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Quanto manca prima della prima singolarità tecnologica?

Gli approcci e i processi relativi alle intelligenze artificiali visti fino a questo momento potrebbero portare (o porteranno) all’avvento di quella che prende il nome di singolarità tecnologica: si identifica con il momento in cui la tecnologia sarà intellettivamente uguale o addirittura superiore all’uomo.

Le possibilità dell’avvento di tale tecnologia sono ancora oggi materia di discussione, tuttavia si sono delineate due diverse correnti di pensiero: un primo approccio considera la singolarità come l’inizio di una nuova era per l’uomo, garante di numerosi vantaggi; ed un secondo approccio che considera invece uno scenario apocalittico, che porterà alla progressiva estinzione dell’uomo.

L’approccio positivo considera l’avvento di una tale tecnologia come un punto di partenza per uno sviluppo uomo-macchina che seguirà un approccio esponenziale. L’ipotesi più probabile di tale avvento sarà quando un’intelligenza artificiale avrà a disposizione (per mano dell’uomo o per apprendimento automatico) una rete neurale artificiale al pari dell’uomo, sia dal punto di vista della capacità di memoria, sia da quello della velocità di calcolo.

Contando che il cervello di un essere umano è una rete neurale che conta al suo interno ben cento milioni di miliardi di connessioni neurali, l’impresa di riuscire a creare una tecnologia simile può essere scoraggiante. Nel 2014 in Giappone, Fujitsu K ha faticato non poco per “tenere testa” al cervello umano: dotato di 82944 processori ed un petabyte di memoria (equivalente a circa milleventiquattro terabyte, per poter fare un paragone con misure più quotidiane) ha impiegato circa quaranta minuti per simulare un solo secondo di attività celebrale[1].

Al quanto scoraggiante, ma siamo solo all’inizio. Il concetto di singolarità tecnologica è stato coniato da un matematico e scrittore, Vernor Vinge. Egli pubblicò un saggio chiamato a Technological Singularity[2], pubblicato nel 1993. All’interno, troviamo un’affermazione secondo la quale entro trent’anni l’uomo avrà a disposizione una tecnologia tale da creare un’intelligenza sovraumana e successivamente andremo incontro alla nostra estinzione.  

Tale singolarità viene definita erroneamente come un progresso infinito, che tende a seguire l’andamento di una singolarità matematica (o isolata): in realtà il termine singolarità è stato scelto dalla fisica e non dalla matematica. Il motivo è molto semplice: ogni qual volta il progresso tecnologico si avvicina alla singolarità, le previsioni sui modelli futuri diventano imprecise e di conseguenza inaffidabili.

Tuttavia, in ambito informatico e elettronico, possiamo prevedere oggigiorno dove potremmo arrivare in determinati ambiti informatici grazie alla prima e alla seconda legge di Moore. La prima legge afferma che «La complessità di un microcircuito, misurata ad esempio tramite il numero di transistor per chip, raddoppia ogni 18 mesi (e quadruplica quindi ogni 3 anni)». 

Può sembrare incredibile, tuttavia questa prima legge ha un grosso limite: quello spaziale. Non possiamo ridurre all’infinito le dimensioni dei transistor all’interno dei processori, e questo problema è comune a tante branche dell’informatica e della robotica moderna. La seconda legge di Moore invece afferma che «il costo di una fabbrica di chip raddoppia da una generazione all’altra».

Questo significa che all’aumentare della tecnologia a nostra disposizione (in questo caso in ambito di processori) aumenterà di conseguenza anche il costo di produzione dei singoli componenti. Questo potrebbe sancire, in un determinato tempo futuro, la morte della legge di Moore per come l’abbiamo intesa fino ad ora. Ma per Ray Kurzweil e Jim Keller non potrà mai morire idealmente, ma dovremmo reinterpretarla in maniera più ampia e complessa.

Estratto dalla tesi di Laurea in Filosofia, Teorie e sistemi dell’intelligenza artificiale, a cura di Federico Malpighi. Alma Mater Studiorum Università di Bologna.


[1]https://www.repubblica.it/tecnologia/2013/08/05/news/il_cervello_batte_sempre_il_supercomputer_per_replicare_un_secondo_servono_40_minuti-64320827/, consultato in data 10 agosto 2020.

[2] (EN) Vernon Vinge, The Coming Technological Singularity: How to Survive in the Post-Human Era (PDF), in Vision-21 Interdisciplinary Science and Engineering in the Era of Cyberspace, Proceedings of a symposium cosponsored by the NASA Lewis Research Center and the Ohio Aerospace Institute and held in Westlake, Ohio, 1993, p. 11-22. URL consultato 10 agosto 2020.

Tra artificiale e biologico

Questa metodologia di apprendimento cerca di creare un modello automatico su più livelli, in cui i livelli più “profondi” prendano in input i dati provenienti dai livelli precedenti a loro, rielaborandoli.

Ogni livello della scala di cui si compone corrisponderebbe ad una delle diverse aree che compongono il cervello umano, ognuna con le proprie caratteristiche: in base agli stimoli provenienti dall’esterno, così come nel cervello vengono “attivati” nuovi neuroni, così nella struttura proposta dal deep, verranno proposte differenti risposte del sistema a seconda degli stimoli ricevuti.

Nell’ambito delle reti neurali artificiali il deep learning viene largamente usato: si cerca di riprodurre il calcolatore più complesso in assoluto, il cervello umano. Le differenze tra i due sistemi sono ancora molto evidenti, basti pensare che a noi “umani” per riconoscere il viso familiare in una folla di persone possono volerci alcuni secondi, per una macchina distinguere immagini ben più semplici addirittura giorni!

Ed è così anche nel mondo animale, se consideriamo che i sistemi di orientamento di un pipistrello sono ben più avanzati e sviluppati dei sistemi radar umani. Questi paragoni servono principalmente per comprendere la difficoltà della risposta che vogliamo ottenere, e anche le complicazioni che sussistono all’interno di questo ambito di riserva. Ma che cos’è una rete neurale?

Per rete neurale intendiamo un processore ispirato al funzionamento del sistema nervoso di organismo biologici complessi, costituito di unità computazionali elementari che giocano lo stesso ruolo dei neuroni nel cervello. Essi hanno due caratteristiche: la prima è la conoscenza, come abbiamo visto precedentemente, acquisita tramite processi di apprendimento.

La seconda consiste nella capacità di immagazzinare tali conoscenze all’interno del sistema neuroni-rete neurale. I neuroni artificiali funzionano come nodi all’interno della rete, ricevono segnali provenienti dall’esterno o da altri nodi (neuroni) e ne effettuano una trasformazione chiamata funzione di attivazione. Questa operazione altro non fa che trasformare matematicamente il valore delle informazioni prima di passarle ad uno strato successivo, facendo in modo di trasmettere i valori di input attraverso tutta la rete fino ad arrivare all’output.

Il percettone è stato il primo schema di rete neurale proposta da Frank Roosenbalt nel 1958. Esso si presentava come un semplice classificatore binario in grado di riconoscere due differenti classi di input e separarle. Strutturalmente le similitudini con un neurone biologico sono indiscutibili: i dendriti e le sinapsi costituiscono l’input del neurone, mentre il nucleo e gli assoni costituiscono l’output del neurone che andrà poi ad interagire con gli altri neuroni. Il problema riguardante questo primo esperimento è la grande limitazione computazionale del singolo percettone, collegata al fatto che le prestazioni ottenibili dipendono con la scelta degli input.

Dal 1958 ad oggi, con un’impennata raggiunta negli anni ‘80, lo sviluppo delle reti neurali è continuato ed è possibile impiegare tali tecnologie soprattutto quando la difficoltà computazionale aumenta e le quantità di dati da elaborare diventano proibitive per l’uomo: ad esempio vengono utilizzate nel controllo del traffico aereo e veicoli, nelle simulazioni videoludiche come il gioco degli scacchi, nel riconoscimento nei sistemi radar e di identificazione facciale e vocale.

La nota negativa riguardante l’utilizzo di tali sistemi riguarda il fatto che, a differenza di sistemi algoritmici nei quali è possibile analizzare l’intero processo di elaborazione, con le reti neurali ci viene fornito solamente un dato (o un insieme di dati) in output che dobbiamo prendere come tale. Per questo a maggior ragione la scelta dei dati in ingresso è fondamentale per una corretta e attendibile valutazione da parte della rete.

Come abbiamo visto sussistono ancora innumerevoli differenze tra la tecnologia utilizzabile in ambito di reti neurali e le reti neurali biologiche presenti all’interno del cervello: tuttavia, le similitudini tra questi sistemi non sono così astratte. Le diverse tipologie di apprendimento automatico che abbiamo tenuto in considerazione mostrano come l’uomo stia cercando di ricreare artificialmente quello che possiede biologicamente: ovviamente non è un’operazione semplice, ma le possibilità di sviluppo sono a favore dei ricercatori.

Da un punto di vista computazionale e di velocità di elaborazione dei dati, una macchina sarà sempre favorita sull’uomo, rimane da implementare la parte relativa all’intenzionalità e alla cognizione. E nonostante ammettessimo che un’intelligenza artificiale (di tipo simbolico) possa essere associata al concetto di intenzionalità,  nulla ci garantisce che essa possa possedere autocoscienza di sé.

Se così fosse avremo di fronte a noi qualcosa di rivoluzionario: sarebbe una tecnologia tale da potersi migliorare da sola, rendersi conto di sé e di cosa la circonda, delle minacce e dei pericoli. In questo caso ci troveremo di fronte a quella che Nick Bostrom ha catalogato come Superintelligenza e che esporrò nel terzo capitolo.