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modello delle quattro distanze

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© Articolo estratto con il permesso dell’autore, Dott. Daniele Trevisani dal libro “Ascolto Attivo ed Empatia. I segreti di una comunicazione efficace. Milano, Franco Angeli

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L’articolo di oggi, così come quelli a seguire, si concentreranno sull’importanza dell’empatia e dell’ascolto attivo nella comunicazione e nelle negoziazioni. Ciò che leggerete qui di seguito è un’introduzione all’ascolto dei sistemi di credenze del nostro interlocutore. Comprendere le mappe mentali di chi ci circonda, infatti, ci permette di scegliere con cura le parole da utilizzare e apre le strade ad una comunicazione strategica ed efficace.

Le credenze o beliefs sono qualcosa che la persona possiede, e sente propria ben più di un bene materiale. 

Immaginiamo di chiedere ad una persona “cosa ne pensi dello yoghurt al naturale”? E di non sapere veramente niente di quella persona, non averla mai incontrata prima.  

Potrebbe rispondere “buono”, ma in realtà quello che evoca il concetto “yoghurt al naturale” è qualcosa di estremamente più complesso.

Quanta di questa complessità sapremo cogliere? Dipende dalla nostra abilità di ascolto. Questo esempio serve per capire che dietro alle parole si nascondono “mondi semantici”, “mondi di significati“. Lo yoghurt, è solo una scusa per capire come funziona il meccanismo.  

Le mappe mentali che si nascondono dietro alle parole sono il nostro interesse, la nostra ricerca. Le infinità di sfumature e interi universi di significato che si nascondono tra le pieghe delle parole. 

E ci interessa davvero coglierle? Dipende, a volte può non interessarci, a volte, soprattutto nel lavoro d’azienda, può essere ciò che fa la differenza tra il capire un cliente e vendere, e non capirlo e non vendere. La differenza tra fallimento e successo. 

Nell’esempio illustrato qui di seguito si evidenzia la rete semantica che si associa ad uno specifico prodotto: lo yoghurt intero, non scremato. 

Questo è letteralmente “ciò che ha in testa” quella persona, la sua “rete semantica”. Ed è questo il concetto che ci interessa, oltre lo yogurt. 

Una convinzione è un’idea su “come funzionano le cose” che viene accettata come se fosse vera o reale. 

Le reti semantiche toccate dal “prodotto tradizionale non scremato” sono ben lontane dalla valutazione puramente alimentare. Esse infatti vanno dal “ricordo dei vecchi tempi”, al senso di fiducia, dalla possibilità di avere più energia per lavorare sodo, sino al senso di felicità ed armonia interna. 

Se compariamo la mappa precedente con quella di un prodotto molto più “problematico” (yoghurt modificato geneticamente) capiamo come le mappe percettive consentano di far emergere le percezioni di prodotto e le barriere semantiche

Il prodotto geneticamente modificato si carica di paure, sfiducia, senso di immoralità. Vengono alla luce componenti valutative “organiche”, psicologiche (dissonanza tra innaturalità biologica e armonia interna) e valutazioni sociali e culturali, sino alle responsabilità per il benessere dell’umanità: a cosa contribuisco con questo acquisto? Che valori supporto?  

La scelta smette di aver a che fare unicamente con il prodotto come “cibo” ma assume una connotazione densa di valenze culturali, etiche e sociali (cosa faccio mentre acquisto, chi finanzio, che distanza di valori c’è tra me e loro). Il percorso valutativo agisce indipendentemente dal valore economico del bene, e si correla altamente al valore simbolico assunto dall’atto d’acquisto. La consapevolezza di quali siano le reti semantiche “attive” nel cliente è un tema centrale dell’ascolto delle credenze. Ascoltare le credenze e convinzioni è fondamentale anche per capire cosa motiva le persone. Sia gente comune che grandi campioni formulano credenze, che si ripetono come paradigmi di verità, e nel corso del tempo diventano la loro realtà. 

"Ascolto Attivo ed Empatia" di Daniele Trevisani

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Articolo a cura della dott.ssa Ginevra Bighini, www.negoziazioneinterculturale.wordpress.com; mentoring a cura del dott. Daniele Trevisani, www.studiotrevisani.it

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L’articolo di oggi ruota attorno ad uno dei temi più discussi nel mondo del lavoro, ossia la comunicazione aziendale e la gestione delle risorse umane. 

Come imprenditori, c’è da chiedersi innanzitutto che valore attribuiamo ad entrambe, e quindi: 

  1. quanto contano per me le persone che lavorano nella mia azienda? 
  1. Considero utile la loro formazione? E quanto sono disposto ad investirci? 
  1. Quanto conta per me la comunicazione in azienda? La considero indispensabile per raggiungere il successo come impresa, oppure preferisco non sprecare ore preziose di lavoro per formarmi e formare i miei dipendenti alla comunicazione efficace? 

Ci sono molte altre domande che potrei aggiungere, ma se dovessi elencarle tutte, probabilmente al posto di un articolo produrrei un libro. 

È chiaro che, una volta che ci siamo posti le giuste domande, dobbiamo anche darci le giuste risposte. E proprio a questo punto sarei curiosa di leggere nel pensiero di ogni imprenditore che sta leggendo questo post, per creare una statistica reale della concezione che le aziende italiane hanno del capitale umano e del supporto consulenziale in marketing e comunicazione strategica. 

Potrei sbagliarmi, ma dalle precedenti esperienze lavorative mi sono accorta che, in Italia, la maggior parte delle aziende vede le persone come numeri sostituibili e i corsi di formazione come una spesa inutile.  

Il nostro compito, come consulenti, è quello di sfatare questo mito e di provare in tutti i modi a far aprire gli occhi delle aziende sul futuro del lavoro. 

Il futuro che io vedo, forse ancora nell’utopia della giovinezza, è un futuro dove le aziende valorizzano sé stesse attraverso la cura per il proprio personale, dove ogni dipendente viene posto al centro di ogni discussione, dove le persone riescono a bilanciare con serenità vita privata e lavorativa, ma soprattutto dove la comunicazione sia argomento fondamentale nella formazione di ogni lavoratore. 

Rendiamoci conto che, raggiungere obiettivi all’interno di qualsiasi società comporta il doversi relazionare con colleghi, clienti e fornitori: in altre parole con altri esseri umani che, come noi, hanno sogni, aspirazioni, valori e credenze specifici, con cui dobbiamo fare i conti ogni giorno quando interagiamo. 

Se l’interazione non è fluida si creano ostacoli, spesso insormontabili, al successo e si rischia il fallimento. Per questo motivo lavorare sulle proprie capacità comunicative, e soprattutto su quelle dei nostri dipendenti, è fondamentale per permettere alla propria società di diventare sempre più competitiva sul mercato. 

Saper comunicare bene giova sia al personale interno, che all’immagine stessa dell’azienda nei confronti di clienti e fornitori esterni con cui condurremo negoziazioni positive e svilupperemo rapporti di fiducia duraturi. 

Per concludere vorrei dire due parole a tutti quegli imprenditori che si sono soffermati a leggere queste poche righe: se davvero ci tenete al futuro della vostra impresa osservate il mondo che cambia, poiché se sta cambiando significa che l’essere umano ha raggiunto nuove consapevolezze e vuole vivere la propria vita privata e lavorativa in modo diverso. Le nuove generazioni si sono rese conto che per lavorare bene, bisogna essere felici e anche l’azienda è responsabile della loro felicità. Dipendenti felici significa maggiore produttività, che, unita ad una comunicazione strategica consapevole, può davvero fare la differenza nel mondo che verrà. 

Articolo a cura della dott.ssa Ginevra Bighini, www.negoziazioneinterculturale.wordpress.com; mentoring a cura del dott. Daniele Trevisani, www.studiotrevisani.it

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Articolo estratto dal testo “Parliamoci Chiaro: il modello delle quattro distanze per una comunicazione efficace e costruttiva” copyright Gribaudo Editore e Daniele Trevisani, pubblicato con il permesso dell’autore.

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Concludiamo questo ciclo di 3 articoli sul raggiungimento della comunicazione efficace, cercando di riconoscere la propria cultura e le sue fonti, di capire come le idee si diffondano e di imparare a ricercare un common ground comunicativo.

Una vita sana richiede consapevolezza di quali credenze, valori o insegnamenti stiamo mettendo in pratica e ci chiede di riconoscere il fatto che essi siano stati acquisiti dall’acculturazione e dall’ambiente circostante: sono “entrati”, e noi ne siamo impregnati. Gli esseri umani sono pieni di memi, di tracce mentali, idee, credenze, apprese dagli altri esseri umani o da fonti mediate.

La memetica, come nuova disciplina nel panorama delle scienze sociali, si occupa di come le idee o memi si trasmettono da persona a persona, da gruppo a gruppo, proprio come la genetica si occupa della trasmissione dei geni e dei patrimoni ereditari. 

Non appena due culture si incontrano, scopriamo che i nostri memi sono diversi da quelli altrui, ma in termini “riproduttivi” cerchiamo di replicare i nostri piuttosto che di accettare quelli degli altri.  Al centro della comunicazione, infatti, non c’è solo la questione di chi abbia ragione sui dettagli, ma addirittura il tentativo di far sopravvivere i propri memi, di riprodurre la propria visione delle cose, a volte di imporla. Questo comportamento è normale e risponde ai principi di conservazione della specie. 

Esiste quindi una prima forte consapevolezza che rende il comunicatore più efficace: la consapevolezza della propria cultura, dei propri memi attivi.  

Questa consapevolezza non significa rifiuto e non deve produrre automaticamente rifiuto di quanto appreso culturalmente, ma solo e semplicemente consapevolezza di quanto appreso, delle fonti, e della storia dei propri apprendimenti.  

Dopo avere svolto l’analisi del “cosa ho appreso”, quando e da chi, è necessario prendere queste tracce memetiche e sottoporle ad un vaglio fondamentale: cosa voglio tenere e consolidare da un lato, e di cosa mi fa bene liberarmi e perché, dall’altro.

Lo stesso tipo di analisi si può applicare agli apprendimenti organizzativi e alle regole vigenti in un’organizzazione, ai memi che vi circolano, in modo palese, o in modo più nascosto. 

Il successo della comunicazione dipende quindi dalla consapevolezza: 

  • delle fonti personali; 
  • delle fonti mediate; 
  • dei tempi dell’assimilazione, delle sue fasi significative e delle pietre miliari; 
  • della profondità di assimilazione nel Self di regole culturali, leggi e insegnamenti che si adottano; 
  • dalla capacità di riconoscere i fattori e le persone da cui si sono assimilate specifiche abilità, atteggiamenti e comportamenti oggi praticati sul lavoro e a livello professionale. 

Si può accettare di tenere con sè una regola culturale, o si può decidere consapevolmente di tentare di eliminarla dal proprio modo di essere, ma solo dopo avere preso coscienza della sua esistenza (autodeterminazione culturale). 

Nel metodo ALM, l’individuo, nella comunicazione, deve saper eliminare le tossine culturali che impediscono il buon funzionamento del Self, e sapersi aprire all’immissione di nuovi elementi, nuove energie, nuovi apprendimenti: aria pura per la mente

Il comunicatore è vivo quando è aperto al proprio cambiamento e allo scambio con l’ambiente. È morto e produce esiti nefasti quando rifiuta di accettare che le diversità esistono e devono essere capite e analizzate, ed è altrettanto morto quando non possiede una propria identità, quando accetta incondizionatamente la memetica altrui e rifiuta il proprio patrimonio. 

Dobbiamo essere consapevoli che le parole hanno un potere, il potere di aggregare interi “mondi di significato” e trasmettere valori attraverso le persone e attraverso il tempo. 

Come in molte delle attività umane, un buon esito richiede la capacità di trovare un equilibrio tra:

  1. tendenza all’accettazione incondizionata della cultura altrui (ipocrisia culturale)
  2. tendenza all’imposizione incondizionata della propria cultura verso l’altro (imperialismo culturale). 

Gli stati di coscienza alimentano le identità culturali: per esempio arrivare a tavola tardi e andarsene prima non è culturalmente corretto nella cultura italiana standard, ma è normale nella cultura americana. Si tratta di memi diversi che circolano, presenti in ogni comunicazione.

Il problema delle culture è che le loro norme non scritte entrano senza bussare, per osmosi, e diventano tangibili solo quando avviene un contatto con una cultura diversa. 

Anche le aziende hanno culture tra loro diverse, così come le aree aziendali. A causa della grande varietà di input a cui si è esposti, non esiste una creatura che ragioni con gli stessi identici schemi mentali di un’altra. In questo contesto, le persone si trovano a negoziare e a comunicare.

Due soggetti che possiedono visioni identiche e obiettivi identici, però, non hanno bisogno di entrare in una vera comunicazione e non potranno costruire nulla di originale. Quando invece emergono diverse visioni, concezioni ed esigenze, la comunicazione entra in campo, così come la possibilità di costruire creativamente attingendo da più bagagli diversi. 

Negoziare significa impegnarsi attivamente nella ricerca di una soluzione che soddisfi due o più interlocutori che partono da posizioni culturalmente diverse, facendo emergere sia le differenze latenti, che le basi comuni su cui poggiare. 

Stiamo negoziando mentre trattiamo un prezzo o un acquisto, ma anche mentre discutiamo su quale film vedere, o cosa fare nel weekend o in vacanza partendo da gusti e preferenze diverse.  

 Il successo della comunicazione dipende infine: 

  • dal grado di impegno/volontà di ciascun soggetto nella ricerca attiva di una soluzione di reciproca soddisfazione; 
  • dalla capacità di riconoscere esattamente i fattori che rendono diversa la posizione di partenza o gli interessi delle parti; 
  • dall’utilizzo delle diversità passate allo stato cosciente come motore propulsivo e creativo; 
  • dalla ricerca e costruzione delle basi comuni (common ground).
libro "Parliamoci Chiaro" di Daniele Trevisani

Per approfondimenti vedi:

Articolo estratto dal testo “Parliamoci Chiaro: il modello delle quattro distanze per una comunicazione efficace e costruttiva” copyright Gribaudo Editore e Daniele Trevisani, pubblicato con il permesso dell’autore.

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Nell’articolo a seguire tratteremo diversi argomenti: in primis si parlerà della formazione alla comunicazione efficace, successivamente si tratterà l’irrigidimento cognitivo, come riconoscerlo e superarlo, ed infine si approfondirà il tema della cultura come stato di coscienza.

Un progetto o corso/percorso sulla comunicazione efficace e sullo sviluppo personale può e deve insegnare alle persone a scoprire ciò che non sanno, le cosiddette “incompetenze inconsapevoli”.

I grandi capitoli formativi per apprendere a ridurre l’incomunicabilità sono:

  • la nostra identità e le identità multiple, il nostro ruolo e i ruoli multipli e il modo in cui influenzano la nostra comunicazione.
  • codici comunicativi e gli stili comunicativi, sul piano sia verbale che paralinguistico e non verbale, sino alla comunicazione polisensoriale e multicanale. Imparare a comunicare anche con codici comunicativi diversi dai nostri abituali è fondamentale, poiché la comunicazione è una competenza, e va allenata portando le persone fuori dalla zona di comfort, a sperimentarsi su nuove modalità comunicative. 
  • comprendere come si manifestano i nostri valori, le convinzioni, le credenze più profonde e gli atteggiamenti centrali e periferici e come trasmetterli nel modo più efficace. Imparare a cercare la base comune (common ground). 
  • comprendere come il nostro vissuto relazionale, esperienziale ed emotivo può essere elaborato e analizzato per scoprire lezioni di vita e auto-casi.
  • Cercare momenti di vita vissuta comuni, common ground sul piano delle emozioni vissute o altri tipi di common ground esperienziale. 
  • imparare l’ascolto, l’empatia e le tecniche di ascolto attivo. 

Tutto ciò deve essere fatto tramite la formazione attiva ed esperienziale che ci porti verso il nostro obiettivo e risultato. La formazione in comunicazione è un’arte espressiva, deve dare voce alla comunicazione degli aspetti emotivi così come a quelli informativi, perché la realtà è composta da entrambi. 

Lo sviluppo della capacità comunicativa parte sempre dal rendersi conto che non sappiamo fare qualcosa (1), per poi prenderne atto (2), lavorarci sopra anche se l’esecuzione è ancora incerta (3), proseguire fino a che l’esecuzione diventa fluida (4).

Questa operazione di crescita personale continua può farci arrivare anche allo stato di flusso (flow), lo stato di grazia e di piacere che può accompagnare una performance, anche difficile, quando sentiamo che il nostro corpo e la nostra mente stanno rispondendo perfettamente e riusciamo ad entrare in risonanza con l’azione.

Uno dei punti importanti che un corso di comunicazione e sviluppo personale affronta, quando ben condotto, è il fatto di affrontare l’incomunicabilità.  Questo ci aiuta a cambiare la modalità che usiamo nel rapportarci agli altri, uscendo dalla nostra corazza pesante di stereotipi e aprendo nuovi canali di comunicazione, aiutandoci anche ad affrontare situazioni comunicative in cui si insinuano rabbia, litigi, incomprensioni. 

Gli errori o i fallimenti diventano momenti di apprendimento.

Il progresso nelle competenze porta con sé una forza espansiva, aumenta la nostra zona di comfort, fa entrare questioni prima per noi impossibili entro la nostra area di sfida, amplia la nostra visione di ciò che è possibile.

Un corso di comunicazione e sviluppo personale può incidere su: 

  1. le nostre credenze potenzianti e limitanti; 
  2. le nostre convinzioni più radicate su come sia bene agire; 
  3. le nostre abitudini
  4. la nostra identità e come la esprimiamo al di fuori dei nostri contatti comunicativi; 
  5. i nostri valori profondi, inserendovi il valore di una comunicazione di qualità come nuovo riferimento per una vasta gamma di situazioni di vita. 

Possiamo anche affrontare: 

  1. distorsioni comunicative
  2. ambiguità
  3. finzioni, anche attraverso l’osservazione dei segnali deboli che le persone emettono; 
  4. metafore e figure logiche, cioè gli strumenti che danno forza ed enfasi al messaggio, lo rendono più bello, meglio strutturato, più potente ed efficace. 

Quando una persona migliora la propria comunicazione, questo miglioramento si estende ad ogni ambito e territorio della vita, in famiglia e nel lavoro. È bene sviluppare le abilità, coltivare i talenti, dare spazio al potenziale personale di ciascuno, in qualsiasi direzione esso si possa esprimere.

Il problema dell’incomunicabilità ha origini sociali. Nel pieno dello sviluppo della propria espressività, il bambino e l’adolescente imparano che ad essere sinceri nascono problemi, e che dedicare tempo agli altri è una perdita di tempo, o almeno così viene loro fatto credere. Mentre i sistemi educativi formali sostengono l’importanza dell’espressività e della comunicazione, i comportamenti educativi reali insegnano invece esattamente il contrario.

Anche le aziende insegnano questo: la regola basilare del “non fidarsi” è tramandata dall’esperienza degli “anziani” d’azienda ai giovani, creando una condizione di allerta permanente, un clima di sospetto che permea ogni avvio di relazione e ogni comunicazione. 

Tuttavia, tale condizione di “allerta” deve diventare una scelta tattica consapevole da applicare in alcuni momenti, non sempre, e non uno stato costante fissato a priori, una “ingessatura inamovibile” o un blocco cognitivo che impedisce un percorso di crescita. 

Poco a poco, il blocco delle espressioni esterne diventa incapacità di riconoscere ciò che ci accade all’interno e all’esterno. La realtà dei fatti è piena di persone che non riescono a spiegare il proprio bisogno (se si acquista) o il proprio valore (se si vende). 

In queste condizioni, il manager ingessato si trova a fare business, a negoziare, a dover comunicare, esprimersi, a volte persino a dover capire gli altri e ascoltare, e non ci riesce.  Esiste quindi un meta-obiettivo per ogni persona e gruppo: lo sblocco delle rigidità cognitive

È indispensabile lavorare per riconoscere i propri stereotipi e le proprie credenze, agire attivamente per capirli, identificare i propri stati di incomunicabilità, impegnarsi per eliminarla o ridurla, non attendere che la comunicazione migliori passivamente o “per miracolo”, ma impegnarsi in prima persona, come se fosse una priorità assoluta. 

La comunicazione può essere concepita come un contatto tra diversi stati di coscienza, un ponte tra universi mentali distanti.  Ogni cultura mette il soggetto nella condizione di prestare più attenzione a certi aspetti del mondo e di trascurarne o ignorarne altri. 

Secondo l’ipotesi Sapir-Whorf e gli studi di psicolinguistica, lo stesso linguaggio forma una struttura della realtà e plasma la realtà che vediamo. 

Ogni essere umano percepisce la realtà in modo diverso, per cui non esiste “una realtà” ma più realtà, a seconda degli schemi mentali utilizzati per la percezione (multiple reality theory). Un fenomeno esterno (presunta realtà oggettiva) non produce automaticamente la stessa esperienza soggettiva del fenomeno (realtà percettiva). 

Questo per alcuni è inaccettabile: il rifiuto di tale concetto produce rigidità umana e manageriale. L’incomunicabilità nasce persino all’interno dell’individuo stesso, che si trova dissociato tra il proprio Sé cosciente e il proprio inconscio.  

L’individuo che non comunica con sé stesso ha difficoltà a riconoscere i propri stati emotivi, non capisce alcuni dei suoi comportamenti o non sa darsene una spiegazione, vorrebbe essere in un modo e si trova nella condizione opposta. 

Allo stesso tempo, l’individuo che “non si conosce” agisce senza consapevolezza di quali norme, principi, precetti, canoni, direzioni, usanze, linee guida o teorie implicite stia utilizzando. 

In conclusione, il successo della comunicazione dipende: 

  • dalla capacità di mettere in contatto tra di loro le componenti intraindividuali e sbloccare la comunicazione tra le diverse componenti del soggetto stesso; 
  • dal grado di consapevolezza acquisita dal soggetto stesso rispetto alla propria cultura, in termini di valori, credenze, schemi, atteggiamenti e altri tratti culturali acquisiti; 
  • dalla capacità di rimuovere il “rumore di fondo” intrapsichico e attuare una forte presenza mentale durante gli incontri e scambi comunicativi. 
libro "Parliamoci Chiaro" di Daniele Trevisani

Per approfondimenti vedi:

Articolo estratto dal testo “Parliamoci Chiaro: il modello delle quattro distanze per una comunicazione efficace e costruttiva” copyright Gribaudo Editore e Daniele Trevisani, pubblicato con il permesso dell’autore.

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In questo articolo continueremo a parlare della distanza relazionale concentrandoci sui tre conflitti comunicativi (o incomunicabilità) che possono nascere dalla mancanza di codici comunicativi, sfere ideologico-valoriali e referenti condivisi.

Mancanza di codici comunicativi condivisi

Ogni volta che parliamo, emettiamo messaggi, ma non è detto che al destinatario arrivi esattamente il messaggio che noi stavamo pensando. Quando il codice comunicativo è “rotto” o non condiviso, abbiamo una rottura della comunicazione (es: stile comunicativo altoborghese vs. stile comunicativo diretto e offensivo, oppure stile pessimista vs. stile ottimista, ecc…)

Quando due stili invece sono diversi ma hanno alcuni gradi di similarità, la comunicazione si fa più piacevole, e possibile. È l’esempio di uno stile ottimista che incontra uno stile positivo, oppure di uno stile accademico che incontra uno stile scientifico, e tante altre possibilità. 

La completa rottura di codice, o completo breakdown comunicativo, avviene quando si utilizzano due lingue dalle radici molto diverse (per esempio tedesco vs. coreano) in un canale che non permette la visualizzazione del comportamento non verbale, e senza possibilità di traduzione.  

Utilizzare due lingue completamente diverse (o solo in parte diverse) nel parlato aiuta già a far passare qualche messaggio tramite il canale paralinguistico e le espressioni facciali: per cui, anche se non è possibile entrare nei dati della comunicazione in corso, è possibile coglierne i toni. 

I suggerimenti principali sulla D2 sono di cercare di capire i codici della controparte e fare sforzo di adattamento, accettare anche di negoziare i contenuti della conversazione, e per la parte tecnica della trasmissione, fare messaggi brevi, con pause, per favorire l’elaborazione dei messaggi stessi. 

Mancanza di sfere ideologico-valoriali condivise

Dato che non esistono due visioni del mondo assolutamente uguali, dobbiamo concedere alla comunicazione il suo status vero, di ponte tra realtà diverse, di collegamento tra diversità. 

Quando le diversità si fanno troppo ampie, incompatibili, la rottura della comunicazione diventa un fatto concreto. Spesso sono le sfide, quelle vere, come il far crescere figli, incontrare difficoltà economiche o lutti e malattie, a far venire fuori i valori veri e gli atteggiamenti latenti, che non sarebbero mai emersi senza la crisi. In questa condizione, è possibile che il legame si rafforzi ancora di più, o che invece si vada al breakdown o rottura della comunicazione e della relazione. 

Un suggerimento importante per la D3 è quello di comunicare sapendo in partenza che troveremo differenze valoriali, ideologiche, di atteggiamenti e di credenze, e di non pretendere di trovare nostri cloni, ma accettare di comunicare nelle diversità.

Mancanza di referenti comuni

Facciamo il punto. L’incomunicabilità viene descritta nel modello delle Quattro Distanze come uno stato dovuto alla presenza di una o più “distanze” tra i due comunicatori. 

  • D1 – Prima Distanza: differenze nei ruoli e nelle personalità, tali da rendere impossibile l’accettazione del ruolo e quindi da rompere la comunicazione per non accettazione dei ruoli dell’altro o della relazione” 
  • D2 – Seconda Distanza: differenze sul tema della conversazione oppure incomunicabilità di codice, cioè il fatto di non avere un codice comune e condiviso per poter comunicare, che si tratti di una lingua vera e propria, o di uno stile comunicativo almeno in parte comune. 
  • D3 – Terza Distanza: divergenze nei valori, nelle ideologie, nelle credenze personali di portata tale da rendere totalmente incompatibili tra i due comunicatori e da bloccare la comunicazione o provocare il ritiro di una delle due parti non appena emergono. 

Dopo questo riassunto delle prime tre distanze, passiamo alla D4 (Distanza Referenziale). Il tema della D4, e della rottura della comunicazione sulla D4, riguarda l’incomunicabilità delle esperienze, o il fatto di avere avuto esperienze completamente diverse di una situazione, o di non aver mai condiviso un certo referente, sia esso un oggetto, una situazione, o uno stato emotivo.

Ci sono esperienze che sono difficilmente comunicabili, altre che non sono comunicabili per niente. Lo sforzo della comunicazione empatica, infatti, è comprendere esperienze e stati d’animo che noi non abbiamo potuto vivere, capendoli come se fossimo la persona che parla. Per certi temi, invece, esiste una sostanziale incomunicabilità di fondo, soprattutto per le sensazioni fisiche, viscerali e corporee (bodily-felt sense). 

Se non sono mai stato su un taxi colorato a tre ruote, la mia immagine mentale del taxi sarà quella che si è formata in base alla mia esperienza di vita.  E se due persone interagiscono usando lo stesso termine, per due esperienze di vita o oggetti mentali diversi, abbiamo una rottura comunicativa. 

In altre parole, spesso pensiamo di parlare della stessa cosa, ma non lo stiamo facendo. Parlarsi chiaro vuol quindi dire anche spendere qualche parola in più per “metacomunicare”, per “parlare delle parole”, per spiegare i termini e la nostra immagine mentale collegata.

La D4 ci parla anche delle esperienze intraducibili, quelle che puoi condividere solo ed unicamente con chi ha avuto la stessa, o simile, esperienza (es: partorire). Questo vale per tutte le azioni che l’altro con cui comunichiamo non abbia esperito direttamente. 

Un concetto fondamentale per la comunicazione è quello del felt sense, o “sensazione provata”, sviluppato da Carl Rogers. Questo concetto è importante perché ci avvicina alla vera natura della comunicazione. L’incontro e lo scambio comunicativo sono sempre connotati dai tentativi di espressione di qualche tipo di sensazione difficile da esprimere, un incontro comunicativo tra i felt sense. Il “ponte” che la parola e il messaggio cercano di costruire è tra i felt sense delle persone, per cui non c’è da meravigliarsi di quanto sia difficile comunicare alle persone correttamente come stiamo, ascoltare ed essere chiari quando il tema conversazionale riguarda i sentimenti e le emozioni, gli stati d’animo, e non oggetti fisici. 

In altre parole, stiamo attenti a dare per scontato di essere capiti facilmente, e di capire facilmente i concetti altrui. Teniamo sempre attivo l’allarme che ci segnala quanto sia facile e probabile che avvengano incomprensioni e malintesi, e molto probabilmente avremo ragione. 

libro "Parliamoci Chiaro" di Daniele Trevisani

Per approfondimenti vedi:

Articolo estratto dal testo “Parliamoci Chiaro: il modello delle quattro distanze per una comunicazione efficace e costruttiva” copyright Gribaudo Editore e Daniele Trevisani, pubblicato con il permesso dell’autore.

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Nelle prossime righe riassumiamo i concetti del Modello delle Quattro Distanze, cercando di riunirle sotto quella che viene definita “distanza relazionale”, cioè l’insieme delle differenze e delle similitudini che creano rispettivamente lontananza o vicinanza comunicativa verso l’altro.

La distanza relazionale complessiva tra persone può essere visualizzata come la distanza che separa due quadrilateri, dove ciascun quadrilatero rappresenta un sistema-persona. 

distanza referenziale

Il soggetto A è portatore:  

  1. della sua biologia e fisiologia, della sua identità, ruolo e visione di sé; 
  1. ha il suo personale codice comunicativo, un personale repertorio linguistico-comunicazionale; 
  1. ha una propria ideologia, visione del mondo, valori e credenze; 
  1. ha un proprio passato, un proprio patrimonio di esperienze e vissuto. 

Lo stesso accade per il soggetto B:

  1. ha una sua biologia e fisiologia, una sua identità, ruolo e visione di sé, simili o diversi rispetto ad A; 
  1. ha il suo personale codice, un repertorio linguistico-comunicazionale, che può essere diverso o simile a quello di A; 
  1. ha una propria ideologia, una visione del mondo, dei valori e delle credenze, simili o diversi rispetto ad A; 
  1. ha un proprio passato, un proprio patrimonio di esperienze e di referenti, simili o diversi rispetto ad A. 

I due soggetti, quindi, esperiscono distanza, diversità. Possiamo rappresentare fisicamente tale distanza e diversità come un modello fisico, ove i due riquadri siano posti ad una certa distanza l’uno dall’altro. 

Ogni persona detiene un proprio repertorio, una “bolla di contenuti” che ricopre i punti cardinali della propria matrice. L’incontro tra persone, essenza stessa della comunicazione, è un incontro tra queste aree:  

  • l’incontro tra due biologie diverse e due diverse identità
  • l’incontro tra lingue, stili comunicativi e sistemi di codifica diversi  
  • l’incontro tra ideologie e visioni del mondo diverse  
  • l’incontro tra esperienze e storie di vita diverse. 

Il problema dell’incomunicabilità è proprio relativo a quanta area comune esista tra queste sfere. 

Una delle attività più significative è quella della definizione dei confini delle proprie sfere personali e della comparazione con quelle altrui, per valutare quale sia il possibile grado di interculturalità e di diversità, e quali siano le reali possibilità di comunicare. 

Comunicare, per definizione, è mettere in comune, condividere, e questo è possibile solo quando riusciamo a creare qualche forma di common ground, di “terreno comune”. Ogni volta che riusciamo a comunicare, si compie un miracolo. 

Le due principali attività nella definizione dei confini sono: 

  1. conoscere e rivisitare noi stessi, i nostri diversi ruoli, i modi con cui comunichiamo, i nostri valori, la nostra storia personale; 
  1. comprendere l’altro, sia con uno sforzo empatico che con una osservazione e un ascolto attivi, e in particolare comprendere le identità che si attribuisce, gli stili comunicativi che usa, i valori che trasudano dal suo parlare, le esperienze e la storia personale che emergono dal discorso. 

Delle due, certamente l’area del “conoscere sé stessi” è la più importante, perché le persone di fronte a noi cambiano, ma conoscere noi stessi meglio ci permette di avere almeno la metà di un processo comunicativo sotto controllo, la nostra. 

Ma cosa accade quando la distanza tra Self è assoluta?

Una relazione fallisce quando le persone che sono coinvolte non accettano in alcun modo il ruolo che l’altro propone, e avviene una negazione reciproca del ruolo. 

Questa casistica include i fenomeni per i quali la comunicazione viene interrotta o a volte nemmeno iniziata per via di ruoli incompatibili tra di loro e include anche i fenomeni di natura fisico-biologica, come il tentativo di comunicare concetti complessi ad un infante, o viceversa il tentativo di comunicare ad un anziano con capacità cognitive completamente deteriorate. 

Con portata inferiore, ma pur sempre inerente la rottura della D1, sono i dinieghi cortesi, formule di cortesia per dire no senza creare offesa esplicita, considerati una forma di down-keying conversazionale (riduzione del tono emotivo). I fenomeni di up-keying sono invece i momenti di incremento della temperatura emotiva di una conversazione. 

Continua…

libro "Parliamoci Chiaro" di Daniele Trevisani

Per approfondimenti vedi:

Articolo estratto dal testo “Parliamoci Chiaro: il modello delle quattro distanze per una comunicazione efficace e costruttiva” copyright Gribaudo Editore e Daniele Trevisani, pubblicato con il permesso dell’autore.

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Dopo aver terminato, con l’ultimo articolo, la sezione legata alla distanza dei codici comunicativi (D2), proseguo con il 4 Distances Model introducendo qui di seguito la terza distanza, quella legata alle differenze di visione del mondo, di ideologie sottostanti la visione della vita, di valori e di credenze su come funziona il mondo fisico e sociale.

La componente più hard del modello nella D3 riguarda i valori di fondo della persona, quelli talmente interiorizzati che risulta quasi impossibile scalfirli o cambiarli: al solo tentativo di toccarli per metterli in discussione, si ottiene una immediata reazione difensiva o di attacco. 

I lati più soft del modello sono le credenze superficiali e gli atteggiamenti superficiali, quelli che sono più disposto a cambiare: per esempio, cosa penso dei fast-food, della Francia, degli Stati Uniti, ecc. Nessuna credenza e nessun valore però va dato per scontato, pensando che l’altro “per forza la dovrebbe pensare così”.  

La differenza nella visione del mondo è subdolamente impalpabile, tanto permea la vita quotidiana in modo pervasivo, mai dichiarato.  Spesso infatti le distanze su questo piano sono molto forti nonostante le apparenze.  

Un esempio palese è quello degli orari di lavoro. Vi sono persone che vivono in un sistema nel quale è fondamentale dare l’esempio lavorando più dei collaboratori. Altri, al contrario, credono fermamente nel fatto che la presenza costante non serva e che siano utili altri modelli per dare l’esempio: presenze rare ma significative, poche riunioni ma con una scaletta pregnante e temi robusti e scottanti. 

Troviamo differenze molto forti, anche ideologiche, su quale sia lo stile di leadership più efficace, sul grado di delega e responsabilizzazione da attuare, sul modo di controllare e gestire le persone (people management), su quale e quanta formazione fare e così via.

In azienda, le diverse visioni su come l’azienda o la leadership vada gestita, sono vere mine vaganti nel rapporto tra i membri di una direzione aziendale e in una comunicazione di natura aziendale. 

Edgar Schein mette in guardia i consulenti (e più in generale i manager) dal considerare le differenze culturali alla leggera. Nell’identificare le possibili cause di malintesi, Schein include gli assunti culturali indiscussi. come causa di primaria importanza.

Ma cosa sono questi  assunti culturali indiscussi?

Dobbiamo renderci conto che il medesimo comportamento può assumere significati diversi in ambiti culturali differenti.

Per fare un esempio, il grado di disaccordo o accordo può essere dichiarato in modo aperto o nascosto, a seconda delle culture aziendali con cui si tratta. Nei contesti pubblici di comunicazione si assiste spesso alla “difficoltà di dire no” a colleghi o clienti che vengono percepiti come importanti e di status superiore, ma anche a clienti di grandi dimensioni. Liberarsi da questa sindrome è indispensabile per il comunicatore, così come assumere la capacità di farlo nel modo adeguato.  

Una delle principali trappole comunicative è quella di dare per scontato che i dettagli siano così evidenti, così autoesplicativi, da non richiedere lavoro di esplicitazione e comunicazione. 

Questo accade soprattutto quando le differenze culturali vengono minimizzate o non prese in adeguata considerazione, o semplicemente non viste da una o entrambe le parti, esponendoci alla problematica delle micro-culture personali, dei micro-dettagli apparenti, non negoziati, che invece dovevano essere negoziati.

Senza una negoziazione iniziale, che permetta ai due interlocutori di trovare un’intesa, una base comune dalla quale partire, si rischia di sfociare in malintesi e incomprensioni, che portano alla vittoria dell’incomunicabilità sulla comunicazione efficace.

Le interculturalità che si possono presentare sono di diverso tipo: le interculturalità trans-generazionali, per esempio, legate a persone di età diverse, sono forme di “interculturalità debole”. Debole non perché poco incisiva, ma perché scarsamente riconosciuta come comunicazione tra culture diverse. Altre forme di interculturalità “forti” sono invece quelle classiche in cui ci si cimenta tra nazioni diverse, etnie diverse, distanze culturali ampiamente riconosciute.

In questi casi è possibile il ricorso ad esperti della cultura locale che fungano da “interpreti culturali, i quali possono evitarci la caduta in “trappole comunicative”, dalle più banali, come il saluto corretto, alle più complesse, come capire quali argomenti conversazionali evitare in una certa cultura. 

Capire la cultura della persona con cui comunichiamo può facilitare la decodifica del comportamento, la comprensione del messaggio latente. Per esempio, un manager americano che si trovi ad operare in Italia per la prima volta può essere fuorviato da letture sugli stereotipi degli italiani e pensare che un forte ritardo sia caratteristica della cultura italiana. Applicare questa regola con un imprenditore italiano può invece costare caro, poiché nella cultura imprenditoriale italiana la puntualità è sinonimo di cortesia e rispetto, mentre nella cultura amicale è invece concessa una maggiore tolleranza.  

Ogni azione può avere decodifiche diverse e solo il ricorso ad esperti della cultura locale può aiutare a collocare un comportamento entro un range di “normalità culturale” o a definirlo come manifestazione extra-culturale da attribuire più all’individuo che alla sua cultura nazionale o etnica.

Simili occorrenze sono occorse nelle esperienze dello Studio Trevisani in occasione dell’applicazione di tecniche di feedback professionale (360 Survey: valutazioni manageriali a 360 gradi) su richiesta di multinazionali USA per le proprie filiali italiane. Gli esercizi che mettevano in pubblico l’immagine del soggetto, e davano in pubblico una chiara percezione del valore professionale percepito, delle forze e delle lacune, venivano assolutamente rifiutati nonostante le forti pressioni dell’organizzazione nel volerli fare a tutti i costi. I manager italiani si sono semplicemente rifiutati di farlo. 

Questo è accaduto poiché le culture latine sono tendenzialmente private e sospettose e soffrono la critica, soprattutto quella personale, molto più delle culture anglofone. Per questo è bene evitare che le persone parlino di altri presenti in sala in un contesto pubblico, mentre potranno tranquillamente farlo in un contesto privato e interpersonale.

Per concludere, il lavoro comunicativo fatto di attenzione all’ascolto dei valori altrui, a come i valori si concatenano in azioni, comportamenti, scelte, a quanto essi sono diversi dai nostri, e persino al fatto di esplicitare le differenze che troviamo e discuterne, è un elemento fondamentale del comunicare chiaro.

libro "Parliamoci Chiaro" di Daniele Trevisani

Per approfondimenti vedi:

Articolo estratto dal testo “Parliamoci Chiaro: il modello delle quattro distanze per una comunicazione efficace e costruttiva” copyright Gribaudo Editore e Daniele Trevisani, pubblicato con il permesso dell’autore.

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Conclusi gli articoli sulla prima distanza e sull’Analisi Transazionale, ci spostiamo a parlare della seconda distanza, quella dei codici comunicativi, di cui seguirà una breve introduzione.

Noi umani comunichiamo con codici linguistici, paralinguistici e non verbali, utilizzando sia una “lingua” (italiano, francese, tedesco) che uno stile o sottocodice di quella lingua (ottimista, pessimista, burocratese, ironico, ecc.) 

Un aspetto fondamentale della conversazione è la comunicazione non verbale: il linguaggio del corpo può esprimere una grande varietà di significati, che “trasudano” e irrompono nella comunicazione anche senza il controllo diretto dei soggetti. 

Altrettanto importante è il sistema paralinguistico, fatto di toni, accenti, enfasi su parole o parti del discorso, silenzi, e tutto quanto riferisce al “non verbale del parlato”. 

Per riassumere, i canali principali attraverso i quali il comunicatore può lanciare messaggi sono composti dal sistema paralinguistico, dal body language e dagli accessori personali, inclusi l’abbigliamento e il look generale. 

Parlarsi chiaro richiede un linguaggio corporeo che accompagni il testo verbale, senza dare però per scontato che le persone con cui interagiamo abbiano studiato la comunicazione non verbale. Per comprendersi infatti è necessario esprimersi apertamente, mentre per dare vita ad una comunicazione costruttiva è fondamentale creare rapporto.

L’atteggiamento percepito nell’altro dipende in larga misura dal “come” viene espresso il comportamento, piuttosto che dal contenuto linguistico, il quale rimane alla superficie del rapporto stesso. In profondità, il rapporto è determinato dagli atteggiamenti del corpo e da tutto il repertorio non verbale del comunicatore, il quale deve sempre considerare la possibilità che alcuni segnali di atteggiamento utilizzati nella propria cultura siano colti in modo anche diametralmente opposto in una cultura diversa e che il suo stile non sia capito, che sia frainteso, o che proprio non piaccia. 

Atteggiamenti non verbali e corporei sbagliati possono portare facilmente ad una escalation (salita di tensione, nervosismo e irritazione), mentre il compito del comunicatore efficace è quello di creare de-escalation: moderazione dei toni, clima rilassato, ambiente favorevole alla comunicazione.  

L’obiettivo generale della comunicazione infatti è di essere efficaci e raggiungere risultati, il che prevede generalmente un clima di cooperazione.   

Come già accennato, ogni cultura usa regole non verbali diverse, ma in assenza di precise indicazioni che provengano da conoscitori aggiornati della cultura stessa, possiamo utilizzare come base di partenza alcune regole generali di buona comunicazione per ridurre il potenziale di errore, come esposto dal Public Policy Center della University of Nebraska: 

  • tono di voce pacato, non aggressivo; 
  • sorriso, per esprimere accettazione dell’altro; 
  • espressione facciale di interesse; 
  • gesti aperti; 
  • permettere alla persona con cui si sta parlando di dettare le distanze spaziali tra di voi (le distanze spaziali variano ampiamente da cultura a cultura); 
  • annuire, dare cenni di assenso; 
  • focalizzarsi sulle persone e non sui documenti presenti sul tavolo; 
  • piegare il corpo in avanti in segno di interesse; 
  • mantenere una condizione di relax; 
  • tenere una posizione a L, disporsi non di fronte (posizione confrontazionale), ma su due lati vicini del tavolo. 

Teniamo a sottolineare che queste indicazioni di massima sono solo “possibili opzioni” e devono essere di volta in volta adattate alla cultura di riferimento. 

libro "Parliamoci Chiaro" di Daniele Trevisani

Per approfondimenti vedi:

Articolo estratto dal testo “Parliamoci Chiaro: il modello delle quattro distanze per una comunicazione efficace e costruttiva” copyright Gribaudo Editore e Daniele Trevisani, pubblicato con il permesso dell’autore.

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Con questo articolo vorrei concludere il discorso dell’Analisi Transazionale, anche se la vastità dell’argomento richiederebbe sicuramente maggiore attenzione. Per il momento però dedicherò qualche ultima importante riflessione sul tema con l’aggiunta di alcune considerazioni sull’influenza dello stress nella comunicazione e sul linguaggio non verbale nell’Analisi Transazionale.

Lo stress nella comunicazione

Lo stress colpisce anche la comunicazione.

Nell’analisi transazionale notiamo un nesso tra il tipo di comunicazione che una persona usa, e lo stato di personalità che lo esprime, con il ruolo dello stato Adulto a fare da controllore sugli altri due stati. 

Lo stress però può incidere sulla capacità dello stato Adulto di fare da semaforo e coordinatore degli altri stadi. Quando diventa acuto infatti, le capacità di problem solving razionale calano drasticamente, incluse la capacità e lucidità per lavorare con lo stato di personalità giusto, con conseguenze pesanti sulle modalità comunicative.  

Lo stress, letteralmente, “uccide” la buona comunicazione e lascia spazio al peggio del repertorio di ciascuno. Blocca e ostacola l’ascolto, crea malintesi, attacchi e fughe, in altre parole, fa danni. 

La persona sotto stress si trova a rispondere con modalità che non gli apparterrebbero in condizioni normali, come ad esempio acconsentire a risposte cui vorrebbe veramente dire di no, oppure scattare immediatamente all’attacco anche quando non vi sia stata una situazione comunicativa che lo richiedeva veramente.

AT e comunicazione non verbale

Gli aspetti paralinguistici e non verbali del messaggio sono soggetti alle stesse regole di emissione e di interpretazione di quelli verbali. Ovvero, i segnali che noi emettiamo non verbalmente possono significare richiesta di aiuto ed essere interpretati come provenienti da B, oppure possono contenere elementi di G (per esempio: occhi stretti, mascelle serrate, tono adirato, ecc…), oppure apparire provenienti da A (tono disteso, espressioni normali, postura adeguata e sicura, senso di benessere). 

I segnali non verbali possono essere consonanti con le espressioni verbali, e in questo modo rinforzarne il messaggio, oppure essere dissonanti. Messaggi dissonanti, in cui le componenti verbali sembrano provenire da uno stato psicologico diverso rispetto a quello interpretabile dal messaggio verbale, creano transazioni doppie, dando luogo ad una percezione o di insincerità o di mancanza di equilibrio.  

L’interpretazione da parte del ricevente dà comunque un maggiore peso agli aspetti non verbali, al “come” viene detto o espresso un messaggio, invece che al “contenuto manifesto” del messaggio.

In caso di dubbio, e non potendo per qualche motivo chiedere spiegazioni, la probabilità che la verità sia nella componente non verbale, corporea, osservata con gli occhi, è infatti molto alta.

Qualche ultima riflessione sull’AT

Il tipo di transazione più proficua in un contesto organizzativo è quello da Adulto ad Adulto. Al fine di evitare l’insorgere di transazioni errate (G-B o B-G), è consigliabile, secondo Harris, “contare fino a dieci”, per dare modo alla parte Adulto di organizzare i dati e separare Genitore e Bambino dalla transazione. 

Ogni situazione comunicativa (SITCOM) ha proprie esigenze e modalità migliori per quanto riguarda l’assetto transazionale da adottare. Se ne parliamo in termini di vendita, è essenziale saper coltivare le capacità relative al Genitore di tipo naturale o affettivo, poiché proprio questo stato consente di attivare le relazioni di aiuto relative all’approccio consulenziale, e all’ Adulto, per poter trovare soluzioni e fare problem solving.  

Al fine di uno sviluppo armonico delle proprie capacità comunicative, è bene imparare a conoscersi, conoscere quanto di Bambino vi è in noi, quanto di Adulto e quanto di Genitore, ed in quale misura la componente Adulto è in grado di organizzare e integrare le altre componenti, sfruttandone le ricchezze.  

L’esercizio nell’utilizzo dello stato Adulto nelle interazioni quotidiane sul lavoro può aumentare il livello di professionalità e competenza percepita, nonché l’efficacia delle nostre interazioni personali.  

L’emittente di un messaggio deve porre molta attenzione a come impostare il messaggio (stimolo), ma altrettanta attenzione va posta alla fase di decodifica dei messaggi altrui. Quando una reazione poco appropriata rischierebbe di danneggiare la relazione è bene cercare di interpretarne meglio il senso, facendo probing (per esempio “intendi dire che…”, oppure “se ho capito bene, il senso del tuo messaggio è…”), oppure riformulando il messaggio ricevuto, così da essere certi del messaggio della controparte e rispondere di conseguenza.

libro "Parliamoci Chiaro" di Daniele Trevisani

Per approfondimenti vedi: