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Per migliorare l’azione di contrasto e gestione dello stress, in chi vuole sviluppare performance e avanzare nel potenziale personale, è indispensabile localizzare alcuni tipi specifici di stress. Il modello HPM permette di far emergere alcune tipologie specifiche.

Le 6 tipologie di Stress sono ufficialmente citabili, previa citazione della fonte originale. Identificate dal dott. Daniele Trevisani in base a studi specifici su manager e atleti, sono pubblicate nel testo “Il Potenziale Umano” edito da Franco Angeli editore, Milano.

tipologie di stress - i diversi tipi di stress

Stress di tipo 1 – Stress bioenergetico (stress corporeo e fisiologico)

Riguarda la presenza di un compito o stile di vita che risulta troppo gravoso rispetto alle energie organismiche, fisiche, biologiche.

Tra questi: dormire troppo poco rispetto alle esigenze personali, alterare ripetutamente i ritmi sonno-veglia, svolgere lavori che impegnano eccessivamente alcuni apparati senza sufficiente tempo di recupero (es: apparato visivo), intasarsi di sostanze tossiche (fumo, alcool, cibi spazzatura, farmaci, smog e altro) senza valutarne le dosi e/o senza purificarsi o contrastare i “veleni” con sostanze riparanti o curative (integratori, cibo di qualità, aria sana, rigenerazione fisica).

Lo stress bioenergetico eccessivo e cronico emerge sia in casi di fatica acuta, oltre la soglia di riserva, che come forma di affaticamento cronico o fatica cronica, e va ad intaccare negativamente lo stato psicoenergetico, la volontà, la motivazione, e persino la sicurezza di sé, sino a distruggere progressivamente la salute fisica.

Stress di tipo 2 – Stress psicoenergetico (energie mentali)

Si verifica ogniqualvolta le risorse mentali necessarie sono superiori a quelle disponibili e attivabili. Tra i casi, citiamo la condizione in cui vi sia un compito da svolgere che richiede energie motivazionali superiori a quelle disponibili, ruoli che il soggetto non sente come propri, o ancora manca la linfa vitale del sostegno del gruppo, o vi sono troppe persone che drenano le energie mentali rispetto a quelle che invece apportano energie all’individuo.

Fanno parte dello stress psicoenergetico anche le crisi di ansia (timore e attivazione negativa, generalizzata o specifica per situazioni) e le crisi di senso (perdita di un riferimento o significati nel proprio orizzonte).

Ad esempio, uno studente di chirurgia che non sopporti la vista del sangue e stia studiando medicina su pressione dei genitori si sta sottoponendo a stress psicoenergetico forte. È stress andare a lavorare in un ruolo che non piace e non si sente proprio. È stress fare nel lavoro ripetutamente un’azione in cui non si crede, ad esempio, per un venditore può essere stress ascoltare il cliente, se non crede fermamente nel valore dell’empatia ai fini della vendita.

È stress psicoenergetico ogni lavoro svolto malvolentieri, ogni relazione obbligata, non voluta o desiderata, forzata, ogni situazione emotiva che non corrisponde ai desideri.

Tali situazioni sono sicuramente comuni, ma la condizione di stress si manifesta proprio nel divario tra risorse energetiche in grado di attivarsi per far fronte (almeno momentaneamente) alla situazione, e il compito stesso.

Le tecniche di training psicoenergetico possono incidere favorevolmente sulla capacità di metabolizzare gli stressor, sulla sopportazione, flessibilità, capacità di straniamento e distanziamento, capacità di contestualizzazione degli eventi, sino alla superiorità esistenziale.

Stress di tipo 3 – Micro-stress (gap di micro-competenze)

Ogni task o sfida si correla a precise micro-abilità. Quando diciamo “c’è qualcosa che mi sfugge, ma non so bene cosa” stiamo incontrando un esempio di micro-stress. Lo incontriamo anche sul piano dei gesti meccanici, quando le micro-abilità legate all’esecuzione fisica di un compito non sono sufficientemente possedute e interiorizzate. Quando succede,  l’individuo deve aumentare lo sforzo di esecuzione, consuma e assorbe più energie, a volte nemmeno questo risulta sufficiente e l’azione fallisce.

Le abilità che sono invece completamente possedute si esprimono con naturalezza, richiedono meno sforzo, e producono meno stress.

Lo stress nelle micro-competenze comprende fattori sfuggenti, micro-dettagli, imperfezioni operative, che creano un divario tra esecuzione ottimale di una performance e esecuzione reale.

È spesso il risultato di azioni formative che si fermano troppo presto rispetto alla reale esigenza.

Stress di tipo 4 – Macro-stress (stress di ruolo, stress esistenziale)

Consiste in disallineamenti nei profili professionali e di competenze, scostamenti tra proprio portfolio di competenze, ruolo atteso e ruolo ricoperto.

In azienda, si manifesta come crescente difficoltà nel dare una contribuzione reale, nella difficoltà a sviluppare risultati e generare valore.

Possiamo avere un macro-stress di competenze quando il ruolo viene cambiato senza adeguata formazione, o quando lo scenario evolve con una rapidità tale da rendere vecchio il patrimonio di conoscenza acquisito sinora.

Si verifica quindi un’obsolescenza delle competenze quando i nostri saperi diventano pressoché inutili rispetto alle esigenze nuove, attuali, mutate. Questo produce entropia delle competenze, uno stato di disordine o caos nei profili professionali.

Di forte interesse per il coaching è soprattutto individuare e intervenire sulla dinamica di entropia delle competenze, termine da noi fissato per identificare l’erosione di valore e applicabilità del proprio bagaglio professionale, quando non viene svolta “manutenzione professionale” e formazione adeguata. Se gli scenari cambiano e si rimane fermi, questo equivale ad arretrare.

In condizione di entropia, un’organizzazione perde contatto con i fattori che generano il suo valore. Ad esempio, un centro di formazione che non sa fare didattica attiva, uno studio legale che non si aggiorna sulle legislazioni, un medico che non conosce nuove forme di terapia e nuovi farmaci, un’impresa familiare che resiste all’ingresso di un modello di gestione più manageriale anche quando il modello familiare non regge più, una squadra sportiva che non fa preparazione atletica.

Stress di tipo 5 – Stress progettuale (stress legato ai goal)

Deriva dal possesso di obiettivi e goal inadeguati, e comprende sia aspetti di ipo-stimolazione che di iper-stimolazione. Gli obiettivi possono essere troppi o troppo pochi, oppure mal definiti e imprecisi. Distinguiamo:

  • stress da iper-stimolazione: deriva da goal eccessivi rispetto alle risorse individuali, goal praticamente irraggiungibili (es.: tre, quattro progetti significativi contemporanei). È spesso il frutto di un coaching poco etico che ripete alla persona messaggi del tipo “puoi dare di più, devi fare di più, tu sei un leader, risveglia il leader che è in te”, e simili, ma non si prende il tempo necessario per formare veramente la persona;
  • stress da ipostimolazione: deriva da goal assenti, insufficienti come numero o grado di sfida, obiettivi di portata non sufficiente per attivare curiosità, interesse o motivazione, o superare la noia;
  • stress da eccesso di varianze temporali nei goal: avviene quando i goal variano troppo rapidamente, “cambiano le carte in tavola”, non consentendo al soggetto di attuare quanto previsto; troppi progetti si aprono e nessuno si chiude, ci si perde, si attivano energie su progetti che poi vengono dimenticati o dispersi nel caos organizzativo;
  • stress da molteplicità nelle definizioni e attese dei referenti: accade quando più persone si attendono goal diversi dalla persona; troppe persone creano attese e pongono richieste, e il soggetto non è in grado di rispondere simultaneamente ai diversi goal, o il rispondere ad un goal crea automaticamente soddisfazione in un referente e contrasto con un altro referente;
  • stress da offuscamento dei confini dei goal: avviene quando un soggetto non ha più chiaro cosa la sua struttura o organizzazione si attenda da lui/lei, cosa costituisca un goal e cosa non lo sia, cosa verrà apprezzato e cosa non sarà apprezzato;
  • stress da mancanza di riconoscenza: deriva dalla mancata gratificazione psicologica verso chi raggiunge il goal, o attua impegno consistenze: la mancanza di riconoscimento demotiva il soggetto sia nel presente che verso l’impegno futuro;
  • stress da difficoltà di canalizzazione: difficoltà a tradurre un ideale (sogno, visione) in una sequenza di azioni concrete, goal pratici, tale che il soggetto continua per lungo tempo ad essere attivato (volontà elevata) ma non riesce a tradurre l’energia in progettualità e azione;
  • stress da dissonanza tra aspettative interne concorrenti: è uno stress psicologico molto forte in cui ci si trova nella condizione di dover rispondere a più input interni ma in modo dissonante, tale che il perseguimento di uno porti al decadimento dell’altro. Si crea una forma di concorrenza nelle aspettative interne quando l’individuo non riesce a risolvere le tensioni psicologiche sottostanti e queste continuano a macerarlo o “torturarlo”. Ad esempio, per un padre di famiglia, il caso in cui le aspettative su di lui siano duplici e contrastanti: dover portare a casa più soldi e contemporaneamente essere più presente in famiglia; per una madre di famiglia: sentire pressioni per essere produttiva e di successo e contemporaneamente più presente come moglie e madre. Per un’azienda, classicamente, dover scegliere tra investimenti e taglio di costi.

Stress di tipo 6 – Stress legato alla vision e ai valori

Distinguiamo anche in questo campo:

  • stress da hyper-visioning non canalizzato: deriva dalla costruzione di obiettivi di lungo periodo eccessivi rispetto alle risorse individuali, praticamente irraggiungibili. Lo hyper-visioning (sognare e progettare in un orizzonte temporale molto lungo, o su sfide estremamente ambiziose) è una pratica positiva quando attuata entro confini personali e manageriali adeguati, e rappresenta invece una fonte di disagio se si trasforma in “ru­minazione mentale permanente” o insoddisfazione permanente. Sognare lontano e guardare lontano è positivo. Farlo e pretendere che tutto si avveri immediatamente no. La vision parla di sogni e ambizioni, e questo è positivo, ma se non vengono fatti i conti con la realtà essi rischiano di far male. La presenza nella vision di elementi decisamente eccessivi per le risorse individuali, vissuti come castrazione permanente, riduce la motivazione anziché aumentarla; ambizioni irraggiungibili che diventano non più motivatori in back­ground (positivi) ma ossessioni o afflizioni; deve essere chiarito se un tratto di vision si considera sostanzialmente riportabile all’area dei goal (vision raggiungibile) o invece come visione puramente ispirativa;
  • stress da hypo-visioning: un vissuto permeato da una mancanza di “senso delle cose”, o “senso del perché”, mancano desideri e traguardi nobili o significativi per il sistema di valori dell’individuo. La visione del futuro è imprecisa, manca un senso del “tendere a…”, gli obiettivi personali o aziendali sono confusi, o variano continuamente, manca un “faro” nella vita, un ideale cui tendere, viene meno una linea di tendenza e si perde il senso del percorso non capendo più per chi o per cosa affaticarsi, verso cosa tendere, per cosa darsi da fare;
  • stress da incoerenza tra valori individuali e valori dell’organizzazione: il soggetto non sente di poter aderire ai valori che percepisce nella realtà aziendale o del team di cui fa parte. Ed ancora: il soggetto percepisce uno scontro o un divario tra valori iniziali a cui ha aderito nell’entrare in azienda o nell’organizzazione, e i comportamenti reali che osserva in seguito e quotidianamente;
  • stress derivante dal conflitto tra scuole di pensiero, stress da diversità delle scuole metodologiche: spesso le scuole di provenienza portano con se precise visioni dell’uomo e valori di riferimento ben consolidati, cui le persone aderiscono. In ogni organizzazione si creano confronti (positivi) o scontri (conflittuali) tra scuole di provenienza delle varie persone. Si creano anche cordate aziendali, gang, bande interne, tribù, clan, e altre dinamiche di antropologia tribale dell’organizzazione. Lo stress deriva in questo caso dal dover operare entro modelli di valori e visioni che non si sentono propri. Es.: in una clinica, quando i diversi professionisti appartengono a scuole diverse e queste non trovano convergenze, collidono sul da farsi pratico sul paziente, e il medico o terapeuta può trovarsi a dover lavorare con metodi e prassi in cui non crede. Questo accade frequentemente anche nei sistemi educativi, scuola, università, aziende, e in ogni organizzazione.

Copyright, articolo di: Dott. Daniele Trevisani dal testo “Il Potenziale Umano” edito da Franco Angeli editore, Milano.

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Per approfondire, due video di supporto

Nel primo video, un breve commento su uno dei più grandi nemici dello stress: le competenze. Le competenze, professionali, relazionali, emotive, sono un enorme antidoto allo stress, e nel modello HPM si distinguono 2 diversi tipi di competenze, micro e macro competenze. Qui il video

https://www.youtube.com/watch?v=Xsa_iWMeR2A&t=18s

Un secondo grande antidoto allo stress è chiarire la propria “vision”, i propri ancoraggi nei valori, da cui far discendere azioni concrete, progetti reali che ci tengano impegnati nel “fare positivo”.

Qui il video con alcune tracce su questi argomenti, dal metodo HPM

https://www.youtube.com/watch?v=AWkTDqZfFK4

chackra comunicazione emozioni

copyright Dott. Daniele Trevisani. Anteprime dal libro in produzione:

Life Coaching e Psicologia della Libertà

L’approccio olistico ai Percorsi di Crescita Personale

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È utile fare un riassunto metodologico del metodo HPM, che è alla base del nostro lavoro sul potenziale umano.

Prendiamo una prestazione o risultato. Uno qualsiasi. Un goal aziendale o sportivo, personale o di team. L’approccio olistico ci chiede di prestare attenzione a tante componenti, che nel modello HPM (Human Potential Modeling) riassumiamo in 6 grandi fattori:

Figura 10 – Le parole chiave del metodo HPM

HPM ModelTM, Copyright Dr. Daniele Trevisani www.danieletrevisani.com

Vision

Valori
Stato bioenergetico
Stato psicoenergetico
Micro Skills
Macro-Skills
Progetto

Goals
Lavoro sulle Energie Personali
Lavoro sulle Competenze
Crescita Personale
Lavoro sulla Direzionalità

Cosa significano queste “parole” per te e nella tua organizzazione?

Qui una possibile articolazione di base, ricordando che ogni organizzazione e ogni persona deve trovare la propria “via” per dare spessore e concretezza a queste parole.

  1. Fattore bioenergetico: che energie fisiche sono richieste per questa prestazione? Forza, potenza, resistenza, concentrazione mentale, attenzione? Mai sottovalutare la dimensione corporea di una prestazione, soprattutto di quelle intellettuali o la possibilità di elevare gli stati spirituali con il supporto del corpo.
  2. Fattore psicoenergetico: le energie della motivazione, la liberazione da ansia e tensioni inutili, capacità di liberarsi da emozioni parassite e controproducenti, il sentire l’attivazione in sè e il volere fortemente realizzare idee o azioni.
  3. Fattore delle macro-competenze: conoscere, conoscere quanto serve, avere fatto l’esperienza allenante e di studio che permette di padroneggiare un campo di azione e anche le sue zone limitrofe.
  4. Fattore delle micro-competenze: saper cogliere i dettagli che sfuggono ai più, saper fare l’introspezione necessaria sui processi mentali, anche minuziosi, che avvengono durante una prestazione. Saper inquadrare i dettagli comportamentali che faranno di una prestazione qualcosa di speciale.
  5. Fattore della progettualità: saper individuare “quando fare, cosa, in che sequenza”, e altri aspetti molto pratici di una prestazione. Organizzare risorse, stendere su carta un’idea sotto forma di passi da compiere, sviluppare ipotesi di linee di azione da intraprendere.
  6. Fattore dei valori e ideali: per cosa lo fai? Cosa c’è dietro? Ci credi veramente in quanto stai facendo o sei obbligato da qualcosa, quanto è volontà e quanto è necessità? Quanto più un’azione è centrata rispetto alle nostre credenze più profonde, tanto più sarà forte la nostra concentrazione e attivazione. Ma non basta fermarsi ai valori attuali e allo stato spirituale attuale. Tutti possono trovare nuovi valori, accrescerli, liberarsi da valori e credenze false, trovare i propri “ancoraggi spirituali forti” in un punto di esistenza più alto, e questo è un fattore assolutamente determinante per la prestazione e la vita.

Usare un approccio olistico significa applicarsi a tutti questi campi. E più si sale più si entra nel mondo dell’intangibile.

Ogni prestazione che si ancora ad un piano di valori forte e in cui la persona crede possiede un fattore di potenza superiore. La stessa differenza che si potrebbe trovare tra chi solleva un peso annoiato in un’ora di palestra obbligata, e chi cerca ogni fibra muscolare e anche oltre, per sollevare e salvare una persona imprigionata da un tronco.

E per quanto faremo, avremo sempre da imparare.

L’approccio olistico guarda anche ai contributi che le persone portano, non solo al risultato finale.

Quanto ci hai messo “di tuo” e quanto è frutto di altri? Quanto è frutto di forza e quanto di strategia mentale?

Queste sono alcune delle domande chiave da porsi per ogni risultato che produciamo o che osserviamo.

  • Cosa devo metterci di mio?
  • In cosa posso farmi aiutare da altri per accelerare il processo?
  • Quali reti di relazione possono nutrire la mia motivazione e il mio progetto?
  • Dove, in che sedi, posso ancora imparare qualcosa che amo o mi serve?

Fare networking sano è essenziale.

Chi rifiuta un aiuto esterno, o non lo cerca nemmeno, per capire dove può ancora crescere, ha perso grandi opportunità.

La Visione olistica cerca di distinguere la componente “hard” di una prestazione da quella mentale o “soft”. Guarda poi al differenziale tra contributo individuale e motivazionale che la persona ha sviluppato e lo depura da quanto ha ricevuto in dono e non è merito suo.

Il Comandante della nave non deve mai dimenticare di ringraziare l’equipaggio, e per tracciare una rotta deve avere strumenti.

Dobbiamo assolutamente distinguere tra chi ha tante risorse esterne e chi non ne ha. Troppo facile vincere una gara quando si ha la macchina migliore di tutti. La differenza si misura tra due piloti che hanno la stessa identica auto.

Nessuno deve sentirsi inferiore verso chi ha ricevuto un migliore patrimonio genetico o finanziario. Piuttosto, è bene pensarsi in termini di “quanto” si riesce a muovere e produrre con i propri sforzi generativi, pensare a “cosa” e “verso cosa” vanno i nostri sforzi e le nostre energie migliori.

I risultati, soprattutto quando questi sono svolti in contesti e ambienti sfavorevoli, dipendono in larga misura dalle risorse psicologiche che una persona sa attivare.

Facile laurearsi se si è figli di professori universitari, molto meno per chi viene da un ghetto.

In condizioni sfavorevoli, produrre utilità, fare del bene, dare contributi, è ancora di più una vera performance.

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Anteprima dal libro in preparazione, HPM ModelTM, Copyright Dr. Daniele Trevisani www.danieletrevisani.com

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Riflessioni e spunti per la formazione aziendale, il coaching e i percorsi di sviluppo, tratti dal volume “Il Potenziale Umano” di Daniele Trevisani
  1. Energie e competenze sono importanti, ma senza passione, senza il motore di una causa nobile, tutto è inutile. Il tuo team, e ogni persona del team, deve distinguere il valore della vostra missione.
  2. Tante persone sono come auto pronte al via, ma con il parabrezza talmente sporco da non consentire di vedere “verso dove”, andiamo. Auto senza un guidatore, viandanti senza una meta e senza un perché.
  3.  Occorre stimolare e riscoprire gli ancoraggi profondi ai valori, e ad una causa, la sacralità di una missione, persino la sacralità dell’esistenza.
  4. Le performance, le nostre giornate, le nostre ore, sono piene di atti vuoti o sono ancorati ad un disegno superiore? Esiste una “spiritualità” delle performance o del fare, un “fuoco sacro” che alimenta energie e motivazione?
  5. Diamo un senso a quello che facciamo? Ci proviamo? Possiamo cogliere un motivo denso di significato?
  6. Anche la non-azione (come la meditazione) può essere piena di valore, così come un progetto aziendale o sportivo.
  7. Credere in quello che si fa è determinante per l’auto-immagine. Se ci sentiamo inutili venditori di fumo non andremo mai da nessuna parte. Se troviamo invece il modo di essere di aiuto a qualcuno, di dare senso, o di lottare per qualcosa, diventiamo pieni di forze.
  8. Ancorare l’azione ad ideali significa riconoscere il bisogno di esistere per un fine. Le performance sono destinate a svanire nell’istante, mentre invece una causa è eterna.
  9. Vi sono persone e atleti che sperimentano il contatto con una realtà superiore ogni volta che entrano nelle quattro mura di una palestra o di un Dojo, e sanno che il loro allenamento sarà una forma di preghiera e di contatto con il proprio Dio, o anche solo con le forze primordiali della natura. Lo stesso può accadere nell’impegnarsi in un progetto sociale, aziendale o personale.
  10. Quando questo collegamento denso di valori, mistico o sacro, accade, le energie si sprigionano, i miracoli sono dietro l’angolo.

Nessuna operazione di un team arriverà mai al successo se non si accende il motore del “fuoco sacro” che lo alimenta.
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Di Daniele Trevisani – Fulbright Scholar, Formatore, Sensei 8° Dan Sistema Daoshi, Gruppo Facebook Praticanti di Arti Marziali e Sport di Combattimento in Italia

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© Articolo elaborato dall’autore, con modifiche, dal volume “Il Potenziale Umano” di Daniele Trevisani, Franco Angeli editore, Milano. Approfondimenti del volume originario sono disponibili anche al link www.studiotrevisani.it/hpm2 – Questo articolo può essere copiato e riprodotto su siti web autorizzati, previa richiesta all’autore, purché sia mantenuta la citazione come segue: Articolo a cura di Daniele Trevisani, www.studiotrevisani.it – Non sono ammesse modifiche al testo non autorizzate.

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Inquadrare e saper affrontare le diverse tipologie di stress

Chi pratica arti marziali e sport di combattimento è certamente sottoposto a stimoli fisici e mentali che pochi altri conoscono. Questi stimoli intensi e ripetuti – che per altri sarebbero nemmeno immaginabili – diventano per i praticanti una pratica quotidiana, e fonte di nutrimento.

Dobbiamo però capire quando e come uno stimolo sfora nella zona dello stress distruttivo e quando invece fa bene alla crescita.

Lo stress è una relazione dinamica tra (1) compiti, stimoli, carichi, input, situazioni da affrontare, task e (2) livelli di energia (fisica e mentale) disponibili nell’individuo per fronteggiare questi input.

Nell’accezione comune, lo stress viene rappresentato come un disagio, una fatica difficile da superare serenamente.

Per un soggetto in stato di deprivazione ed energie ridotte, può essere stressante anche alzarsi dal letto per prendere una medicina. Per un soggetto dotato di energie elevate, può essere persino divertente combattere su un ring per due ore consecutive, o svolgere una negoziazione pressante e difficile, vedendola né più né meno come una bellissima occasione di sperimentazione, di esperienza, un esercizio piacevole, un’occasione di apprendimento.

Le energie mentali non sono stimolate ma anzi esaurite dal pensiero stesso di intraprendere azioni che fuoriescono completamente dalle proprie possibilità. Anche negli sport estremi, chi li affronta sa di avere una chance, si allena per fronteggiare l’estremo, si prepara.

Tra le varie forme di stress, lo stress emotivo è tra i più pericolosi in quanto non produce segnali evidenti come lo stress fisico.

La fragilità emotiva, unita a stress emotivo, produce danni enormi.

Principio 3 – Stress management ed energie mentali

Le energie mentali diminuiscono o si esauriscono quando:

  • l’individuo intraprendere azioni che superano le proprie energie totali disponibili, per troppo tempo, e senza recupero adeguato;
  • l’individuo non impiega tempo e progetti all’interno della area di sfida, chiudendosi progressivamente;
  • l’individuo non trascorre tempo sufficiente all’interno dell’area di comfort al fine di ricaricarsi e metabolizzare gli stressor;
  • gli stressor sono di natura forte (per intensità, durata e ripetitività) tale da ledere la tenuta e la capacità di recupero, e l’individuo li affronta da solo, senza supporto emotivo e relazionale adeguato.

Le energie mentali aumentano quando:

  • l’individuo intraprende azioni e sforzi correlati alle energie disponibili;
  • vengono avviati progetti e iniziative nell’area di sfida, con spirito positivo;
  • tempo e modalità del recupero e della ricarica di energie sono adeguati;
  • l’individuo ha supporto emotivo e relazionale per affrontare lo stress.

Per migliorare l’azione di contrasto e gestione dello stress, in chi vuole sviluppare performance e avanzare nel potenziale personale, è indispensabile localizzare alcuni tipi specifici di stress. Il modello HPM permette di far emergere alcune tipologie specifiche.

1 – Stress bioenergetico (stress fisico)

Riguarda la presenza di un compito o stile di vita che risulta troppo gravoso rispetto alle energie organismiche, fisiche, biologiche.

Tra questi: dormire troppo poco rispetto alle esigenze personali, alterare ripetutamente i ritmi sonno-veglia, svolgere lavori che impegnano eccessivamente alcuni apparati senza sufficiente tempo di recupero (es: apparato visivo), intasarsi di sostanze tossiche (fumo, alcool, cibi spazzatura, farmaci, smog e altro) senza valutarne le dosi e/o senza purificarsi o contrastare i “veleni” con sostanze riparanti o curative (integratori, cibo di qualità, aria sana, rigenerazione fisica).

Lo stress bioenergetico eccessivo e cronico emerge sia in casi di fatica acuta, oltre la soglia di riserva, che come forma di affaticamento cronico o fatica cronica, e va ad intaccare negativamente lo stato psicoenergetico, la volontà, la motivazione, e persino la sicurezza di sé, sino a distruggere progressivamente la salute fisica.

2 – Stress psicoenergetico (energie mentali)

Si verifica ogniqualvolta le risorse mentali necessarie sono superiori a quelle disponibili e attivabili. Tra i casi, citiamo la condizione in cui vi sia un compito da svolgere che richiede energie motivazionali superiori a quelle disponibili, ruoli che il soggetto non sente come propri, o ancora manca la linfa vitale del sostegno del gruppo, o vi sono troppe persone che drenano le energie mentali rispetto a quelle che invece apportano energie all’individuo.

Fanno parte dello stress psicoenergetico anche le crisi di ansia (timore e attivazione negativa, generalizzata o specifica per situazioni) e le crisi di senso (perdita di un riferimento o significati nel proprio orizzonte).

Ad esempio, uno studente di chirurgia che non sopporti la vista del sangue e stia studiando medicina su pressione dei genitori si sta sottoponendo a stress psicoenergetico forte. È stress andare a lavorare in un ruolo che non piace e non si sente proprio. È stress fare nel lavoro ripetutamente un’azione in cui non si crede, ad esempio, per un venditore può essere stress ascoltare il cliente, se non crede fermamente nel valore dell’empatia ai fini della vendita.

È stress psicoenergetico ogni lavoro svolto malvolentieri, ogni relazione obbligata, non voluta o desiderata, forzata, ogni situazione emotiva che non corrisponde ai desideri.

Tali situazioni sono sicuramente comuni, ma la condizione di stress si manifesta proprio nel divario tra risorse energetiche in grado di attivarsi per far fronte (almeno momentaneamente) alla situazione, e il compito stesso.

Le tecniche di training psicoenergetico possono incidere favorevolmente sulla capacità di metabolizzare gli stressor, sulla sopportazione, flessibilità, capacità di straniamento e distanziamento, capacità di contestualizzazione degli eventi, sino alla superiorità esistenziale.

3 – Micro-stress (gap di micro-competenze)

Ogni task o sfida si correla a precise micro-abilità. Quando diciamo “c’è qualcosa che mi sfugge, ma non so bene cosa” stiamo incontrando un esempio di micro-stress. Lo incontriamo anche sul piano dei gesti meccanici, quando le micro-abilità legate all’esecuzione fisica di un compito non sono sufficientemente possedute e interiorizzate. Quando succede,  l’individuo deve aumentare lo sforzo di esecuzione, consuma e assorbe più energie, a volte nemmeno questo risulta sufficiente e l’azione fallisce.

Le abilità che sono invece completamente possedute si esprimono con naturalezza, richiedono meno sforzo, e producono meno stress.

Lo stress nelle micro-competenze comprende fattori sfuggenti, micro-dettagli, imperfezioni operative, che creano un divario tra esecuzione ottimale di una performance e esecuzione reale.

È spesso il risultato di azioni formative che si fermano troppo presto rispetto alla reale esigenza.

4 – Macro-stress (stress di ruolo, stress esistenziale)

Consiste in disallineamenti nei profili professionali e di competenze, scostamenti tra proprio portfolio di competenze, ruolo atteso e ruolo ricoperto.

In azienda, si manifesta come crescente difficoltà nel dare una contribuzione reale, nella difficoltà a sviluppare risultati e generare valore.

Possiamo avere un macro-stress di competenze quando il ruolo viene cambiato senza adeguata formazione, o quando lo scenario evolve con una rapidità tale da rendere vecchio il patrimonio di conoscenza acquisito sinora.

Si verifica quindi un’obsolescenza delle competenze quando i nostri saperi diventano pressoché inutili rispetto alle esigenze nuove, attuali, mutate. Questo produce entropia delle competenze, uno stato di disordine o caos nei profili professionali.

Di forte interesse per il coaching è soprattutto individuare e intervenire sulla dinamica di entropia delle competenze, termine da noi fissato per identificare l’erosione di valore e applicabilità del proprio bagaglio professionale, quando non viene svolta “manutenzione professionale” e formazione adeguata. Se gli scenari cambiano e si rimane fermi, questo equivale ad arretrare.

In condizione di entropia, un’organizzazione perde contatto con i fattori che generano il suo valore. Ad esempio, un centro di formazione che non sa fare didattica attiva, uno studio legale che non si aggiorna sulle legislazioni, un medico che non conosce nuove forme di terapia e nuovi farmaci, un’impresa familiare che resiste all’ingresso di un modello di gestione più manageriale anche quando il modello familiare non regge più, una squadra sportiva che non fa preparazione atletica.

5 – Stress progettuale (stress legato ai goal)

Deriva dal possesso di obiettivi e goal inadeguati, e comprende sia aspetti di ipo-stimolazione che di iper-stimolazione. Gli obiettivi possono essere troppi o troppo pochi, oppure mal definiti e imprecisi. Distinguiamo:

  • stress da iper-stimolazione: deriva da goal eccessivi rispetto alle risorse individuali, goal praticamente irraggiungibili (es.: tre, quattro progetti significativi contemporanei). È spesso il frutto di un coaching poco etico che ripete alla persona messaggi del tipo “puoi dare di più, devi fare di più, tu sei un leader, risveglia il leader che è in te”, e simili, ma non si prende il tempo necessario per formare veramente la persona;
  • stress da ipostimolazione: deriva da goal assenti, insufficienti come numero o grado di sfida, obiettivi di portata non sufficiente per attivare curiosità, interesse o motivazione, o superare la noia;
  • stress da eccesso di varianze temporali nei goal: avviene quando i goal variano troppo rapidamente, “cambiano le carte in tavola”, non consentendo al soggetto di attuare quanto previsto; troppi progetti si aprono e nessuno si chiude, ci si perde, si attivano energie su progetti che poi vengono dimenticati o dispersi nel caos organizzativo;
  • stress da molteplicità nelle definizioni e attese dei referenti: accade quando più persone si attendono goal diversi dalla persona; troppe persone creano attese e pongono richieste, e il soggetto non è in grado di rispondere simultaneamente ai diversi goal, o il rispondere ad un goal crea automaticamente soddisfazione in un referente e contrasto con un altro referente;
  • stress da offuscamento dei confini dei goal: avviene quando un soggetto non ha più chiaro cosa la sua struttura o organizzazione si attenda da lui/lei, cosa costituisca un goal e cosa non lo sia, cosa verrà apprezzato e cosa non sarà apprezzato;
  • stress da mancanza di riconoscenza: deriva dalla mancata gratificazione psicologica verso chi raggiunge il goal, o attua impegno consistenze: la mancanza di riconoscimento demotiva il soggetto sia nel presente che verso l’impegno futuro;
  • stress da difficoltà di canalizzazione: difficoltà a tradurre un ideale (sogno, visione) in una sequenza di azioni concrete, goal pratici, tale che il soggetto continua per lungo tempo ad essere attivato (volontà elevata) ma non riesce a tradurre l’energia in progettualità e azione;
  • stress da dissonanza tra aspettative interne concorrenti: è uno stress psicologico molto forte in cui ci si trova nella condizione di dover rispondere a più input interni ma in modo dissonante, tale che il perseguimento di uno porti al decadimento dell’altro. Si crea una forma di concorrenza nelle aspettative interne quando l’individuo non riesce a risolvere le tensioni psicologiche sottostanti e queste continuano a macerarlo o “torturarlo”. Ad esempio, per un padre di famiglia, il caso in cui le aspettative su di lui siano duplici e contrastanti: dover portare a casa più soldi e contemporaneamente essere più presente in famiglia; per una madre di famiglia: sentire pressioni per essere produttiva e di successo e contemporaneamente più presente come moglie e madre. Per un’azienda, classicamente, dover scegliere tra investimenti e taglio di costi.

6 – Stress legato alla vision e ai valori

Distinguiamo anche in questo campo:

  • stress da hyper-visioning non canalizzato: deriva dalla costruzione di obiettivi di lungo periodo eccessivi rispetto alle risorse individuali, praticamente irraggiungibili. Lo hyper-visioning (sognare e progettare in un orizzonte temporale molto lungo, o su sfide estremamente ambiziose) è una pratica positiva quando attuata entro confini personali e manageriali adeguati, e rappresenta invece una fonte di disagio se si trasforma in “ru­minazione mentale permanente” o insoddisfazione permanente. Sognare lontano e guardare lontano è positivo. Farlo e pretendere che tutto si avveri immediatamente no. La vision parla di sogni e ambizioni, e questo è positivo, ma se non vengono fatti i conti con la realtà essi rischiano di far male. La presenza nella vision di elementi decisamente eccessivi per le risorse individuali, vissuti come castrazione permanente, riduce la motivazione anziché aumentarla; ambizioni irraggiungibili che diventano non più motivatori in back­ground (positivi) ma ossessioni o afflizioni; deve essere chiarito se un tratto di vision si considera sostanzialmente riportabile all’area dei goal (vision raggiungibile) o invece come visione puramente ispirativa;
  • stress da hypo-visioning: un vissuto permeato da una mancanza di “senso delle cose”, o “senso del perché”, mancano desideri e traguardi nobili o significativi per il sistema di valori dell’individuo. La visione del futuro è imprecisa, manca un senso del “tendere a…”, gli obiettivi personali o aziendali sono confusi, o variano continuamente, manca un “faro” nella vita, un ideale cui tendere, viene meno una linea di tendenza e si perde il senso del percorso non capendo più per chi o per cosa affaticarsi, verso cosa tendere, per cosa darsi da fare;
  • stress da incoerenza tra valori individuali e valori dell’organizzazione: il soggetto non sente di poter aderire ai valori che percepisce nella realtà aziendale o del team di cui fa parte. Ed ancora: il soggetto percepisce uno scontro o un divario tra valori iniziali a cui ha aderito nell’entrare in azienda o nell’organizzazione, e i comportamenti reali che osserva in seguito e quotidianamente;
  • stress derivante dal conflitto tra scuole di pensiero, stress da diversità delle scuole metodologiche: spesso le scuole di provenienza portano con se precise visioni dell’uomo e valori di riferimento ben consolidati, cui le persone aderiscono. In ogni organizzazione si creano confronti (positivi) o scontri (conflittuali) tra scuole di provenienza delle varie persone. Si creano anche cordate aziendali, gang, bande interne, tribù, clan, e altre dinamiche di antropologia tribale dell’organizzazione. Lo stress deriva in questo caso dal dover operare entro modelli di valori e visioni che non si sentono propri. Es.: in una clinica, quando i diversi professionisti appartengono a scuole diverse e queste non trovano convergenze, collidono sul da farsi pratico sul paziente, e il medico o terapeuta può trovarsi a dover lavorare con metodi e prassi in cui non crede. Questo accade frequentemente anche nei sistemi educativi, scuola, università, aziende, e in ogni organizzazione.

articolo di: Dott. Daniele Trevisani

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Note sull’autore:

dott. Daniele Trevisani (www.danieletrevisani.com), Fulbright Scholar, consulente in formazione aziendale e coaching (www.studiotrevisani.it) insignito dal Governo USA del premio Fulbright per gli studi sulla Comunicazione nel 1990, è Master of Arts in Mass Communication alla University of Florida e tra i principali esperti mondiali in Sviluppo del Potenziale Umano.

In campo marziale e sportivo, è preparatore certificato Federazione Italiana Fitness, praticante di oltre 10 diverse discipline, Maestro di Kickboxing, Sensei (8° Dan DaoShi® Bushido), formatore di atleti e istruttori di Muay Thai, Kickboxing e MMA. E’ stato agonista negli USA nei trofei di Karate Open Interstile.

Formatore e ricercatore in Psicologia e Potenziale Umano, è consulente NATO e dell’Esercito Italiano. Laureato in Dams-Comunicazione, è inoltre specializzato in Psicometria all’Università di Padova.

Ha realizzato docenze in oltre 10 Università Italiane ed estere, ed è il tra i principali esperti italiani nella ricerca sul potenziale umano, nella formazione di manager, di istruttori e trainer per le discipline marziali e di combattimento.


Articolo di Daniele Trevisani, tratto dal volume “Il Potenziale Umano”,

edito da Franco Angeli. Copyright dell’editore e di Studio Trevisani Communication Research. Vietata la riproduzione non autorizzata. E’ consentita la citazione del brano o di sue parti solo con preventiva citazione della fonte e dell’autore.

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Un metodo per non lasciare i sogni nel cassetto …dove ogni piccolo passo conta, ogni micro-conquista apre le porte ad un modo di essere, in azienda e come persone

Cos’è uno Step Praticabile? Nel metodo HPM (Human Performance Modeling), è la primissima azione che puoi concretamente compiere per avvicinarsi ad un obiettivo. Per essere tale, uno step deve essere “praticabile”, fattibile. Esempio: telefonare a tizio per informarsi su una certa questione. Mandare un messaggio ad una persona. Fare una piccola, piccola cosa, nella direzione giusta.

Molto spesso rimaniamo in attesa di qualcuno che “ci dia una spinta”, mentre in realtà se iniziamo ad utilizzare il metodo degli “Step Praticabili” arrivere da soli e molto più in  là.

Sul piano manageriale e della leadership, è importante partire dagli obiettivi, mentre per le azioni di coaching e consulenze in profondità è possibile esplorare anche gli antecedenti (sfondo pulsionale e sfondo aspirazionale).

Per tutti, risulta importante correlare una visione a obiettivi praticabili.

Gli obiettivi si traducono in goal (risultati misurabili), progetti (sequenze di attività) e task (compiti).

Così, per una famiglia:

  • possiamo identificare lo sfondo “volontà di far crescere i figli”, legato all’aspirazione ad essere un buon padre o madre; lo sfondo pulsionale latente è localizzabile nel bisogno umano di trasmettere i propri geni e avere una discendenza che li tramandi;
  • possiamo avere due obiettivi specifici: (1) farli “crescere bene” sul piano fisico, e (2) farli “crescere bene” dal punto di vista psicologico e intellettuale[1];
  • possiamo avviare diversi goal e progetti: (1) far si che il ragazzo/ragazza possano svolgere una attività fisica regolare (progetto sport), (2) curare la loro alimentazione (progetto alimentazione sana). Sul piano psicologico (3) evitare di dare esempi sbagliati, progetto di controllo del proprio comportamento modellante, (4) ascoltare i figli (progetto di ascolto), (5) seguirli e affiancarli nella realizzazione dei compiti scolastici (progetto di tutoring scolastico).

I progetti si traducono in precisi compiti (task), tra cui: portare il bambino/ragazzo alla palestra il lunedì e giovedì dalle 17,30 alle 19, ritagliarsi due serate specifiche e inviolabili dedicate esclusivamente alla famiglia, prendersi una giornata al mese di “uscita a coppia” per stare assieme, e qualsiasi altra attività positiva discendente dalla catena evidenziata.

Sono le azioni, la concretizzazione, che ci diranno se esiste o meno volontà reale e capacità reale di portare un’aspirazione nel piano concreto del fare.

Non deve stupire se il mestiere di genitore sia così difficile, vista la molteplicità di aree di attenzione che chiama in causa. Quello che deve invece stupire è la mancanza di qualsiasi tipo di training per chi deve fare il mestiere di genitore, che non sia l’esempio (spesso sbagliato) offerto da altri genitori o dai propri. Ma questo vale anche per i leader, e i manager, il cui sistema formativo è spesso relegato all’“osserva e copia”, ripetendo gli errori di chi li ha preceduti.

Notiamo subito che la sequenza presenta numerosi momenti di comunicazione, sia tra i genitori che in presenza dei figli, tra cui “decidere quale sport”, “saper ascoltare”, e numerosissime altre situazioni comunicative.

I momenti di comunicazione sono altrettanto frequenti e numerosi nella leadership.

La qualità di questi momenti comunicativi è direttamente correlata alla possibilità di conseguire i risultati desiderati.

Principio 30 – Focalizzazione degli obiettivi e backward planning

La qualità della vita nei gruppi di lavoro e la performance dei gruppi stessi è correlata:

  • al grado con cui le azioni quotidiane e i compiti (task) seguono progetti specifici;
  • al grado con cui i progetti sono ancorati a goal definiti e misurabili;
  • al grado con cui i goal sono ancorati ad un obiettivo;
  • al grado con cui gli obiettivi sono ancorati alle aspirazioni individuali;
  • alla comprensione degli sfondi (sfondo pulsionale e sfondo aspirazionale) che muovono gli obiettivi;
  • alla comprensione dei filtri culturali attivi nel dare propulsione o invece frenare il passaggio dallo sfondo pulsionale all’aspirazionale, e da questo agli obiettivi;
  • alla capacità di ricentrare le energie mentali sulle priorità.

Nelle organizzazioni, il team-leader funge da decisore, coordinatore, comunicatore, e motivatore, esplicitando il raccordo e coordinamento tra le diverse fasi (task, progetti, goal, obiettivi), per ogni membro del team.

Vediamo ora come la catena aspirazioni-obiettivi-goal-progetti-task produca, anche in un’azienda, una molteplicità di attività di comunicazione interna. Realizziamo il seguente esempio:

  1. aspirazione: essere orgoglioso di se come imprenditore e dell’azienda che si è costruita (sfondo pulsionale: bisogno di immortalità, di essere ricordato, di passare all’aldilà con un’immagine di sé positiva);
  2. obiettivo: riqualificare fortemente la propria rete di vendita dal punto di vista strutturale, motivazionale e delle competenze delle risorse umane;
  3. goal: ridisegnare la rete sul territorio, definire una procedura incentivante, migliorare le competenze, in particolare le modalità di intervista del cliente e la capacità di comunicazione e negoziazione;
  4. progetti: progetto esemplificativo 1: “One Area – One Team” in cui viene assegnata la leadership territoriale ad una precisa figura professionale, e si decide quali siano le risorse del suo team; progetto esemplificativo 2: “training in negoziazione avanzata”, in cui i membri del team apprenderanno le tecniche di ascolto strategico del cliente durante la negoziazione, e altri progetti necessari per concretizzare gli obiettivi;
  5. task: definire le date per la formazione, selezionare il responsabile per ogni area, selezionare i membri del team di ogni area, definire la scaletta di incentivazione, selezionare il formatore/consulente per la fase formativa, e altri compiti correlati.

Come abbiamo evidenziato, la capacità di produrre risultati nei gruppi ad alte performance parte dalla qualità nella definizione stessa degli obiettivi e dei goal. Obiettivi e goal imprecisi producono demotivazione e scarsa stima verso chi li formula, e favoriscono la nascita di climi comunicativi dispersivi.

Per quanto concerne gli obiettivi, la loro caratteristica più rilevante è quella di essere ancorati ad un percorso che il soggetto possa comprendere.

Secondo una sequenza classica di management, i goal individuali devono correlarsi a quelli del gruppo di lavoro, e a risalire a quelli del dipartimento o set­tore aziendale, ma anche ai valori, alla visione e alla missione dell’a­zien­da[2].

Una delle capacità delle quali il leader deve impossessarsi è capire come i membri del proprio team vivano i compiti nei quali sono impegnati, in particolare:

  • qual è il vissuto emozionale del soggetto (positivo, negativo) e quali le sue sfumature e motivazioni;
  • qual è il “punto di rottura” del soggetto, la sua resistenza rispetto alla situazione che vive, la sua possibilità pratica di vivere il progetto con motivazione;
  • quanto il collaboratore è pronto a fidarsi del proprio leader in caso di divergenze sulla linea di azione da utilizzare;
  • quanto margine di libertà si intende dare all’individuo, in relazione alle sue esperienze e capacità.

Come insegnano i classici della sociologia dell’organizzazione, la leader­ship si carica di paure e false rappresentazioni, che bisogna apprendere a riconoscere ed evitare.

Abbiamo generalmente un’immagine del tutto falsa dell’azione organizzata. Sopravvalutiamo troppo la razionalità del funzionamento delle organizzazioni. Ciò ci conduce, da un lato, ad ammirare eccessivamente la loro efficacia o perlomeno a credere che sia scontata, dall’altro, a manifestare timori davvero esagerati davanti alla minaccia di oppressione che esse farebbero pesare sugli uomini. I paragoni che ci vengono in mente sono di tipo meccanico. La nozione di organizzazione evoca prima di tutto un insieme di ingranaggi complessi, ma perfettamente congegnati. Questo meccanismo sembra ammirevole finché lo si esamina soltanto dal punto di vista del risultato da ottenere: il prodotto che esce finito dalla catena di montaggio. Esso cambia invece radicalmente di significato se si considera che gli ingranaggi sono costituiti da uomini[1].

Le false rappresentazioni evocate dalla citazione sono quelle dell’or­ga­niz­­zazione come sistema perfetto. Saper vivere in sistemi imperfetti è una conquista e un traguardo.

Un salto di qualità manageriale consiste nell’accettare un margine di imperfezione come fisiologico nella conduzione del gruppo.

Le paure da eliminare sono le “minacce di oppressione” che la leadership comporta: il leader deve apprendere anche a fare i conti con decisioni impopolari, assegnare goal e task che non corrispondono ai desideri del collaboratore, forzare la linea di azione verso la direttrice che ritiene più opportuna alla luce delle sue esperienze, se è vero che esse sono superiori.

Fatto ogni sforzo di condivisione, rimane il dovere di assumersi la responsabilità dell’autorità e dell’imposizione dall’alto quando la condivisione non sia possibile, e dirigere. Il coraggio del leader si misura anche dalla volontà di scegliere e selezionare i propri compagni di squadra.


[1] Crozier, M., Friedberg, E. (1978), L’attore e la sua strategia, in Attore e sistema sociale, Etas Libri, Milano, p. 25. Titolo originale: L’acteur et le système: Les contraintes de l’action collective, Editions de Seuil, Paris (1977).


[1] Questi goal sono misurabili: la misurabilità in sé non è un risultato, ma solo uno strumento per verificare quanto si stiano compiendo progressi verso gli obiettivi.

[2] Gifford, J. (2002), Goal Setting, materiale didattico riservato, University of Miami.

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Articolo di Daniele Trevisani, tratto dal volume “Il Potenziale Umano”, edito da Franco Angeli. Copyright dell’editore e di Studio Trevisani Communication Research. Vietata la riproduzione non autorizzata. E’ consentita la citazione del brano o di sue parti solo con preventiva citazione della fonte e dell’autore.

Esistono molti modi per fare training. Uno dei principali è insegnare alle persone a risolvere problemi. Un altro lato della medaglia è invece insegnare a costruire il nuovo. Se ci si focalizza solo sulle cose che non vanno, drammi e tragedie piccole o grandi, o problemi, ci si atrofizza-  dentro –  la capacità di pensare positivo.

Ci concentriamo solo sul “tappare le falle” e non sul “costruire qualcosa”.  

Credo molto invece che i problemi non vadano nascosti, ma abbiamo il dovere di coltivare la progettualità positiva.

La capacità di costruire va tenuta allenata anche e soprattutto nei momenti di difficoltà, e in ogni attimo della vita, per non parlare poi della formazione costruttiva, dove le persone possono essere invitate non solo a risolvere problemi ma a generare qualcosa… è solo un pensiero… ma riguarda un atteggiamento di fondo che possiamo e dobbiamo coltivare…

Fate un esperimento: ascoltate i discorsi, nei bar, o in azienda, e guardate se parlano di “tappare falle” o di costruire qualcosa di nuovo…. stili di comunicazione e stili di pensiero sono collegati.

un saluto Daniele

Le persone viaggiano per stupirsi

delle montagne, dei mari, dei fiumi, delle stelle

e passano a fianco a se stesse senza meravigliarsi

Sant’Agostino

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Articolo di: Daniele Trevisani. Estratto dal volume “Il Potenziale Umano“, Franco Angeli editore, Copyright

 

Il metodo HPM deriva la propria sigla dal suo obiettivo primario, il Modeling, o “dare forma”, e quindi plasmare, costruire, supportare la crescita.

Dirige l’attenzione verso due diversi ambiti o sfere di applicazione:

1.      crescita del potenziale umano: Human Potential Modeling,

2.      sviluppo delle prestazioni: Human Performance Modeling.

Le due aree sono strettamente collegate, e hanno al centro un tratto comune, la concezione dell’uomo come articolazione di energie (fisiche e mentali), competenze (skills, abilità), e direzionalità (obiettivi e valori).

Modello HPM

Il metodo HPM considera tutti i fattori evidenziati nel modello piramidale (energie fisiche e mentali, micro e macro-competenze, progettualità e aspirazioni) come aspetti allenabili, aumentabili, e su cui si può agire.

Esponiamo di seguito una breve sintesi di quali sono i contenuti principali delle sei “celle” di lavoro:

  1.  il substrato psicoenergetico e le energie mentali: riguarda le energie psicologiche, le forze motivazionali, lo stato di forma mentale necessario per affrontare sfide, progetti, traguardi (goal) e obiettivi. Si prefigge di analizzare ed intervenire sulle capacità mentali, come concentrazione, lucidità tattica, abilità strategiche, capacità di percezione, utilizzo della memoria, amplificazione sensoriale, sino alle capacità di vivere le passioni, rivedere il nostro modo di essere, riprendere in mano il proprio ruolo nella vita con maggiore assertività, ripensarsi, creare motivazione in sè e nel team, sviluppare coraggio e perseveranza, utilizzare uno stile di pensiero produttivo e positivo;
  2. il substrato bioenergetico e le energie fisiche: inquadra la parte biologica dell’essere umano: il corpo e le energie fisiche, lo stato di forma organis­mico e biologico che sorregge le energie individuali; comprende l’analisi delle energie corporee e il funzionamento dell’organismo, come esso possa essere riparato o “potenziato”, gli effetti dello stile di vita e l’approccio olistico al corpo, l’attenzione alle economie locali (di specifici distretti fisici) e alle energie generali;
  3. le micro-competenze: i micro-dettagli che danno spessore al potenziale, le micro-abilità psicologiche e psicomotorie che fanno la differenza in una prestazione manageriale o sportiva, le micro abilità-cognitive (di ragionamento), che creano differenza tra un’esecuzione mediocre, media o invece eccellente,  le micro-abilità relazionali e comunicazionali da cui dipende un lavoro di qualità;
  4. le macro-competenze personali e professionali: i grandi strumenti (competenze, skills, capacità) che compongono il profilo di un ruolo; le traiettorie di cambiamento che subisce lo scenario che ci circonda, come rimanerne coscienti e in pieno controllo; la gamma delle abilità o portfolio di competenze di un individuo o di un team, e come questo deve essere rivisitato, riqualificato, formato, per essere all’altezza degli obiettivi che ognuno di noi si pone e delle sfide che vuole cogliere;
  5. goal e progettualità: la strutturazione dello sforzo per qualcosa o contro qualcosa di concreto (un ideale trasformato in progetto); la capacità di sviluppare un obiettivo in azione, il focus di applicazione delle energie e competenze, la loro traduzione in specifici piani operativi e risultati attesi;
  6. visione, principi e valori, missione: ideali, principi morali, sogni, aspirazioni, i motori profondi che dirigono le priorità personali, gli ancoraggi di senso e significato che connettono i progetti ad un piano più profondo, le scelte personali, il senso di missione. Riguarda inoltre lo sfondo primordiale di desideri e pulsioni che spingono il nostro fare ed agire, il senso di causa e – non ultimo – il nostro vissuto spirituale ed esistenziale.

Ognuno di questi stati o “celle” può avere un certo livello di “carica”, trovarsi “pieno”, “abbondante”, ben coltivato, ben esercitato, o essere invece “scarico”, deprivato, depotenziato, impoverito, o persino trascurato e maltrattato, denutrito, abbandonato.

Al crescere della carica nei diversi sistemi aumenta l’energia complessiva della persona, dei team, e delle organizzazioni da loro composte, con effetti molto tangibili: risultati, prestazioni, capacità di decidere, di incidere e produrre cambiamento positivo. Questi risultati dipendono dallo stato dei diversi sistemi, dalla capacità di coltivarli e nutrirli.

La loro condizione locale e l’interazione tra le diverse “celle” può produrre il massimo del potenziale o presentare sinergie negative, o danni e malfunzionamenti che impediscono all’essere umano di esprimersi.

Le risorse personali e il potenziale individuale possono essere “lette” ma soprattutto amplificate attraverso un lavoro serio sulle sei aree.

Sul piano manageriale e sportivo, nei team e nelle aziende, le implicazioni sono altrettanto evidenti: lo stato di forma mentale e fisico delle persone, la loro carica motivazionale, le loro competenze, la loro progettualità, il loro spessore morale, fanno la differenza tra persone o team spenti, e persone, team o organizzazioni capaci, forti, motivate, piene di energia ed entusiasmo, desiderose di affrontare sfide e dare contributi veri.

 

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Autore: Daniele Trevisani. Estratto dal volume “Il Potenziale Umano“, Franco Angeli editore, Copyright.  
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