scovare le abilità di dettaglio in grado di fare la differenza. Si tratta di una vera e propria “caccia” ai dettagli lavorabili ed allenabili, alle cose che altrimenti sfuggono. 

Chi vuole fare grandi cose deve pensare profondamente ai dettagli.

(Paul Valéry)

Come scoprire quindi i “dettagli che contano”, le “componenti allenabili” di una performance? Come attivare il “microscopio mentale” e il “microscopio comportamentale”? Quali spazi apre la “Mental Analysis” per capire quali sono i sistemi di pensiero e atteggiamenti mentali più efficaci nel liberarsi da blocchi e catene? E ancora, dobbiamo apprendere a “smontare” il flusso di pensiero in flussi analizzabili passo-dopo-passo (Mental Frame-by-Frame Analysis) e il flusso di comportamento in sotto-tracce analizzabili (Behavioral Frame-by-Frame Analysis). Nuove competenze, nuove sfide.

Nel Metodo HPM si suggerisce l’esame svolto assieme ad un coach per identificare quali sono i “centri di gravità” di una performance o di un progetto per poi individuare quali siano le competenze effettivamente allenabili. Questo vale sia per le performance sportive, dove dobbiamo scoprire quali siano i dettagli in grado di fare la differenza, che per le performance intellettuali o manageriali, come il public speaking e le tecniche di presentazione, le capacità di assegnare deleghe e compiti, di gestire una riunione o di essere leader.

La differenza tra qualcosa di buono e qualcosa di grande è l’attenzione ai dettagli.

(Charles R. Swindoll)

Macro-competenze

I dettagli di un singolo atto sono importanti, ma lo è anche possedere un buon ventaglio di conoscenze, una conoscenza chiamata “enciclopedica”, nel senso di “non limitata” ad uno spazio troppo stretto e angusto, solo iperspecialistico. Quello che facciamo e come lo facciamo crea in noi percorsi mentali che continuiamo a seguire ripetitivamente, spesso chiusi in una gabbia mentale che ci fa da prigione interiore. Quello che abbiamo studiato sinora, la nostra disciplina, il nostro lavoro, i nostri studi, le nostre abitudini, possono sembrare un soffice cuscino ma spesso diventano gabbie mentali e comportamentali perché non riusciamo a guardare oltre.

Se vuoi qualcosa che non hai mai avuto, devi fare qualcosa che non hai mai fatto.

(Thomas Jefferson)

Ampliare le macro-competenze significa uscire dalla gabbia mentale. È significativo il caso – visibile in un video specifico, di un’orsa liberata dopo 20 anni di cattività: continua a girare su sé stessa come fosse ancora in una gabbia virtuale. La gabbia, prima fisica, è diventata mentale. La triste reazione dell’orsa Ina dopo essere stata curata e liberata dal Libearty Bear Sanctuary Zarnesti in Romania, dimostra che le azioni creano tracce mentali che tendiamo a seguire sempre e ripetitivamente, finché non ci appropriamo di nuovi territori del sapere e di nuove competenze. Allargare le macro-competenze significa aprirsi al nuovo e rompere la gabbia mentale che ci imprigiona.

Per capire le “connessioni tra le cose” occorre conoscere più campi del sapere, e metterli in connessione. Ogni sfida richiede un profilo di competenze adeguato. Come fare una buona analisi delle competenze richieste da un ruolo che cambia? Dove sono i gap di competenze da anticipare (e non solo da colmare)? Siamo certi di sapere esattamente quali sono le nostre competenze importanti per il futuro che vorremmo o che sta arrivando? 

Se ci liberiamo dal male della presunzione, tutti noi possiamo diventare consapevoli di non sapere. Spesso gli incidenti personali di vita (critical incidents), le fasi di malessere, i test di realtà, le cadute, ci segnalano che qualcosa non va. Sia in questi casi, che nella vita quotidiana, chiediamoci cosa è bene imparare. Rimaniamo aperti. Howell, nell’introdurre il concetto di unknown incompetence (ciò che non sappiamo di non sapere) ha fatto un regalo ad ogni essere umano, stimolandolo ad andare a cercare i suoi punti ciechi nascosti. Quali sono quindi le cose che ci sfuggono di noi stessi? Quali sono invece i punti di forza personali su cui fare perno? Che tecniche di analisi utilizzare per scoprire dove indirizzarsi nel prossimo passo della propria formazione personale? 

L’analisi del livello macro ci porta inoltre a ragionare sul tema dell’entropia delle competenze, il degrado progressivo che subisce la nostra preparazione per via dell’ambiente che cambia ed evolve, e come fronteggiarlo.

Nel Metodo HPM si suggerisce di compiere ogni anno un investimento importante sulla propria formazione personale, anche e soprattutto in campi del sapere nuovi o limitrofi al nostro territorio professionale. Fare un corso all’anno non è una richiesta troppo impegnativa, ma anno dopo anno, se ci formiamo, cresceremo sempre.

Progettualità e concretizzazione

Abbiamo bisogno di desiderare, amare e avere progetti per essere ricompensati. È uno dei meccanismi della sopravvivenza.

(Clara Sanchez)

I progetti costruiscono. I progetti concreti aiutano a far diventare realtà una visione o un valore in cui crediamo. Dobbiamo quindi sempre lavorare sulla nostra capacità di tradurre la nostra missione e visione in qualche progetto concreto.

Stupende idee che non trovino mai soddisfazione e applicazione, energie mai tradotte in un progetto, ambizioni soffocate a lungo o per sempre, distruggono anziché costruire. 

Niente è più deleterio del rimanere costantemente in uno stato di tensione latente, di pulsione bloccata, un tendere a… sempre incompiuto.

Ogni idea forte o desiderio di attivazione incompleto produce danni, una vita castrata, un adagiarsi nella sofferenza senza che mai si provi un avvicinamento all’oggetto o condizione desiderata, ad uno stato superiore. 

Giorno dopo giorno soffoca chi non tenta di vivere una vita a pieno. Occorre quindi trovare sfogo applicativo, liberazione progettuale, determinazione, sviluppare le tecniche per canalizzare le energie in goals concreti. 

Nessuno può pretendere che ogni sogno si concretizzi, ma nemmeno accettiamo la castrazione di ogni nostro sogno. Che caratteristiche devono avere i progetti che puntano a conseguire risultati concreti? Vogliamo finalmente mettere mano alla nostra capacità di realizzare e concretizzare? 

Nessuno pretende record mondiali o progetti forzatamente fantastici, ma piccoli passi si, ricerca di significati si, ricerca di scopi praticabili sì. 

I progetti vanno rifiutati quando vuoti, e riprogettati come atti di espressione praticabili, concretizzabili, per generare attivazione. Ogni piccolo passo conta. Ogni micro-goal raggiunto ci fa pensare di poterne raggiungere un altro ancora e rinforza la nostra autostima.

Nel Metodo HPM consigliamo la realizzazione di almeno un progetto significativo a semestre, o altra cadenza per noi adeguata, e lavoriamo per incrementare la nostra capacità di progettazione e di realizzazione di progetti concreti.

Ricordo di aver detto al mio mentore, “Se avessi più soldi, avrei un progetto migliore”, Egli mi rispose rapidamente, “Direi piuttosto che se tu avessi un progetto migliore, avresti più soldi”. 

Vedi, non è l’importo che conta; è il progetto che conta.

(Jim Rohn)

© Articolo estratto con il permesso dell’autore dal testo di Daniele Trevisani – “Deep coaching. Il Metodo HPM™ per la crescita personale, il coaching in profondità e la formazione attiva”. Franco Angeli editore, Milano. Vietata la riproduzione senza citazione della fonte.

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Articolo estratto con il permesso dell’autore dal testo di Daniele TrevisaniIl potenziale umano. Metodi e tecniche di coaching e training per lo sviluppo delle performance”. Franco Angeli editore, Milano.

Macro-abilità e micro-abilità nel metodo HPM

Qualsiasi azione e prestazione richiede abilità.

Le abilità possono essere suddivise in trasversali (es.: abilità relazionali) e applicative (es.: conoscere un software specifico).

Anche in campo sportivo le abilità possono essere di tipo interdisciplinare, come le capacità di coordinamento psico-motorio, e specifiche, es.: sapersi coordinare durante un salto in alto.

Nel metodo HPM proponiamo un modo diverso e interessante per considerare le abilità. Un modo non alternativo o migliore, ma complementare, rispetto a quanto evidenziato. Si tratta di distinguere tra macro-abilità (o macro-competenze) e micro-abilità (o micro-competenze).

Le macro-abilità sono la gamma di skill che un certo ruolo richiede, es.: per un manager, essere orientato ai risultati, conoscere una certa lingua, avere doti di leadership, e altre capacità connesse al suo ruolo. Le macro-abilità sono collegate ad una specifica job-description (descrizione delle attività e del ruolo) e ad uno skills-profile (profilo di competenze).

Lo stesso si può dire per un atleta: un giocatore di calcio può essere valutato in termini di abilità e poteri quali: forza fisica, resistenza aerobica, senso tattico, spirito di squadra, e altri.

Le micro-abilità sono invece molto più difficili da inquadrare e racchiudere in uno schema. Comprendono aree del sapere e dell’azione di misura estremamente ridotta (micro nel tempo e nello spazio) ma così pervasive da condizionare nettamente lo sviluppo del potenziale – e divenire materia primaria di formazione e allenamento.

Ad esempio, un calciatore professionista prima di tirare un calcio di rigore cura persino su quale ciuffo d’erba piazzare la palla e la presenza di eventuali avvallamenti, un dettaglio che sfuggirebbe a qualsiasi dilettante. Un negoziatore abile sa cogliere da un cenno dei muscoli facciali qualsiasi stato di tensione latente. Ogni performance ha proprie aree di micro-capacità

Dobbiamo quindi inquadrare cosa differenzia una micro da una macro competenza.

Partiremo dall’esempio per poi giungere ad una formulazione generale. Il pu­gile, il kickboxer, il thayboxer, hanno propri repertori di macro-com­pe­ten­ze denominabili: il jab, il diretto, il gancio, il montante (per il pugile), il clinch (lavoro corpo a corpo), la ginocchiata, il colpo di gomito (per il thay­boxer).

Sia in queste azioni che nei momenti di guardia senza combattimento, però, notiamo una serie di micro-azioni non denominabili o difficilmente denominabili (dettagli) che incidono enormemente sulla performance complessiva: la modalità di respirare mentre si lancia un colpo, la modalità di appoggiare i piedi a terra e muoversi mantenendo una guardia, le micro-finte, le angolazioni dei gomiti o delle braccia, la distribuzione adeguata della forza nella fase di avvio o conclusiva di un colpo.

Man mano che procede l’analisi delle micro competenze, emergono altri det­tagli per il coaching: come produrre l’arresto del “trascinamento” della for­za oltre il punto zero (punto di massima potenza)? Come gestire l’e­qui­li­brio, come migliorare la gestione delle energie durante il combattimento e nel­le sue fasi?

Queste micro-competenze creano una enorme differenza tra atleta ed atleta, e – dopo una fase in cui la persona abbia appreso le tecniche principali (ma­cro-tecniche) – lo sviluppo del potenziale passa attraverso l’affinamento delle micro-competenze.

Simili dinamiche si ritrovano nella performance manageriale. Esempio ap­plicativo per la Direzione commerciale:

Competenze manageriali macro, tra cui:

  • creare un piano di sviluppo commerciale pluriennale,
  • definire un piano commerciale/marketing annuale,
  • sviluppare un piano di marketing territoriale (piano di sviluppo-paese),
  • definire i budget di vendita per i diversi canali e aree (obiettivi di vendita),
  • gestire le forze vendita interne ed esterne,
  • creare un piano di formazione e sviluppo formativo per il proprio personale,
  • organizzare una campagna di comunicazione, informazione o promozione,
  • organizzare una campagna di vendita,
  • realizzare una presentazione in pubblico per illustrare dati o progetti,
  • valutare l’affidabilità di un cliente,
  • definire le condizioni di consegna.

Competenze micro (ne elencheremo solo alcune a titolo esemplificativo):

  • gestire i turni conversazionali durante le riunioni con i clienti o con le forze di vendita (turn-taking, turn-management),
  • mantenere la conversazione con un cliente all’interno degli obiettivi (content management comunicativo),
  • utilizzare metafore e altri “dispositivi retorici” efficaci durante una presentazione,
  • utilizzare le tecniche di riformulazione e ricentraggio durante il colloquio con un cliente o collaboratore,
  • leggere le emozioni di un proprio collaboratore dal suo comportamento non verbale (emotional detection),
  • esprimere il proprio disaccordo su una condotta intrapresa da un proprio collaboratore e saperlo correggere (leadership assertiva),
  • capire quando una conversazione sta procedendo nei termini corretti (analisi della conversazione) e saperla ricondurre a stati positivi (leadership conversazionale),
  • aumentare l’enfasi su un argomento cui si vuole dare importanza, far salire i toni su un certo tema (up-keying) e ridurre o minimizzare un tema o un momento di interazione (down-keying);
  • far salire la tensione emotiva (tecniche di escalation) o far raffreddare la temperatura emotiva (tecniche di de-escalation);
  • costruire e condurre role-playing, come metodo di formazione attiva e coaching interno, con cui mostrare e far provare ad un proprio collaboratore una modalità di comportamento, o una diversa tecnica di trattativa o modo di comunicare.

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Articolo estratto dal testo “Deep Coaching™, il metodo HPM™ per la crescita personale, il coaching in profondità e la formazione attiva” Copyright FrancoAngeli e dott. Daniele Trevisani.

Il più grande nemico della conoscenza non è l’ignoranza, è l’illusione della conoscenza.

Stephen Hawking

Agire sui saperi tramite il modello X-Y significa chiedersi quale “information gap” vogliamo colmare. Significa chiedersi “cosa deve sapere la persona dopo questo intervento di formazione o coaching, che prima non sapeva?”. I saperi sono importanti ma non sufficienti. Ed inoltre, fare “lezioni” è spesso un metodo insufficiente per creare saperi veri, solidi e interiorizzati.

Trasferire “Saperi” in modalità accademica significa trasmettere conoscenze teoriche, dati, elementi conoscitivi o culturali, tramite il metodo “ad una via”, nel quale un oratore o docente parla e/o scrive su un foglio, espone slides o schemi, legge documenti, e altri metodi similari. È il classico metodo della “lezione frontale” composta da un oratore e da un pubblico (più o meno ricettivo).

La lezione classica o frontale ha numerosi limiti e alcuni pregi. Per i pregi, come evidenzia Castagna (2003). “…. È un momento razionalizzante per antonomasia, perciò necessario nella formazione comportamentale[1].” 

La lezione si presta bene unicamente rispetto all’obiettivo di trasferire schemi, vocabolari, modelli e concetti, prima, durante o dopo un training program, ma non è assolutamente da confondere con la totalità di un training program – da considerare come azione olistica ed esperienziale, ed ancora meno è assimilabile ad un Deep Coaching, un coaching che vada veramente in profondità. 

Agire sui "saperi" tramite il Modello XY e gli obiettivi di apprendimento

Il limite insito nel procedimento della lezione risiede nel ruolo di ascoltatore passivo in cui sono relegati i discenti, limite che facilmente si ripercuote sul loro apprendimento. Come sottolinea Castagna (2003)

“Scarsa memorizzazione dei concetti e rapida caduta del livello di attenzione, derivanti dalla fatica insita nell’ascoltare, sono solo alcuni dei rischi in cui incorre lo spettatore passivo che assiste ad una lezione[2].”

Anche Knowles (2002) fa notare che:

“Coloro che escono dal nostro sistema scolastico non sanno come apprendere, sanno solo come ricevere un insegnamento.” [3]

La tassonomia di Bloom sugli Educational Objectives (obiettivi di apprendimento):

Se vogliamo trasmettere dei saperi, dobbiamo almeno chiederci quale uso desideriamo si faccia degli stessi. Può essere utile tornare qui sulla tassonomia di Bloom[4] sugli Educational Objectives relativa a sei livelli di apprendimento:

  1. remember, recall & knowledge: ricordo, conoscenza dei concetti;
  2. comprehension, understanding: capire veramente il tema;
  3. application: saper applicare il tema o modello ad un problema;
  4. analysis: saper analizzare usando il tema o modello studiato;
  5. synthesis: sintetizzare, saper creare e progettare facendo uso dei concetti appresi e dei modelli dimostrando capacità di sintesi;
  6. evaluation: saper valutare facendo uso dei concetti e modelli appresi.
La Tassonomia di Bloom

Come si nota, le fasi superiori, per concretizzarsi, richiedono una “scalata” dal basso verso l’alto, verso capacità autonome.

Secondo Bloom, definire gli obiettivi o goals formativi in termini di capacità comportamentali aiuta a fissarli meglio[5].

Da questa riflessione sono nate molte applicazioni successive che collegano ogni fase a verbi d’azione che possono essere utilizzati come target di apprendimento. Un primo esempio viene da Huitt[6]:


Target di apprendimento - Huitt

Da questo lavoro di ricerca estrapoliamo il seguente principio del Deep Coaching:

Principio 6: Progressione dei livelli di conoscenza e Modelli di Crescita nel Deep Coaching

Il cambiamento positivo viene favorito dai seguenti fattori:

  1. remember, recall & knowledge: ricordo, conoscenza dei concetti; riuscire a ricordare le variabili chiave di un modello di sviluppo che si intende usare;
  2. comprehension, understanding: capire veramente il tema; capire veramente il cuore e il senso del modello;
  3. application: saper applicare il tema o modello ad un problema;
  4. analysis: saper analizzare un obiettivo o problema usando il tema o modello studiato;
  5. synthesis: sintetizzare, saper sintetizzare le variabili chiave, saper creare e progettare facendo uso dei concetti fondamentali appresi nel modello;
  6. evaluation: saper compiere valutazioni, di persone, aziende o obiettivi e problemi, facendo uso dei concetti appresi nel modello.

Se non compiamo questa scalata che parte dalla conoscenza concettuale fino ad arrivare ad utilizzare pienamente un modello, potremmo dire di avere solo un’effimera illusione di conoscenze, e non conoscenze vere.


[1] Castagna; M (2003). “Role playing, autocasi ed esercitazioni psicosociali” Franco Angeli, Milano, p.16.

[2] Castagna, M (2003). “Progettare la formazione. Guida metodologica per la progettazione del lavoro in aula” Franco Angeli, Milano, p. 46.

[3] Knowles, M (2002). “Quando l’adulto impara: pedagogia e andragogia” Franco Angeli, Milano.

[4] Bloom Benjamin S. and David R. Krathwohl. Taxonomy of Educational Objectives (1956). The Classification of Educational Goals, by a committee of college and university examinersHandbook I: Cognitive Domain. New York, Longmans, Green.
Bloom S. Benjamin (1984). Taxonomy of educational objectives. Allyn and Bacon, Boston, MA. Pearson Education. 

[5] Bloom, Robert S., Stating Educational Objectives in Behavioral Terms, Nursing Forum 14(1), 1975, 31-42. 

[6] Huitt, W. (2004). Bloom et al.’s taxonomy of the cognitive domain. Educational Psychology Interactive. Valdosta, GA: Valdosta State University. Retrieved [16-aug-06], from http://chiron.valdosta.edu/whuitt/col/cogsys/bloom.html

Per approfondire il Modello Deep Coaching™, il metodo HPM™ per la crescita personale, il coaching in e la formazione attivaqui trovi il link relativo al Libro del Dott. Daniele Trevisani edito da FrancoAngeli

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L’insufficienza del Saper Fare:

Sulla stessa linea, per incrementare il Saper Fare non è sufficiente agire sulla pratica. Se desidero apprendere le competenze necessarie per realizzare un bilancio aziendale, devo studiare e conoscere i vocaboli che utilizzo e i concetti sottostanti. Chiunque con un minimo addestramento può svolgere un’operazione focalizzata come il “prendere il numero della casella A4 e dividerlo per il valore della cella B5” ed ottenere così un risultato. 

La vera differenza sta tra gli esecutori di azioni e i gestori/protagonisti di azioni. Chi “Sa” e non solo Sa Fare può costruirsi un dato mancante partendo dai suoi costituenti primari, può andarsi a cercare i dati mancanti, può agire senza bisogno di supervisione assidua e istruzioni continue. Senza il passaggio sui Saperi, il Saper Fare è pura esecuzione di istruzioni.

Ricorda sempre: ciò che non sai o non sai fare è temporaneo, non hai ancora le conoscenze o le abilità per farlo ma con un buon coaching ci potrai arrivare sicuramente.

Il tuo passato dice molto di te ma il tuo impegno dice ancora di più rispetto a dove potrai arrivare.

Non conta da dove vieni, ma dove stai andando.

Ella Fitzgerald

L’insufficienza del Saper Essere:

Notiamo che per ottenere un cambiamento positivo sul Saper Essere non è sufficiente un lavoro meditativo o di riflessione, e non basta la volontà di cambiare. Molte persone passano la vita con la volontà di cambiare ma non riescono a farlo.

“Saper Essere” il direttore marketing di una azienda richiede molto di più dei soli concetti di marketing che chiunque possiede dopo aver superato un esame universitario, e molto di più dei singoli Saper Fare (es: saper fare un’intervista ad un cliente, saper fare un piano pubblicitario, e altre skills). 

Il Saper Essere di un Direttore Marketing è anche Saper Essere un leader (condottiero, punto di riferimento) della sua squadra, saper essere un buon team-player con gli altri direttori, saper essere utile alla missione aziendale e al clima dell’azienda. 

Ma il nostro messaggio va oltre: non è possibile incrementare il Saper Essere senza disporre di Saperi correlati e Saper Fare correlati. 

Facciamo un esempio nella terapia: Saper Essere più positivo, meno negativo, più ottimista, e meno pessimista. L’intervento del terapeuta può avere successo molto limitato se il cliente non riesce poi a saper tradurre questo diverso modo di essere in un momento pratico quale tagliare con felicità un ramo di un albero mentre si fa giardinaggio (anziché vivere il momento con nervosismo e irritazione), o non prova il piacere di sentire il proprio corpo lavorare mentre si allena. 

E del resto, come è possibile cambiare il Saper Essere se il quadro delle credenze, dei saperi, risulta immutato? Il Saper Essere è frutto di una cultura personale, e non toccando questa cultura il cambiamento può essere solo effimero. Il Deep Coaching punta quindi ad una immissione di Saperi, di Saper Fare e di Saper Essere, in modo sinergico e correlato, per arrivare ad un vero cambiamento positivo della persona.

Il segreto per andare avanti è iniziare.

Mark Twain
I punti di arresto del percorso

I punti di arresto del percorso:

Un cliente può lavorare per anni sul Saper Essere (diventando più centrato, più calmo e riflessivo, meno impulsivo, meno obbligato a fingere e più sé stesso) ottenendo grandi risultati dallo skills training psicolinguistico e bioenergetico, ma prima o poi si incontra un punto di arresto del percorso.

Arrestarsi di fronte alla “soglia dei Saperi” significa non accendere il fuoco sacro della curiosità intellettuale: perché ottengo questo risultato? Mi interessa solo il risultato o anche capire perché succede ciò che mi succede? 

Il passaggio dalla “soglia dei risultati” (vedere il cambiamento che funziona) alla “soglia dei Saperi” (capire i perché dei meccanismi) è ciò che fa la differenza tra il cambiamento di superficie e il cambiamento consapevole.

Altro esempio in campo aziendale, Saper Essere un leader. Alcuni confondono tremendamente la leadership con l’aggressività, dimenticando che un leader puramente aggressivo finirà per tenere con sé solo gli yes men o i “manager di convenienza”, quelli che abitano vicino all’azienda e non hanno voglia di traslocare, o quelli che hanno una bella visuale dall’ufficio e per questa riescono a digerire anche i climi organizzativi peggiori, e altri casi di questo tipo.

Allontanare i migliori non è un risultato. Ecco, quindi, che Saper Essere un leader richiede anche una cultura della leadership (uno studio delle teorie, modelli e esperienze altrui, una visuale ampia) e uno studio dei Saper Fare inerenti la leadership, come il Saper Fare un piano motivazionale, saper ricompensare psicologicamente (rewards psicologici), realizzare un Total Compensation Plan (piano di remunerazione e incentivazione), e altri saperi pratici. Nessun Saper Essere può dirsi completo se privo di capacità pratiche (a valle) e conoscenza/cultura (a monte).

Un Saper Essere privo di cultura (Saperi) e di traduzione in capacità pratiche (Saper Fare) è pura teoria, è un contenitore vuoto.

Saper essere costanti e perseveranti nel proprio viaggio di crescita personale è un obiettivo di portata superiore a qualsiasi skill operativa.

Cadendo, la goccia scava la pietra, non per la sua forza, ma per la sua costanza.

Lucrezio

Rimuovere i catalizzatori negativi dal processo di cambiamento: i vettori di sviluppo formativo:

Ogni stato specifico (Saperi, Saper Fare, Saper Essere) diviene vettore di crescita.

Rimuovere i catalizzatori negativi dal processo di cambiamento: i vettori di sviluppo formativo

Un progetto può concentrarsi:

  • sul bisogno di Sapere di più (o conoscere cose nuove), 
  • sul bisogno di Saper Fare di più o di cambiare il modo di fare, 
  • sul bisogno di Saper Essere diversi e migliori in alcune situazioni particolari della vita professionale, soprattutto quelle più sfidanti.

Tuttavia, occorre sempre ricordare che:

  • i nuovi saperi possono entrare in conflitto con i precedenti. Quando si pensava che la terra fosse piatta, immaginiamo la reazione verso un formatore intento a sostenere che la terra fosse sferica. Poiché io la vedo piatta, la penso piatta, e tutti dicono che è piatta, come posso crederti? Chi sei tu per dire che è una sfera? Sei pazzo?
  • i cambiamenti proposti sul modo di agire possono essere rifiutati per regressione verso l’abitudine, paura del cambiamento (costo del cambiamento), o per rifiuto della fonte della proposta (effetto boomerang);
  • i cambiamenti desiderati sulle componenti più profonde (atteggiamenti, valori, spiritualità, credenze, opinioni) possono non avvenire a causa delle inerzie comportamentali e attitudinali che agiscono sul soggetto stesso, o del rifiuto di cambiamento.

I catalizzatori negativi del cambiamento uccidono il cambiamento e la crescita. 

Nel metodo HPM abbiamo identificato diversi catalizzatori negativi, tra cui esponiamo solo i più critici e frequenti.

  • catalizzatori negativi di sufficienza: pensare di sapere già abbastanza, non avere “sete” o “fame”;
  • catalizzatori negativi di ipo-stimolazione: chiudersi progressivamente agli stimoli esterni;
  • catalizzatori negativi di dogmatismo di appartenenza: aderire a sistemi che eliminano il bisogno di pensare, poiché qualcuno ha già pensato per te, e non si ha voglia di tollerare una possibilità di autocritica o di critica alla scuola di appartenenza: “la mia scuola formativa mi ha insegnato che…  e quindi questo non può essere vero”, oppure “io sono una terapeuta sistemico-relazionale e quindi… non posso essere d’accordo su…”;
  • catalizzatori negativi di esperienza: pensare di sapere perché “faccio questo mestiere già da x anni”;
  • catalizzatori negativi di risultato: pensare di essere “a posto” perché in un certo momento o per un certo periodo si stanno ottenendo dei risultati positivi, dimenticando che possono esservi influenze ambientali che generano tale positività, e i trend mutano nel tempo;
  • catalizzatori negativi di autoefficacia: pensare che “è troppo difficile” e non valga nemmeno la pena tentare;
  • catalizzatori negativi di locus-of-control: pensare che “è un fattore che dipende dal destino, o dagli altri, io non posso farci niente” e allargare questo pensiero anche alla sfera degli interventi possibili;
  • catalizzatori negativi di self-image: pensare che “io non sono adatto per questo ruolo, è qualcosa per persone più brave di me”.

Ricordatevi di guardare le stelle, e non i vostri piedi. Per quanto difficile possa essere la vita, c’è sempre qualcosa che è possibile fare, e in cui si può riuscire.

Stephen Hawking

Per approfondire il Modello Deep Coaching™, il metodo HPM™ per la crescita personale, il coaching in e la formazione attivaqui trovi il link relativo al Libro del Dott. Daniele Trevisani edito da FrancoAngeli

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  • Saperi
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Articolo estratto dal testo “Deep Coaching™, il metodo HPM™ per la crescita personale, il coaching in profondità e la formazione attiva” Copyright FrancoAngeli e dott. Daniele Trevisani.

I Catalizzatori Formativi:

Nel metodo HPM, il formatore/consulente o coach non deve mai dare per scontato che per ottenere cambiamento su una leva sia sufficiente toccare quella singola leva. In sostanza:

  • per agire sui Saperi non è sufficiente lavorare sui Saperi;
  • per agire sul Saper Fare non è sufficiente lavorare sul Saper Fare;
  • per agire sul Saper Essere non è sufficiente lavorare sul Saper Essere.

Lo spirito di riuscita è parte del Metodo HPM così come lo spirito di rinuncia non ne fa parte ed anzi è qualcosa da cui stare alla larga.


Non rinunciare a provare a fare ciò
che vuoi veramente fare. 
Dove c’è amore e ispirazione,
non credo che si possa sbagliare.

Ella Fitzgerald

Per tentare nuove strade della vita e progetti in cui riversare amore e ispirazione dobbiamo mettere in sinergia diversi campi di forze e diverse “sostanze”.

Nel campo della chimica è noto il fenomeno per cui due sostanze, semplicemente mescolate tra di loro, possono non legarsi affatto e rimanere divise. Se prendi delle palline di ferro e le metti in un bicchiere il ferro non si scioglierà nell’acqua, ma rimarrà sotto forma di palline. Se versi una pastiglia di aspirina nel bicchiere invece questa si scioglierà e avrai ottenuto un liquido diverso dalla semplice acqua.

Perché le strutture delle diverse molecole si leghino tra di loro profondamente è necessaria la presenza di un catalizzatore. La Catalisi è quindi il fenomeno per cui alcune reazioni chimiche vengono accelerate (catalisi positiva) o ritardate (catalisi negativa) dalla presenza di alcune sostanze, i catalizzatori.

Lo stesso accade nella formazione e nel cambiamento. Se prendiamo la “sostanza umana”, l’essere umano, e vi aggiungiamo nuovi concetti per “mere exposure” (semplice esposizione), il soggetto non li farà mai veramente propri. 

La nostra esperienza ci porta alla consapevolezza della necessità di utilizzare i catalizzatori positivi (es. l’azione concreta in cui sia necessario utilizzare veramente i nuovi concetti), così come di rimuovere i catalizzatori negativi dal processo formativo.

I Catalizzatori Formativi, l'insufficienza dei saperi e i momenti della verità

L’insufficienza dei saperi:

Per incrementare i Saperi non è sufficiente un ascolto one-way o una pura esposizione (mere exposure), per prolungata che sia, ma è necessario utilizzare catalizzatori formativi – ad esempio l’azione su progetti e il problem solving che richiedano di mettere sul campo i nuovi saperi. 

Ad esempio, un preparatore sportivo sta studiando i principi dell’integrazione alimentare, frequenta seminari sugli integratori, legge libri e riviste da anni, ma tutto “scorre” nozionisticamente senza entrare veramente nel patrimonio di abilità personali.

Solo nel momento in cui egli debba preparare un piano di integrazione per uno sportivo potrà veramente mettere “a sistema” i suoi saperi, e scoprire le sue lacune. Nel momento in cui la realtà ci pone di fronte ad un problema che ci obbliga a “sapere”, il sapere diventa urgente e indispensabile. 

Lo stesso discorso vale per il lavoro sulle competenze e saperi manageriali. Possiamo leggere cento libri sulla comunicazione che ci parlano degli “stili comunicativi”, e scoprire che ne esistono tanti, esempio:

  • Poetico
  • Empatico
  • Assertivo
  • Ottimista
  • Pessimista
  • Ingegneristico
  • Anglofono

…e ogni altro stile praticabile. Finché lo leggiamo, sarà solo un vago concetto. Quando invece con tecniche di “active training” qualcuno ce li farà interpretare, ce li farà provare ed allenare, per quanto sia lo sforzo di cambiare stile comunicativo, allora e solo allora il concetto si farà strada in noi e inizierà a passare da un vago “sapere” ad un più concreto “saper fare” e “saper essere”.

Per cambiare davvero e assimilare il nuovo bisogna provare, bisogna sperimentare, bisogna agire, bisogna mettere in conto di fallire, di essere goffi, di apprendere per prova ed errore, fino a raggiungere l’eccellenza.

Sbagliare, in questo metodo, non è veramente sbagliare, ma un passo in più verso il successo.

L’arte di vincere la si impara nella sconfitta.

Simon Bolivar

Test di realtà, reality check, momenti della verità:

Credere di potere è essere già a metà strada.

Theodore Roosevelt

I test di realtà (reality check) sono una tecnica di coaching e formativa sviluppata nel metodo HPM, con la quale si cerca di osservare i comportamenti sul campo di una persona o di un’azienda, in condizioni reali, per acuire la consapevolezza dello stato di cose reale.

Questo vale anche per testare i propri personali comportamenti in prove di verifica dei livelli di competenza ed abilità raggiunti, e fare il punto di un percorso di Deep Coaching.

Un reality check può essere svolto anche per via telefonica per testare la qualità del servizio di un’azienda o di un operatore, o tramite canali digitali o ancora tramite canali interpersonali.

Cosa andiamo ad osservare in un reality check? Questo è un esempio di livelli di analisi per valutare la qualità di un servizio di customer service telefonico:

Reality check applicato alla qualità del servizio telefonico di un contact center con specifica attenzione alle capacità di ascolto.

  1. Cosa voglio (per che motivo sto attivando un contatto)?
  2. Chi contatto?
  3. Attraverso quale canale?
  4. Cosa capiscono di quello che mi serve veramente?
  5. Come ascoltano o come sanno ascoltarmi?
  6. Quanto capiscono?
  7. Come si comportano?
  8. Che principi guida latenti usano?
  9. Da cosa si evince?
  10. Come si sarebbero dovuti comportare?
  11. Che dissonanze emergono?

Un approccio simile è esistente da tempo nel marketing, ad esempio sotto forma di ghost customer technique, dove vengono svolti acquisti reali presso aziende concorrenti, per misurarne la performance, la capacità di servizio e la qualità relazionale. L’applicazione con finalità formative e di coaching si deve (per quanto di nostra conoscenza) a nostre sperimentazioni.

Ad esempio, in un modulo formativo o di coaching dedicato al tema dell’ascolto ed empatia, si può procedere con dei reality check telefonando a concessionarie d’auto per verificare con quanta attenzione i venditori ascoltino i nostri bisogni, o se li ascoltino affatto. Si può verificare se ci offrono una prova di guida, se ci tengono ad avere i nostri dati per richiamarci in caso di bisogno, e tanto altro. 

Dopo una serie di telefonate dove si sarà constatato con mano che le persone non sanno ascoltare o non sono formate ad ascoltare, l’urgenza di un lavoro sull’ascolto aumenta molto. E soprattutto, nasce da una sperimentazione concreta avuta dagli allievi, e non solo da un concetto teoricamente esposto come possibile dal coach o formatore.

L’applicazione che ne realizziamo a fini formativi ha dato eccellenti riscontri in termini di apertura al cambiamento del partecipante all’evento formativo. 

reality check possono essere sia rivolti a sé stessi (es: cercare di risolvere un problema), sia sulla propria organizzazione (vedere come essa risponde, come le singole persone rispondono) o su altri (realizzando un apprendimento che deriva dall’osservazione mirata di comportamenti altrui).

Grazie agli auto-test di realtà (vedere se si è in grado di risolvere un problema reale), posso scoprire qualcosa di me, posso “sapere di non sapere”. Ad esempio, se voglio diventare un preparatore atletico, grazie al test di realtà prendo consapevolezza di avere molta conoscenza teorica sui singoli integratori nutrizionali, ma di non avere ben chiaro come funzioni la relazione tra diversi integratori, la sinergia tra sostanze, cioè se rischio di mandare il mio cliente all’ospedale con un’intossicazione associando diverse sostanze tra di loro.

Posso anche scoprire di sapere molto su quali integratori siano utili per uno sport di potenza, ma la realtà può mettermi di fronte un atleta di karate che abbisogna di velocità esplosiva e non di molta massa muscolare, e questo può mettere in crisi la mia presunzione iniziale di conoscenza.

Ecco, quindi, che solo dopo avere affrontato molti casi in cui devo mettere alla prova e rivedere le mie conoscenze potrò dire di possedere veramente le nozioni (i Saperi) sugli integratori. Senza il passaggio sul “saper fare” questo non sarebbe stato possibile. E l’esempio degli integratori per un preparatore atletico è solo un esempio, lo stesso principio si potrebbe applicare ad un problema manageriale, o di leadership, o di comunicazione, e a qualsiasi altro obiettivo.

Per approfondire il Modello Deep Coaching™, il metodo HPM™ per la crescita personale, il coaching in e la formazione attivaqui trovi il link relativo al Libro del Dott. Daniele Trevisani edito da FrancoAngeli

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Comunicazione Aziendale
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Altre risorse online:

Pubblicazioni e libri dott. Daniele Trevisani (Books published)
Rivista online gratuita di Comunicazione, Potenziale Umano e Management
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Coaching World Federation (CWF)
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Articolo estratto dal testo “Deep Coaching™, il metodo HPM™ per la crescita personale, il coaching in profondità e la formazione attiva” Copyright FrancoAngeli e dott. Daniele Trevisani.

Se pensi di aspettare il “momento giusto” per la tua crescita personale e per la tua formazione, sappi che il momento assolutamente perfetto non arriverà mai, e il momento giusto è adesso.

Procrastinare, nel senso di posticipare, fa male, ma posticipare la propria formazione fa ancora più male.

Non aspettare. Non sarà mai il momento giusto.

Napoleon Hill

Vediamo quindi di approfondire di cosa si parla quando si vuole fare formazione esperienziale e Deep Coaching in modo serio.

Una divisione classica degli obiettivi formativi distingue tra:

  • Saperi: teorie, terminologie, conoscenze, elementi culturali e saperi tecnici da acquisire;
  • Saper Fare: le classiche “skills” o competenze pratiche;
  • Saper Essere: gli atteggiamenti, i comportamenti interpersonali, i sistemi di credenze, i valori di fondo che adottiamo, e le priorità generate dal “modo di essere”.

Nel mondo anglofono, si riferisce spesso lo stesso concetto come “triangle” of attitudes, skills and knowledge (triangolazione tra atteggiamenti, capacità e conoscenza). La derivazione di questa tipologia può essere ricercata soprattutto negli studi di Bloom degli anni ‘50, che distingue tre diversi domini di apprendimento[1]:

  • cognitive – cognitivo (il conoscere);
  • affective – affettivo (atteggiamenti, sentimenti);
  • psychomotor – psicomotorio (relativo al fare).

Negli studi di Bloom, tali categorie vengono ulteriormente sub-analizzate, con individuazione di ulteriori sotto-domini e sotto-variabili, di estremo interesse (rimandiamo il lettore all’opera originale per ulteriori approfondimenti). 

Nel metodo HPM, non volendo e potendo in questa sede fare uno studio storico retrospettivo, ci proponiamo di concentrarci su un utilizzo delle categorie il più operativo possibile. Per ciascuno di questi elementi proponiamo come necessario calcolare un obiettivo formativo o di coaching specifico, o appurare se sia o meno intenzione del cliente agire su di esso.

Integrazione 3 Saperi con modello X Y

Principio 4 – Situation Analysis e Goals Analysis:

Il cambiamento positivo viene favorito dai seguenti fattori:

Buona focalizzazione delle:

  • conoscenze in ingresso;
  • abilità in ingresso;
  • atteggiamenti preesistenti.

Buona focalizzazione di:

  • conoscenze in uscita e conoscenze attese;
  • abilità in uscita e abilità attese:
  • atteggiamenti in uscita e cambiamenti attesi negli atteggiamenti.

Dobbiamo ora realizzare un passaggio delicato: integrare il modello X-Y e quello dei 3S con il modello HPM che fa da sfondo ad ogni azione di coaching in profondità e di formazione.

Integrazione di modelli diversi come strada maestra per un metodo di coaching olistico

Integrazione di modelli diversi come strada maestra per un metodo di coaching olistico

Dare corpo ad un metodo integrato e olistico è l’obiettivo del sistema HPM.

Il metodo HPM è un metodo olistico che spinge la persona verso l’osare incursioni in nuovi territori del sapere, del saper essere, del saper fare, consapevoli che nessun successo è facile ma richiede anzi prova ed errore.

Ho sempre tentato. Ho sempre fallito. Non discutere. Prova ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio.

Samuel Beckett

La sigla HPM comprende il senso del “dare forma”, costruire o modellare (Modeling), ma anche produrre impulso e stimolazione positiva. 

Si applica, a seconda degli scopi sottostanti, al fronte del potenziale umano (Human Potential Modeling), o al lato della prestazione umana (Human Performance Modeling)[2].
I due lati della medaglia sono corrispondenti, in quanto l’accesso al proprio potenziale è la base sia per il benessere che per prestazioni efficaci quando serve. 

Il principio fondamentale risponde al bisogno primario di ogni persona di liberare e crescere le risorse individuali, essere sé stessi al massimo livello possibile, accedendo a nuovi livelli di benessere, autorealizzazione, e pienezza della vita. 

In ultimo, si tratta di un viaggio verso la libertà.
La libertà della tua mente.
La libertà del tuo spirito, che mai nessuna gabbia potrà racchiudere.

Nel Metodo HPM è previsto ampio spazio per le tecniche di training mentale e di rilassamento, con una moltitudine di approcci ed esercizi, e tuttavia il principio di fondo di “tenere duro” nel proprio tendere alla crescita personale è presente e forte.

Ci sono due regole nella vita:
1. Non mollare mai;
2. Non dimenticare mai la regola n° 1.

Duke Ellington

Possiamo fare un grande sforzo di integrazione fra modelli diversi per arrivare ad un coaching veramente olistico e ad una formazione veramente profonda ed olistica.

Per ciascuna delle sei celle del modello HPM, dobbiamo chiederci che cambiamenti vorremmo produrre, “da dove a dove” vorremmo portare la persona, e questo sia sui saperi (conoscenze), sui saper fare (competenze) e sugli atteggiamenti e valori (saper essere).

Principio 5 – Integrazione tra modelli per il Deep Coaching (Metodo HPM):

Il cambiamento positivo viene favorito dai seguenti fattori:

  1. Focalizzazione corretta del bisogno di cambiamento (da X stato attuale a Y stato di arrivo atteso, sia sul piano dei Saperi che del Saper Fare e del Saper Essere) nell’intervento di Coaching sulle energie fisiche (bioenergetiche). 
  2. Focalizzazione corretta del bisogno di cambiamento (da X stato attuale a Y stato di arrivo atteso, sia sul piano dei Saperi che del Saper Fare e del Saper Essere) nell’intervento di Coaching sulle energie mentali (psicoenergetica),
  3. Focalizzazione corretta del bisogno di cambiamento (da X stato attuale a Y stato di arrivo atteso, sia sul piano dei Saperi che del Saper Fare e del Saper Essere) nell’intervento di Coaching delle micro-competenze in grado di fare la differenza (micro-skills).
  4. Focalizzazione corretta del bisogno di cambiamento (da X stato attuale a Y stato di arrivo atteso, sia sul piano dei Saperi che del Saper Fare e del Saper Essere) nell’intervento di Coaching delle macro-competenze e macro-skills.
  5. Focalizzazione corretta del bisogno di cambiamento (da X stato attuale a Y stato di arrivo atteso, sia sul piano dei Saperi che del Saper Fare e del Saper Essere) nell’intervento di Coaching della Progettualità e capacità di fissare obiettivi da concretizzare.
  6. Focalizzazione corretta del bisogno di cambiamento (da X stato attuale a Y stato di arrivo atteso, sia sul piano dei Saperi che del Saper Fare e del Saper Essere) nell’intervento di Coaching della Spiritualità, evoluzione della missione e visione, dei valori e del Life Purpose (scopo di vita).
  7. Corretta integrazione tra i vari livelli di intervento sulle varie celle, con una regia olistica del timing e del processo di formazione e di Deep Coaching.
  8. Per ciascuna variabile, localizzazione e pulizia del quadro di analisi da letture e diagnosi errate della situazione attuale (False X), da falsi obiettivi o obiettivi distorti (False Y), e da strumenti sbagliati per raggiungere lo scopo (False Z).

La visualizzazione grafica di questo lavoro di integrazione è presentata nel modello seguente:

Figura 5 - Rappresentazione schematica Modello Deep Coaching

Figura 6 - Rappresentazione schematica Modello Deep Coaching con false x e false z

[1] Bloom, B.S.(Ed.) (1956-1964). Taxonomy of Educational Objectives. New York: David McKay Company Inc.

[2] In altre parole, la declinazione della sigla HPM può riguardare sia il tema del dare impulso e forma (Modeling) al potenziale non competitivo delle persone (Human Potential Modeling), sia il lato competitivo, la prestazione, il fronte agonistico (Human Performance Modeling).

Per approfondire il Modello Deep Coaching™, il metodo HPM™ per la crescita personale, il coaching in e la formazione attivaqui trovi il link relativo al Libro del Dott. Daniele Trevisani edito da FrancoAngeli

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© Articolo estratto dal libro di Daniele Trevisani “Strategic selling. Psicologia e comunicazione per la vendita consulenziale e le negoziazioni complesse”. Franco Angeli editore, Milano. Pubblicato con il permesso dell’autore.

Action Lines

Il concetto di Action Line è equiparabile alla “linea di azione”, la tattica, la ricerca della “mossa giusta”, della sequenza di mosse azzeccate, così come nell’analisi delle possibili “mosse sbagliate”.

Come concetto, è applicabile in diverse modalità:

  • fare action line significa preparasi ad un incontro ed esplorare le possibili opzioni comportamentali da applicare, soprattutto tramite role-playing,
  • significa analizzare le possibili reazioni che possono avere gli interlocutori (modello Se-Allora, If- Then),
  • significa demolire le tattiche dell’interlocutore prima ancora che esse avvengano.

Dobbiamo distinguere (1) le action line di preparazione agli incontri, e (2) le action line dell’istante, le singole mosse che accadono durante le interazioni reali.

Come una strategia dell’istante, o tattica comportamentale, la action line richiede sia base teorica che capacità di adattamento rapido. 

La linea di azione esprime il senso tattico delle mosse comportamentali e comunicative che vengono condotte da un attore per avvicinarsi al proprio obiettivo.

Il tema di fondo delle action line è la capacità di essere flessibili e adattare le proprie skills alle variazioni situazionali anche istantanee (strategia dell’istante: cosa faccio ora).

Le scuole di vendita e negoziazione rigide prescrivono generalmente comportamenti standard e formule da apprendere, mentre il metodo delle Action Line focalizza il valore dell’ascolto, delle tecniche conversazionali e della capacità di essere se stessi, “vivi” e non ripetitivi nell’applicarle. 

Nel teatro, soprattutto nel metodo Stanislavskij, troviamo la stessa impostazione:

Una delle cose che colpisce di più studiando Stanislavskij e il suo “metodo” è la coscienza che egli aveva dei pericoli di ogni cristallizzazione, di ogni irrigidimento teorico. Stanislavskij aveva troppa pratica viva del teatro per non accorgersi che è proprio l’irrigidimento, il fermarsi alle “ricette” facilmente riproducibili e immediatamente trasformabili in “luoghi comuni”, a costituire uno dei maggiori pericoli per chi fa pratica teatrale[1].

Marketing e Action Line

Applicare il marketing strategico alla vendita significa soprattutto:

  • capire come adeguare i prodotti ai cambiamenti di mercato, 
  • come trasmettere identità e senso della missione, 
  • quali strategie di segmentazione e posizionamento adottare, 
  • quali strategie pubblicitarie e di direct-marketing, 
  • come costruire la rete di vendita, le politiche distributive
  • quali politiche di prezzo adottare. 

A queste attività vengono dedicate ampie risorse e tempo. 

Tutto questo investimento, tuttavia, può essere distrutto da negoziazioni sbagliate. 

Nelle aziende, la preparazione alla negoziazione risulta ampiamente sottovalutata. Si presta grande attenzione ai budget pubblicitari ma poi si trascurano i micro-comportamenti nei riguardi del cliente, fatti di singole azioni, incontri, telefonate, frasi e corrispondenza. 

La storia del comportamento tenuto dall’azienda nei riguardi del cliente nasce dall’impatto delle micro-comunicazioni e forma quella “Customer Experience” così importante per creare fidelizzazione.

Cerchiamo quindi di dare corpo – nella negoziazione – a tale approccio di attenzione ai dettagli, definendo una terminologia che ci permetta di affrontare tecnicamente l’argomento.

Ciascuna storia individuale del rapporto tra organizzazione e cliente è suddivisibile in Steps, ovvero fasi temporali successive durante le quali si articola il rapporto. L’insieme dei passi attuati costituisce un percorso della linea di azione (Path).

L’insieme degli Steps la cui responsabilità ricade sull’impresa è definibile come linea di azione – Action Line.

Essa ci pone il problema della scelta tra alternative e corsi d’azione diverse,  in quanto è sempre possibile attuare altre tipologie di step, producendo esiti diversi (maggiormente negativi o maggiormente positivi). 

Principio 3 – Definizione ottimale degli steps nelle action line

Il successo della negoziazione dipende:

  • dalla capacità di pensare a quali sequenze di azioni (steps) siano ottimali per rapportarsi al cliente, partendo dalla volontà iniziale sino all’esito finale;
  • dalla capacità di creare percorsi di azione (path) soppesati in termini di probabilità di successo e insuccesso;
  • dalla capacità di valutare quali punti di rottura, trappole o fallimenti siano possibili nella linea di azione seguita.

Dall’analisi delle Action Lines che hanno avuto esito negativo è possibile ricavare preziosi elementi per evitare futuri errori e per correggere le proprie strategie (lessons learned: lezioni apprese).

L’analisi delle Action Lines già accadute permette di rivedere la propria impostazione sul mercato in termini di comportamenti quotidiani. 

Nell’analisi degli eventi negativi (critical incidents negativi) è possibile determinare in quale punto esattamente si sia verificato il Breakdown, o dove sia localizzata la trappola relazionale (Trap).

E’ possibile identificare le eventuali azioni di recupero (Recovery) in caso di fallimento della linea di azione, valutando la loro fattibilità e la loro convenienza.

Lo stesso tipo di analisi è possibile anche sulle Action Lines che hanno avuto esiti positivi (critical incidents positivi). 

In caso di esito negoziale positivo, il metodo ALM prevede il ricorso ad una analisi degli atteggiamenti positivi, piuttosto che alla riproposizione esatta dei comportamenti in altre sedi. 

Dobbiamo qui differenziare tra atteggiamenti positivi e comportamenti positivi. Non è possibile generalizzare sempre i comportamenti di successo al fine di riproporli in altre situazioni, in quanto – in realtà – esistono sfumature diverse in ogni tipo di rapporto tra persone e tra imprese. Gli atteggiamenti positivi invece hanno maggiore possibilità di essere generalizzati.

Principio 4 – Rivisitazione critica delle Action Lines passate, analisi dei critical incidents positivi e negativi e costruzione delle best-practices

Il successo della negoziazione dipende:

  • dalla capacità di riflettere sui casi positivi (critical incidents positivi) e trarre da essi prassi da replicare (best practices), analizzando gli atteggiamenti e steps attuati e i motivi del successo;
  • dalla capacità di riflettere sui casi negativi (critical incidents negativi) e trarre da essi insegnamenti sui possibili errori strategici, modi di approccio, e motivi dell’insuccesso;
  • dalla capacità di trasformare le analisi sul passato in conoscenza operativa per il futuro.

Nel metodo ALM, come già sostenuto, più che regolette semplici è necessario dedicare tempo ed energie alla riflessione sui casi di successo e insuccesso, estrapolandone una teoria basata sulla realtà dei fatti.

La decostruzione e ricostruzione del passato è fondamentale per attivare una crescita personale, poiché spesso il flusso di esperienza (flow of experience) sovrasta l’individuo, porta le persone a vivere istante dopo istante in un turbine lavorativo e non fermarsi ad analizzare quanto accade. 

Le analisi retrospettive di maggiore efficacia richiedono la presenza di un counselor o coach e devono comunque essere svolte, almeno, con un confronto tra colleghi preparati a farlo, per poter confrontare opinioni e posizioni e non realizzare analisi da un unico punto di vista.

La sola voce interiore non basta, per crescere è indispensabile il confronto.

Una distinzione necessaria nelle Action Lines è quella tra linea di azione (LDA) acquisitiva, che opera sul cliente potenziale già identificato (prospect) e LDA fidelizzativa sul cliente già acquisito.

La LDA sul prospect si pone il problema di come giungere alla acquisizione del cliente attraverso passi di contatto iniziale, contatti pre-negoziali e contatti negoziali, sino alla conclusione o chiusura.

La LDA sul cliente già acquisito riguarda invece il problema della Retention, ovvero della fidelizzazione del cliente, riducendo il rischio di perdita del cliente da attacchi della concorrenza e errori interni.

Dall’approccio negoziale classico all’approccio negoziale ALM

L’approccio negoziale classico vede in genere un elevato grado di strutturazione. All’interno di questo approccio, molti suggerimenti risultano certamente utili, ma non è possibile – nel metodo ALM – utilizzare strutture negoziali rigide. 

Tra gli approcci classici citiamo ad esempio Al Najjari e D’Ambros (2004), i quali invitano i negoziatori internazionali a considerare la negoziazione come un processo diviso in fasi :

  • La fase pre-negoziale : le parti si preparano all’incontro.
  • La fase di costruzione delle relazioni : questa fase varia grandemente a seconda dell’appartenenza culturale di ciascun incaricato alle trattative.
  • La fase di scambio delle informazioni : le parti decidono quali sono le informazioni da mettere sul tavolo del negoziato, e quali invece sono quelle da tenere nascoste, magari per essere utilizzate come merce di scambio in un momento successivo.[2].
  • La fase di trattativa vera e propria : in questa fase lo stile negoziale di ciascuno emerge prepotentemente. Possiamo avere di fronte due tipi di interlocutori: la persona aggressiva, che cercherà in ogni modo di forzare la controparte a modificare le proprie posizioni, ed il soggetto accomodante, il quale tenterà di individuare uno o più punti di interesse comune per utilizzarli come base per una trattativa.[3].
  • La fase delle reciproche concessioni : questa è la fase in cui le parti devono, reciprocamente, scambiarsi concessioni e smussare gli inevitabili spigoli esistenti tra le contrapposte loro esigenze.

In questo modello classico di negoziazione notiamo una struttura preconfezionata, non necessariamente da gettare, e ricca anche di spunti interessanti. 

Ciò che preme sottolineare – come punto di divergenza – è che nell’approccio ALM le linee di azione strategica possono essere variate e non necessariamente passeremo alla fase delle reciproche concessioni, anzi, questa fase potrebbe trasformarsi in una fase di cross-selling o di aumento del prezzo, e non di discesa del prezzo. 

Ogni negoziazione, nel metodo ALM, richiede un approccio unico.

Gli approcci negoziali classici evidenziano una esigenza di standardizzazione, come emerge chiaramente dalla visione di Najjari e D’Ambros (2004):

È stato dimostrato che una strategia pianificata aumenta decisamene le possibilità di successo, specialmente nei casi di negoziazione cooperativa: recarsi ad un incontro avendo come unica strategia la logica del «caso per caso» non è un comportamento efficace. In particolare, nel momento in cui si determinano gli obiettivi strategici della trattativa, è necessario aver ben chiaro qual è la bottom line dell’azienda rispetto alla trattativa stessa, ossia quali sono le condizioni al di sotto delle quali è più conveniente non concludere alcun accordo.”

Nel metodo ALM, al contrario, si esprime una esigenza di destrutturazione e di diversificazione (pur rispettando alcuni principi base o bottom-line): la negoziazione viene vista come una relazione sempre unica, da condurre caso per caso.

Non è possibile standardizzare nulla che non si conosca, l’unico elemento standardizzabile è la pratica la volontà di essere consulenziale.

Questo richiede la ricerca di una linea tattica originale, spesso irripetibile, non irregimentabile, così come uniche, irripetibili e non standardizzabili sono le situazioni contingenti, le culture aziendali dei clienti e i casi di negoziazione della vita reale.

Il metodo ALM invita i negoziatori ad identificare Action Lines prototipiche (prototipi o modelli negoziali) di probabile efficacia in una certa cultura (americana, latina, cinese, etc), o in una certa azienda, senza mai assumere la certezza che quella linea funzionerà, e senza mai dare per certo che la reazione dell’interlocutore sarà esattamente quella prevista

La varianza intra-culturale è oggi almeno pari a quella inter-culturale, così possiamo trovare un cinese più orientato al business di un americano, uno svedese più “caldo” dei latini, nulla è da dare per scontato.

Il metodo ALM richiede ampie dosi di studio e di leadership conversazionale. Possiamo cercare – e riuscire nella pratica – a spostare il tono della negoziazione da uno stile rigido e anaffettivo, ad uno stile più intriso di emozioni. Il negoziatore assertivo ha il potere di fare questo se conosce le giuste tecniche di leadership conversazionale.

Il vero problema che il negoziatore deve tenere a mente è il concetto di Value Mix o consapevolezza del valore che egli è in grado di trasferire.

Il Value Mix e la sequenza ALM per il negoziatore aziendale

Qualsiasi negoziatore aziendale efficace deve essere consapevole della propria mission, del valore che egli può apportare alla controparte e dei motivi unici per cui la controparte può aver bisogno esattamente di lui o lei e non di altri.

La consapevolezza del negoziatore deve riguardare tutti i tre punti principali che precedono la negoziazione (Scenari, Mission, Marketing Mix e Value Mix). 

I punti a valle della sequenza (Action Line e Front Line) comprendono l’atto del prepararsi a negoziare (Action Line) e del negoziare reale (Front-Line).

Sequenza base del metodo ALM

  1. Scenari
  2. Mission
  3. Mktg MixValue Mix
  4. Action Line
  5. Front Line

Ripetiamo le consapevolezze primarie del negoziatore rispetto ai 5 punti critici:

  • Consapevolezze di scenario: quali scenari vive la propria azienda, ad esempio, cosa accade nella distribuzione, nella ricerca, nella concorrenza, cosa accade a livello legale, tecnologico, e ad ogni altro livello che sia in grado di modificare l’ambiente in cui l’azienda opera. Sapere in quali scenari ci si muove è indispensabile per essere consapevoli della mission, in quanto la mission aziendale (come risposta ad un bisogno di mercato) si inserisce sempre in una dinamica innescata da scenari di bisogno sul mercato stesso.
  • Consapevolezza della mission e dei confini della mission: sapere quale mission ha, realmente, l’azienda per cui si opera, cosa si fa e perché, cosa non si fa e per quali motivi. Per mission si intende nel metodo ALM il senso di esistere dell’azienda, i tipi di relazione d’aiuto che l’azienda può attivare e per chi, i bisogni che può risolvere, e la sua differenzialità, distintività o unicità rispetto alle altre aziende che aspirano anch’esse a servire quei mercati.
  • Consapevolezza del valore erogabile: come l’azienda concretizza la mission in valore reale attraverso un marketing mix reale, fatto di prodotti/servizi concreti, di prezzi e listini prezzi, di condizioni di fornitura e distribuzione, di strategie promozionali e di informazione. Tutte le leve del marketing mix, nel metodo ALM, devono essere viste come apportatrici di valore. Non si parla più quindi semplicemente di marketing mix ma di value mix come patrimonio del negoziatore.

Il negoziatore deve essere consapevole di tutte le argomentazioni che può usare (consapevolezza della to-say-list) collegate agli scenari, alla mission e al value mix, e del momento in cui usarle. 

Allo stesso tempo, la consapevolezza deve riguardare la not-to-say list, l’elenco delle frasi o affermazioni che possono uccidere il valore percepito da parte della controparte.

Principio 5 – Consapevolezza della sequenza ALM e degli argomentari negoziali

Il successo della negoziazione dipende:

  • dalla consapevolezza degli scenari in cui opera l’azienda e di quelli in cui opera la controparte negoziale;
  • dalla consapevolezza dei fattori di “collimazione” tra catene del valore, che possono portare le due mission aziendali a cooperare ed interagire;
  • dalla capacità di gestire il posizionamento percettivo in termini di unicità, distintività e differenzialità rispetto agli altri soggetti in grado di servire il cliente;
  • dalla capacità di tradurre lo stato di unicità o distintività in specifiche to-say-list e not-to-say list, argomentabili e realmente difendibili.

[1] Failla, 2005.

[2]Al Najjari, Najdat e D’Ambros, Denise (2004), Tecniche e tattiche nella negoziazione internazionale: come impostare una strategia vincente. In: PMI n. 9/2004..

[3] Ibidem.

Altri materiali su Comunicazione, Formazione, Potenziale Umano, Crescita Personale e Professionale, disponibili in questi siti e link:

Altre risorse online

Per migliorare l’azione di contrasto e gestione dello stress, in chi vuole sviluppare performance e avanzare nel potenziale personale, è indispensabile localizzare alcuni tipi specifici di stress. Il modello HPM permette di far emergere alcune tipologie specifiche.

Le 6 tipologie di Stress sono ufficialmente citabili, previa citazione della fonte originale. Identificate dal dott. Daniele Trevisani in base a studi specifici su manager e atleti, sono pubblicate nel testo “Il Potenziale Umano” edito da Franco Angeli editore, Milano.

tipologie di stress - i diversi tipi di stress

Stress di tipo 1 – Stress bioenergetico (stress corporeo e fisiologico)

Riguarda la presenza di un compito o stile di vita che risulta troppo gravoso rispetto alle energie organismiche, fisiche, biologiche.

Tra questi: dormire troppo poco rispetto alle esigenze personali, alterare ripetutamente i ritmi sonno-veglia, svolgere lavori che impegnano eccessivamente alcuni apparati senza sufficiente tempo di recupero (es: apparato visivo), intasarsi di sostanze tossiche (fumo, alcool, cibi spazzatura, farmaci, smog e altro) senza valutarne le dosi e/o senza purificarsi o contrastare i “veleni” con sostanze riparanti o curative (integratori, cibo di qualità, aria sana, rigenerazione fisica).

Lo stress bioenergetico eccessivo e cronico emerge sia in casi di fatica acuta, oltre la soglia di riserva, che come forma di affaticamento cronico o fatica cronica, e va ad intaccare negativamente lo stato psicoenergetico, la volontà, la motivazione, e persino la sicurezza di sé, sino a distruggere progressivamente la salute fisica.

Stress di tipo 2 – Stress psicoenergetico (energie mentali)

Si verifica ogniqualvolta le risorse mentali necessarie sono superiori a quelle disponibili e attivabili. Tra i casi, citiamo la condizione in cui vi sia un compito da svolgere che richiede energie motivazionali superiori a quelle disponibili, ruoli che il soggetto non sente come propri, o ancora manca la linfa vitale del sostegno del gruppo, o vi sono troppe persone che drenano le energie mentali rispetto a quelle che invece apportano energie all’individuo.

Fanno parte dello stress psicoenergetico anche le crisi di ansia (timore e attivazione negativa, generalizzata o specifica per situazioni) e le crisi di senso (perdita di un riferimento o significati nel proprio orizzonte).

Ad esempio, uno studente di chirurgia che non sopporti la vista del sangue e stia studiando medicina su pressione dei genitori si sta sottoponendo a stress psicoenergetico forte. È stress andare a lavorare in un ruolo che non piace e non si sente proprio. È stress fare nel lavoro ripetutamente un’azione in cui non si crede, ad esempio, per un venditore può essere stress ascoltare il cliente, se non crede fermamente nel valore dell’empatia ai fini della vendita.

È stress psicoenergetico ogni lavoro svolto malvolentieri, ogni relazione obbligata, non voluta o desiderata, forzata, ogni situazione emotiva che non corrisponde ai desideri.

Tali situazioni sono sicuramente comuni, ma la condizione di stress si manifesta proprio nel divario tra risorse energetiche in grado di attivarsi per far fronte (almeno momentaneamente) alla situazione, e il compito stesso.

Le tecniche di training psicoenergetico possono incidere favorevolmente sulla capacità di metabolizzare gli stressor, sulla sopportazione, flessibilità, capacità di straniamento e distanziamento, capacità di contestualizzazione degli eventi, sino alla superiorità esistenziale.

Stress di tipo 3 – Micro-stress (gap di micro-competenze)

Ogni task o sfida si correla a precise micro-abilità. Quando diciamo “c’è qualcosa che mi sfugge, ma non so bene cosa” stiamo incontrando un esempio di micro-stress. Lo incontriamo anche sul piano dei gesti meccanici, quando le micro-abilità legate all’esecuzione fisica di un compito non sono sufficientemente possedute e interiorizzate. Quando succede,  l’individuo deve aumentare lo sforzo di esecuzione, consuma e assorbe più energie, a volte nemmeno questo risulta sufficiente e l’azione fallisce.

Le abilità che sono invece completamente possedute si esprimono con naturalezza, richiedono meno sforzo, e producono meno stress.

Lo stress nelle micro-competenze comprende fattori sfuggenti, micro-dettagli, imperfezioni operative, che creano un divario tra esecuzione ottimale di una performance e esecuzione reale.

È spesso il risultato di azioni formative che si fermano troppo presto rispetto alla reale esigenza.

Stress di tipo 4 – Macro-stress (stress di ruolo, stress esistenziale)

Consiste in disallineamenti nei profili professionali e di competenze, scostamenti tra proprio portfolio di competenze, ruolo atteso e ruolo ricoperto.

In azienda, si manifesta come crescente difficoltà nel dare una contribuzione reale, nella difficoltà a sviluppare risultati e generare valore.

Possiamo avere un macro-stress di competenze quando il ruolo viene cambiato senza adeguata formazione, o quando lo scenario evolve con una rapidità tale da rendere vecchio il patrimonio di conoscenza acquisito sinora.

Si verifica quindi un’obsolescenza delle competenze quando i nostri saperi diventano pressoché inutili rispetto alle esigenze nuove, attuali, mutate. Questo produce entropia delle competenze, uno stato di disordine o caos nei profili professionali.

Di forte interesse per il coaching è soprattutto individuare e intervenire sulla dinamica di entropia delle competenze, termine da noi fissato per identificare l’erosione di valore e applicabilità del proprio bagaglio professionale, quando non viene svolta “manutenzione professionale” e formazione adeguata. Se gli scenari cambiano e si rimane fermi, questo equivale ad arretrare.

In condizione di entropia, un’organizzazione perde contatto con i fattori che generano il suo valore. Ad esempio, un centro di formazione che non sa fare didattica attiva, uno studio legale che non si aggiorna sulle legislazioni, un medico che non conosce nuove forme di terapia e nuovi farmaci, un’impresa familiare che resiste all’ingresso di un modello di gestione più manageriale anche quando il modello familiare non regge più, una squadra sportiva che non fa preparazione atletica.

Stress di tipo 5 – Stress progettuale (stress legato ai goal)

Deriva dal possesso di obiettivi e goal inadeguati, e comprende sia aspetti di ipo-stimolazione che di iper-stimolazione. Gli obiettivi possono essere troppi o troppo pochi, oppure mal definiti e imprecisi. Distinguiamo:

  • stress da iper-stimolazione: deriva da goal eccessivi rispetto alle risorse individuali, goal praticamente irraggiungibili (es.: tre, quattro progetti significativi contemporanei). È spesso il frutto di un coaching poco etico che ripete alla persona messaggi del tipo “puoi dare di più, devi fare di più, tu sei un leader, risveglia il leader che è in te”, e simili, ma non si prende il tempo necessario per formare veramente la persona;
  • stress da ipostimolazione: deriva da goal assenti, insufficienti come numero o grado di sfida, obiettivi di portata non sufficiente per attivare curiosità, interesse o motivazione, o superare la noia;
  • stress da eccesso di varianze temporali nei goal: avviene quando i goal variano troppo rapidamente, “cambiano le carte in tavola”, non consentendo al soggetto di attuare quanto previsto; troppi progetti si aprono e nessuno si chiude, ci si perde, si attivano energie su progetti che poi vengono dimenticati o dispersi nel caos organizzativo;
  • stress da molteplicità nelle definizioni e attese dei referenti: accade quando più persone si attendono goal diversi dalla persona; troppe persone creano attese e pongono richieste, e il soggetto non è in grado di rispondere simultaneamente ai diversi goal, o il rispondere ad un goal crea automaticamente soddisfazione in un referente e contrasto con un altro referente;
  • stress da offuscamento dei confini dei goal: avviene quando un soggetto non ha più chiaro cosa la sua struttura o organizzazione si attenda da lui/lei, cosa costituisca un goal e cosa non lo sia, cosa verrà apprezzato e cosa non sarà apprezzato;
  • stress da mancanza di riconoscenza: deriva dalla mancata gratificazione psicologica verso chi raggiunge il goal, o attua impegno consistenze: la mancanza di riconoscimento demotiva il soggetto sia nel presente che verso l’impegno futuro;
  • stress da difficoltà di canalizzazione: difficoltà a tradurre un ideale (sogno, visione) in una sequenza di azioni concrete, goal pratici, tale che il soggetto continua per lungo tempo ad essere attivato (volontà elevata) ma non riesce a tradurre l’energia in progettualità e azione;
  • stress da dissonanza tra aspettative interne concorrenti: è uno stress psicologico molto forte in cui ci si trova nella condizione di dover rispondere a più input interni ma in modo dissonante, tale che il perseguimento di uno porti al decadimento dell’altro. Si crea una forma di concorrenza nelle aspettative interne quando l’individuo non riesce a risolvere le tensioni psicologiche sottostanti e queste continuano a macerarlo o “torturarlo”. Ad esempio, per un padre di famiglia, il caso in cui le aspettative su di lui siano duplici e contrastanti: dover portare a casa più soldi e contemporaneamente essere più presente in famiglia; per una madre di famiglia: sentire pressioni per essere produttiva e di successo e contemporaneamente più presente come moglie e madre. Per un’azienda, classicamente, dover scegliere tra investimenti e taglio di costi.

Stress di tipo 6 – Stress legato alla vision e ai valori

Distinguiamo anche in questo campo:

  • stress da hyper-visioning non canalizzato: deriva dalla costruzione di obiettivi di lungo periodo eccessivi rispetto alle risorse individuali, praticamente irraggiungibili. Lo hyper-visioning (sognare e progettare in un orizzonte temporale molto lungo, o su sfide estremamente ambiziose) è una pratica positiva quando attuata entro confini personali e manageriali adeguati, e rappresenta invece una fonte di disagio se si trasforma in “ru­minazione mentale permanente” o insoddisfazione permanente. Sognare lontano e guardare lontano è positivo. Farlo e pretendere che tutto si avveri immediatamente no. La vision parla di sogni e ambizioni, e questo è positivo, ma se non vengono fatti i conti con la realtà essi rischiano di far male. La presenza nella vision di elementi decisamente eccessivi per le risorse individuali, vissuti come castrazione permanente, riduce la motivazione anziché aumentarla; ambizioni irraggiungibili che diventano non più motivatori in back­ground (positivi) ma ossessioni o afflizioni; deve essere chiarito se un tratto di vision si considera sostanzialmente riportabile all’area dei goal (vision raggiungibile) o invece come visione puramente ispirativa;
  • stress da hypo-visioning: un vissuto permeato da una mancanza di “senso delle cose”, o “senso del perché”, mancano desideri e traguardi nobili o significativi per il sistema di valori dell’individuo. La visione del futuro è imprecisa, manca un senso del “tendere a…”, gli obiettivi personali o aziendali sono confusi, o variano continuamente, manca un “faro” nella vita, un ideale cui tendere, viene meno una linea di tendenza e si perde il senso del percorso non capendo più per chi o per cosa affaticarsi, verso cosa tendere, per cosa darsi da fare;
  • stress da incoerenza tra valori individuali e valori dell’organizzazione: il soggetto non sente di poter aderire ai valori che percepisce nella realtà aziendale o del team di cui fa parte. Ed ancora: il soggetto percepisce uno scontro o un divario tra valori iniziali a cui ha aderito nell’entrare in azienda o nell’organizzazione, e i comportamenti reali che osserva in seguito e quotidianamente;
  • stress derivante dal conflitto tra scuole di pensiero, stress da diversità delle scuole metodologiche: spesso le scuole di provenienza portano con se precise visioni dell’uomo e valori di riferimento ben consolidati, cui le persone aderiscono. In ogni organizzazione si creano confronti (positivi) o scontri (conflittuali) tra scuole di provenienza delle varie persone. Si creano anche cordate aziendali, gang, bande interne, tribù, clan, e altre dinamiche di antropologia tribale dell’organizzazione. Lo stress deriva in questo caso dal dover operare entro modelli di valori e visioni che non si sentono propri. Es.: in una clinica, quando i diversi professionisti appartengono a scuole diverse e queste non trovano convergenze, collidono sul da farsi pratico sul paziente, e il medico o terapeuta può trovarsi a dover lavorare con metodi e prassi in cui non crede. Questo accade frequentemente anche nei sistemi educativi, scuola, università, aziende, e in ogni organizzazione.

Copyright, articolo di: Dott. Daniele Trevisani dal testo “Il Potenziale Umano” edito da Franco Angeli editore, Milano.

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Per approfondire, due video di supporto

Nel primo video, un breve commento su uno dei più grandi nemici dello stress: le competenze. Le competenze, professionali, relazionali, emotive, sono un enorme antidoto allo stress, e nel modello HPM si distinguono 2 diversi tipi di competenze, micro e macro competenze. Qui il video

https://www.youtube.com/watch?v=Xsa_iWMeR2A&t=18s

Un secondo grande antidoto allo stress è chiarire la propria “vision”, i propri ancoraggi nei valori, da cui far discendere azioni concrete, progetti reali che ci tengano impegnati nel “fare positivo”.

Qui il video con alcune tracce su questi argomenti, dal metodo HPM

https://www.youtube.com/watch?v=AWkTDqZfFK4

 What do Organizations require from a Talent Management Specialist?

A selected list of skills and attitudes

  • Leadership. Effectively communicates and guides teams to complete programs and tasks and implement strategies. Embraces and drives the development of corporate professionals. Influences team to achieve defined objectives and strategies
  • Continuity. Continuously leads in progressive Talent Acquisition and Training strategies; combines traditional Talent Acquisition and Training techniques (applications, cold calls, classroom and internal promotions) with innovative strategies (social media, e-job fairs, College Forums, Closure/Merger onsite meetings, Employee Referral Programs, etc).
  • Measurement. Tracks and monitors all metrics associated with Talent Acquisition and Training develops a scorecard for weekly review with business partners and the team.
  • Executive Presence. Establishes credibility, informs and influences executive leaders
  • Training. Create training delivery standards of functional curriculum (IT, Marketing, CSA …) and build systems to ensure that property delivery mechanism meets or exceeds standards.
  • Benchmarking. Leads research initiatives to bench mark best-in-class training structures, programs and systems and introduces new practices in a systematic approach.
  • Initiative. Creates and seizes opportunities to win, even when faced with ambiguity. True passion for results.
  • Environmental Radar. Understands how to get things done and when to involve others
  • Range of Influence. Builds and leverages networks across various levels and functions
  • Internal Consulting. Analyzes needs and provides options, recommendations, and council
  • Effectiveness. Effectively manages work to meet timelines and goals
  • Problem finding. Sees around the corners. Anticipates the unexpected
  • Analytical Prowess.  Gets to the root of issues
  • Creativity. Generate new perspectives
  • Business Intelligence. Stays current. Understands how what happens in the world affects us, our marketplace and our competition
  • Entertain your Best. Demonstrates integrity, authenticity, and candor. Embraces inclusion and employee engagement
  • Outside In. Systematically seeks information on wants and needs of employees
  • Problem Resolution. Decisive and timely. Adapts with changes
  • Ability to attract. The Director of US Talent Acquisition (TA) will be responsible for developing a cohesive staffing strategy to attract and hire the best talent for Lam, ensuring consistency with the hiring and assessment processes, in line with the coherent global processes being developed, and in compliance with local laws and requirements.
  • Holistic Approach. S/he will develop holistic solutions, quantitative and qualitative, including defined goals, processes, metrics, communication plans and delivery methodology with defined hand-offs. Must be able to routinely exercise independent judgment in developing ways to achieve objectives.

Attitudes. What Talent Management requires

  • a smart, on-your-feet thinker with impeccable follow-through
  • like to create tailored solutions to everyday problems, and handle unique ones with aplomb
  • flexible, dynamic and can change in time with business
  • nimble at capturing, engaging and advancing the “secret sauce” of a company culture
  • can create learning experiences that have never existed before, and engage a diverse organization
  • love challenges and never assume you know it all
  • thrive on developing the big picture strategy and seeing it through to reality
  • balance an inexhaustible curiosity with experienced business acumen
  • read like a fiend and stay up to date on all sorts of cool leadership and management ideas
  • lead by example, relates to all walks of life, a person everyone can trust, and takes pride in setting the tone to create an awesome corporate culture environment

Estratti sul tema “Autoefficacia e Resilienza” dal volume “Il Potenziale Umano di Daniele Trevisani,Studio Trevisani, Franco Angeli editore, Copyright

Senso di autoefficacia

Se credo di poterlo fare,

acquisirò sicuramente la capacità di farlo,

anche se all’inizio non dovessi averla

Mahatma Gandhi

L’autoefficacia è un concetto che fa riferimento al “senso delle proprie possibilità”. La coscienza di ciò che è veramente nella sfera delle nostre possibilità e quello che non lo è in un certo momento, ci permette di fare letture corrette della situazione e dei compiti che ci attendono, senza cadere vittima di demoralizzazione precoce o inutile.

Bandura[1], sviluppatore del concetto sul piano scientifico, considera che l’autoefficacia percepita sia un insieme di credenze che le persone possiedono rispetto alle loro capacità di produrre livelli designati di performance specifiche (non generali), esercitare influenza sugli eventi e sulle proprie vite.

Include, inoltre, l’atteggiamento positivo verso la capacità di raccogliere sfide o porsi nuove sfide.

Nel nostro metodo, riteniamo che l’autoefficacia dipenda largamente dall’autostima ma anche dalla consapevolezza corretta, non distorta, dei repertori di esperienze e competenze possedute e di ciò che con quei repertori possiamo fare. Spesso queste possibilità sono enormi e inesplorate.

L’autoefficacia produce il fatto di non abbandonare di fronte a punti d’arresto, perseverare (resilienza),  lavorando per ottimizzare i propri progetti, consapevoli della forza intrinseca che essi possono avere.

Come evidenziato in un articolo del Wall Street Journal, in un brano dal titolo illuminante: “Se all’inizio non hai successo, sei in una azienda eccellente”, i veri successi sono spesso preceduti da dinieghi o porte chiuse[2].

Tra i casi citati: il libro di J. K. Rowling rifiutato da 12 editori prima che una piccola casa editrice londinese lo pubblicasse come “Harry Potter e la Pietra Filosofale”, un successo mondiale. La Decca Records che, in uno dei primi provini dei Beatles, disse “non ci piace il loro suono”. Walt Disney fu licenziato da un editor di un giornale, dicendo che egli “mancava di immaginazione.” Michael Jordan (il più grande giocatore di basket della storia) non venne considerato da ragazzino all’altezza del team di basket della sua scuola superiore.

Senza una sana dose di autoefficacia e di resilienza, queste persone avrebbero abbandonato la propria strada.

L’autoefficacia richiede la consapevolezza dei propri strumenti operativi (tools funzionali) e dei propri strumenti analitici e conoscitivi di base (meta-strumenti). Sapere di poter imparare vale più della conoscenza in sé.

Se diminuisce la percezione di disporre di tali strumenti, prevalgono atteggiamenti di rinuncia, la continua richiesta di aiuto anche su ciò che è invece nel nostro campo di fattibilità, l’immagine di “non essere ancora pronto per…”, o il sentimento negativo “non fa per me, e non ci posso nemmeno provare, o prepararmi per…”.

L’autoefficacia richiede un certo grado di accettazione ragionata del rischio e la consapevolezza che – per molti task – non è indispensabile la perfezione prima di poter passare all’azione. Spesso è sufficiente una dose di comprensione (attuale o potenziale) della materia, un buon spirito di adattamento e una buona capacità generale di problem solving, per poter affrontare larga parte dei problemi o sfide manageriali, sportive, o personali.

La consapevolezza delle proprie meta-competenze è un punto basilare.

Non è necessario avere già fatto qualcosa per sentire di poterlo fare, ma è indispensabile avere coscienza della propria capacità di generare soluzioni, di analizzare problemi, di comprendere dinamiche, e sapere di poter apprendere. Questi meta-fattori aiutano ad accettare anche sfide e compiti sui quali non esiste ancora esperienza specifica diretta o consolidata.

L’autoefficacia non deve diventare sensazione di onnipotenza o delirio, va dovutamente bilanciata con la saggezza e senso pratico, ma questi ancoraggi al realismo non devono impedire di perseguire un sogno difficile che abbia qualche probabilità di successo. La paura di fallire o incontrare difficoltà non deve fermare aspirazioni giuste e sogni sfidanti.

Il caso di un docente cui viene chiesto di fare una lezione su temi non esattamente pertinenti alla propria formazione, ma vicini, è un esempio concreto. La flessibilità mentale è un fattore vincente.

Un docente che insegna statistica ed ha basso livello di autoefficacia non accetterà di insegnare una materia come la Qualità Totale (trovandovi molte differenze rispetto alla propria), mentre al contrario sarebbe assolutamente fattibile. Tale materia è ampiamente basata su metodi statistici. Aumentando l’autoefficacia, la stessa persona potrà lanciarsi verso l’insegnamento di Qualità Totale, ma anche altro, es.: Metodi di Ricerca, sapendo di avere sia una buona base e soprattutto le capacità di apprendimento che servono per poter acquisire ciò che manca.

In sostanza, quel docente conosce già almeno il 90% di un possibile programma, e sa che potrà apprendere il rimanente 10% con poco sforzo. Un individuo con bassa autoefficacia si concentrerà sul 10% da apprendere e sul come apprenderlo, un individuo con bassa autoefficacia lo vedrà come “quel 10% che manca, per cui non si può fare”. Una differenza notevole!

Lo stesso vale per un istruttore di karatè cui viene richiesto di insegnare difesa personale. Un istruttore con alto livello di autoefficacia capirà immediatamente che le sue skill di base sono ampiamente sufficienti ad insegnare a qualcuno come difendersi, e se percepisce una lacuna nel suo set di conoscenze si adopererà per colmarla. Un istruttore con basso livello di autoefficacia coglierà ogni possibile “scusa” per non farlo: “non è la mia materia”, “non so come si faccia”, “non sono preparato” etc.

Un’alta autoefficacia è basata sull’orientamento a cogliere, in ogni sfida, ciò che è fattibile, ciò che è realizzabile o quantomeno tentabile, e la ricerca autonoma di strumenti per colmare le eventuali carenze.

Una bassa autoefficacia vede la dominanza di un orientamento a cogliere la parte negativa della sfida, la concentrazione prevalente sulle proprie lacune e non sulle proprie possibilità, l’assenza di sforzi per dotarsi di strumenti ulteriori che permetterebbero di sentirsi all’altezza.

Allo stesso tempo, l’autoefficacia si correla alla consapevolezza di dove, quanto e come siamo in grado di potercela fare da soli. Questo punto (indipendenza e autonomia) non deve essere confuso con una chiusura verso l’esterno e verso l’aiuto. Autoefficacia anzi significa anche capire e volere l’aiuto che serve a compiere un progetto, ma con una consapevolezza di dove realmente si colloca il confine delle proprie capacità autonome e dove è importante ricercare aiuto. Coltivare coscienza di sé è fondamentale.

Le persone che sviluppano un alto livello di autoefficacia hanno credenze positive sulle loro capacità di raggiungere i goal, accettano sfide superiori, e provano con maggiore forza e impegno a raggiungere i loro obiettivi, dando il massimo delle loro capacità.

Chi ha una alta autoefficacia, pensa, agisce e affronta una sfida come se stia per avere successo. Chi ha bassa auto efficacia intraprende la sfida dandosi per perdente dall’inizio.

Diventa essenziale per ogni coach o counselor capire a quali modelli di autoefficacia sia stata esposta una persona, quali abbia assimilato, quali siano attivi, e soprattutto se vi siano dissonanze interiori o modeling negativi da fonte genitoriale o sociale, attivi sulla persona.

Alcune domande chiave da porsi o da porre in termini di coaching:

q  Che desideri stai frenando per colpa di competenze che ti mancano?

q  In quali campi ti senti efficace e in quali meno?

q  Guardandoti indietro, cosa tenteresti adesso? Quali progetti, idee o ambizioni hai frenato perché non ti consideravi all’altezza?

q  Guardando avanti, cosa ti darebbe soddisfazione, cosa vorresti dire di aver fatto tra 10 anni?

q  Di cosa ti pentiresti se dovessi pensare di morire senza aver fatto qualcosa cui tieni? Cosa in particolare?

q  Cosa vorresti poter dire di aver fatto di buono, la prossima settimana?

q  Facciamo un elenco di idee o progetti anche ambiziosi che ti darebbero gratificazione, sogniamo ad occhi aperti per un pò.

q  Se dovessimo pensare ad una tua giornata ideale, come sarebbe?

q  In un anno ideale, cosa faresti?

q  Quanto siamo lontani adesso da (… sentirsi bene, sentirsi felici, sentirsi gratificati, aver raggiunto i tuoi scopi, etc…), e perché secondo te?

Nell’osservare i propri ragionamenti, o quelli di un cliente, ci si potrà concentrare non solo sui contenuti, ma anche sul senso generale di possibilità, di autoefficacia, di padronanza, sulle auto-percezioni, sulle credenze che trasudano, sugli archetipi di sè che emergono, sullo spirito di avventura e ricerca, o invece di rinuncia e disfattismo che permeano la persona. Su questi sarà importante lavorare seriamente, ancor più che sui contenuti.

Principio 7 – Autoefficacia

Le energie mentali diminuiscono o si esauriscono quando:

  • l’individuo non è consapevole delle proprie potenzialità reali;
  • l’individuo non è consapevole di come le proprie meta-competenze possano trasformarsi in competenze applicative su nuovi compiti;
  • l’individuo coglie prevalentemente gli aspetti di difficoltà di una sfida e non quelli di fattibilità;
  • l’individuo non si attiva in una ricerca autonoma di strumenti per colmare i propri gaps percepiti;
  • l’individuo sviluppa eccessiva dipendenza sugli altri per portare a termine un compito e non sa contare sulle proprie forze interiori, o percepirle correttamente.

Le energie mentali aumentano quando:

  • l’individuo prende coscienza delle proprie potenzialità, sia teoriche, che per prova diretta;
  • l’individuo prende coscienza delle proprie meta-competenze e della possibilità di tradurle in competenze applicative in campi nuovi;
  • l’individuo tiene in considerazione i margini di fattibilità di una sfida e non solo quelli di difficoltà, applicandosi per aumentare le opzioni positive;
  • l’individuo è proattivo e si adopera attivamente in interventi che aumentano le proprie risorse o colmano gap, e in progetti di apprendimento e accrescimento;
  • l’individuo ha pieno accesso alla proprie forze interiori, sa individuare bene quante e quali sono le proprie energie, competenze e abilità.

[1] Bandura, A. (1994), Self-efficacy, in V. S. Ramachaudran (Ed.), Encyclopedia of human behavior (vol. 4, pp. 71-81), Academic Press, New York (Reprinted in H. Friedman [Ed.], Encyclopedia of mental health, San Diego, Academic Press, 1998).

Bandura, A. (1986), Social foundations of thought and action: A social cognitive theory, Englewood Cliffs, NJ, Prentice-Hall.

Bandura, A. (1991a), Self-efficacy mechanism in physiological activation and health-promoting behavior, in J. Madden, IV (Ed.), Neurobiology of learning, emotion and affect (pp. 229- 270), Raven, New York.

Bandura, A. (1991b), Self-regulation of motivation through anticipatory and self-regulatory mechanisms, in R. A. Dienstbier (Ed.), Perspectives on motivation: Nebraska symposium on motivation (Vol. 38, pp. 69-164), University of Nebraska Press, Lincoln.

[2] Beck, M. (2008), If at First You Don’t Succeed, You’re in Excellent Company, The Wall Street Journal, April 29, p. D1.

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Estratti sul tema “Autoefficacia e Resilienza” dal volume “Il Potenziale Umano di Daniele Trevisani,Studio Trevisani, Franco Angeli editore, Copyright