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Il bene come scopo dell’etica

Secondo Aristotele, ciò a cui mira l’etica è il bene umano: per gli uomini in generale, è individuato nella politica, nella vita collettiva e anche nella vita individuale. In quest’ultima, uno dei fini a cui è possibile puntare è sicuramente la felicità. Dunque, l’etica è la scienza delle azioni che conducono l’uomo alla felicità.

La felicità consiste nell’esercitare al meglio la funzione che è propria dell’uomo, realizzando la virtù ovvero l’eccellenza o la perfezione. L’etica Niconomachea spiega l’etica dal punto di vista di Aristotele, componendo il discorso in dieci libri.

L’opera ha inizio tramite la spiegazione che l’attività dell’uomo ha come proprio fine il bene. Il fine e bene ultimo, viene identificato come il Sommo Bene.

Per ogni vivente, il sommo bene è la felicità e poichè questa è perseguita da tutti gli uomini, la determinazione del suo concetto è compito della scienza politica, che costituisce per Aristotele il vertice stesso dell’etica.

La definizione di concetto di felicità relativo all’uomo singolo deve fondarsi sulla natura stessa dell’uomo. Ora, poichè l’uomo è un essere razionale, la felicità per lui non può prescindere dall’esercizio della sua facoltà principale, che è la ragione. Quando essa viene usata correttamente, da origine a quella che viene definita come virtù dianoetiche:

  • Arte, ovvero la capacità di produrre un qualsiasi tipo di oggetto
  • Saggezza, ovvero la capacità di ragionare in modo razionale sulle questioni riguardanti buono e cattivo
  • Intelligenza, ovvero la capacità di cogliere le origini di tutte le cose
  • Scienza, ovvero la capacità di dimostrare e verificare
  • Sapienza, ovvero la capacità di conoscere come unico fine, senza necessariamente riversare queste conoscenze nella produzione di oggetti reali

Quando invece la ragione contiene sentimenti e pulsioni, nascono le virtù etiche o morali. Esse sono i frutto delle abitudini di comportamento in maniera misurata e moderata e l’uomo diventa virtuoso scegliendo il giusto mezzo tra gli estremi.

La principale virtù etica è la giustizia. La giustizia legale rappresenta per Aristotele la virtù intera e perfetta per quanto riguarda i rapporti con gli altri. L’uomo che rispetta tutte le leggi imposte è necessariamente un uomo virtuoso.

Esiste anche la giustizia particolare, che consiste nell’agire in vista di un guadagno per quanto riguarda i rapporti con gli altri. Ne esistono due diversi tipi:

  • Distributiva
  • Commutativa

Quella distributiva è quella che distribuisce a tutti secondo i propri meriti. Quella commutativa mira a pareggiare i vantaggi e gli svantaggi tra le persone coinvolte.

Copyright Daniele Trevisani, www.studiotrevisani.it anteprima editoriale, vietata la riproduzione non autorizzata. Per ricevere aggiornamenti sulle novità editoriali, è possibile iscriversi alla Rivista Communication Research e Potenziale Umano

Gli esseri umani hanno almeno tre strati cerebrali, il cervello rettile o “antico” che ha propri linguaggi e proprie esigenze (riproduzione, fame, sete, protezione), il cervello mammifero o intermedio, che si occupa del sentire emozioni e curare la prole, e la neocorteccia che si occupa del ragionamento, della logica, del “cosa è culturalmente bene fare” e cerca di capire cosa è appropriato e logico fare.

Molto spesso tra questi strati avvengono potenti cortocircuiti, dissonanze tra pulsioni che spingono verso direzioni diverse, e noi stessi siamo spiazzati o diventiamo poco certi dentro, o poco efficaci fuori.

Possiamo dire, che quando avvengono questi cortocircuiti, “perdiamo la bussola”, ci sentiamo disorientati, non sappiamo più dove sia il vero nord della nostra esistenza, o altri punti di rifermento, oppure i riferimenti cambiano così rapidamente all’interno di noi che ci troviamo spiazzati, in una scelta difficile,  soffriamo come se fossimo privi di schemi, vogliamo un’opzione ma anche il suo contrario, senza sapere perché.

Spesso, la ragione è scientifica: i nostri tre strati cerebrali vogliono cose diverse. Ciascuno ha le sue esigenze. E metterli daccordo, è un grande sforzo, è difficile, a volte impossibile.

Ripristinare una coscienza e una competenza sul collegamento e sul dialogo interno tra questi strati cerebrali è una delle massime sfide di sempre, per l’essere umano e per la comunicazione olistica. Quando i nostri tre cervelli entrano in sinergia, troviamo una forza interiore incredibile e proviamo sensazioni di grande unificazione sia interna (il contrario del sentire una frammentazione interiore) che chiarezza su cosa vogliamo nei rapporti con gli altri.

Non è un caso che diversi programmi tra i centri universitari più avanzati abbiano iniziato ad offrire programmi per il rafforzamento della consapevolezza di sè  e dei propri punti fermi interiori. Ne sono un esempio i programmi denominati “True North Groups”, della Harvard Business School dove “vero nord” è una metafora per indicare la ricerca della propria bussola interiore[1].

E’ non è nemmeno un caso che ad offrirli siano propri Business Schools. Siamo circondati da due opposti “mega-messaggi” che tirano la nostra giacca da direzioni opposte: (1) fai soldi, i soldi sono la prova del tuo successo; (2) il successo è fatto di relazioni, valori umani, spiritualità, non dai beni materiali che possiedi.

Presi tra questi due poli, arranchiamo cercando sia l’uno che l’altro con fatica, cercando con altrettanta fatica un equilibrio.

Le aziende, altrettanto, faticano a trovare un bilanciamento sano tra l’attenzione al lato umano, e le urgenze di produrre, fare vendite e profitto. Come se fossimo agli albori della civilizzazione questi due poli sembrano inconciliabili. Nell’approccio olistico, non lo sono.

La tradizione orientale pratica questa ricerca della consapevolezza interiore da sempre, in particolare nella tradizione Buddhista.

Chi pratica comunicazione olistica può interessarsi con la stessa intensità al lato strategico della comunicazione (es: come costruire una negoziazione, o come attivare persuasione) che al lato culturale e poetico, umanistico.

La passione per la comunicazione porta ad uno dei due estremi: l’identificazione con una scuola unica, dogmatica, o l’accettazione necessaria di una grande realtà: la comunicazione è un laboratorio, che dura tutta la vita.

La comunicazione olistica ha inoltre un’altra proprietà: va vissuta. Non è sufficiente studiarla. Chi ama il nuoto non si accontenta di leggere un manuale sul nuoto, ma vuole entrare in acqua. Allo stesso modo, la comunicazione olistica è soprattutto utile per chi deve generare cambiamento e produrre effetti. Che si tratti di curare e guarire le persone attraverso la comunicazione, di formare le persone, di costruire strategie di miglioramento, o di usarla per cambiare le proprie vite.

Possiamo viverla in ogni situazione. Ad esempio:

  • Comunicazione intima, interpersonale, familiare
  • Comunicazione professionale e manageriale
  • Comunicazione in pubblico
  • Comunicazione funzionale (diretta verso uno scopo da raggiungere)
  • Comunicazione affettiva (scambiarsi puramente esperienze o emozioni)
  • Comunicazione interna all’individuo stesso (comprensione del proprio dialogo interiore)
  • Comunicazioni istituzionali, aziendali, trattative, negoziati.

Ciò che conta, è che chi pratica comunicazione olistica non si limiti a studiarla teoricamente, a “sapere concetti”. Sapere è bello ma non è sufficiente. Praticare, è molto meglio.

Non esiste un “attestato” o una “laurea” in comunicazione olistica che sostituisca la capacità di una persona di vivere a pieno e fino in fondo l’azione del comunicare.

Che si tratti di ascoltare un figlio, dare istruzioni ad un giocatore o a un team durante una partita, dirigere una riunione, osservare una coppia mentre discute, o “smontare” la struttura di una pubblicità (fare debrayage comunicativo, smontare la struttura di un messaggio o di un segno), di scoprire se quanto una persona ci sta dicendo sia bugia o verità (lie detection), è essenziale distinguere l’aspetto dello “studio teorico” del fenomeno da quello – più centrale per la comunicazione olistica – del “viverlo”.

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[1] In: Goleman, Daniel (2013). Focus. The Hidden Driver of Excellence. Trad It Focus,, Rizzoli editore,  Milano,  p. 94.

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43092406 3927595516_a81db86812 arbeit_macht_freiChi esce dalle Business School, al solo sentire la parola “Vision”, inizia a delirare. Immagina territori inesplorati da conquistare, lande desolate da inondare di prodotti, e se non c’è posto sulla Terra, invaderemo la Galassia… e soprattutto (niente da fare, è così) bisogna arrivare primi. Primi sempre. Primi ovunue. Anche ad andare al cesso, non importa in cosa, ma primi. Leader. Leader di qualcosa ma leader. Azienda Leader anche per fruttivendolo. Sono il leader di Vicolo dei Morti, ma sempre Leader. Arriviamo poi al concetto teorico e teorizzato, drammatico, di “Leader di se stessi” che rappresenta l’opposto assoluto della Psicologia Umanistica, la disfatta del Potenziale Umano, il punto finale di una patologia degenerativa della Vision intesa – girala come vuoi – come dominio. C’è qualche traccia di imperialismo malato qui. Imperialismo persino su se stessi… l’azienda “deve” aumentare il fatturato (a costo di fallire poco dopo), l’individuo “deve” primeggiare e dirigere se stesso (a costo di distruggere il suo sè più profondo o rinunciare a vivere in pace con se stesso)… Non è forse il caso che l’individuo diventi amico di se stesso, compagno di se stesso, anzichè alimentare un meccanismo di padrone vs. schiavo, leader-follower, frusta vs. frustato, persino dentro di noi? Ma se questo è il vero motore della patologia mentale più vera, del delirio di onnipotenza che non lascia pace allo spirito, della non auto-accettazione, della non-autenticità, perchè alimentarlo? Proviamo a pensarci bene, a riflettere, non prendiamo per oro colato quello che dicono i libri, i guru, i formatori, i consulenti, nemmeno i genitori, e tantomeno i manager e CEO. Cerchiamo una Vision dove imparare a convivere con se stessi anzichè a schiavizzarsi in nome di un successo che non ti seguirà nella tomba. Cerchiamo aziende che puntino ad un “fatturato sostenibile”. Solo il cancro tende a crescere sempre. Tutto il resto della natura cerca equilibri sani. Questa può diventare la nostra Vision. Direi, deve diventarlo se vogliamo smettere di vivere in un delirio altrui e iniziare a vivere la nostra vita e la nostra azienda come organismi sani.

La Vision vale sia per un individuo, ciascuno di noi, che
per le aziende. Un’azienda che si prefigga di essere leader
mondiale nelle vendite, nel suo settore, contiene già il seme
del fallimento, poiché, orientandosi alle sole vendite materiali,
produce l’effetto di far cessare l’orientamento al cliente, ai
suoi bisogni più veri, che sono il vero motore.
Essere il migliore nel mondo nel risolvere i bisogni (per
esempio: avere l’obiettivo di diventare i migliori produttori
mondiali di alimenti per l’infanzia) è invece Vision, un motore
morale denso di contenuto: aiutare le madri a nutrire i figli
in modo sano con prodotti buoni. Quando una Vision non
contiene almeno una traccia di moralità, è morta, è qualcosa
di cui vergognarsi.
Puntare a vendere più prodotto è solo un obiettivo
commerciale, non una Vision. La differenza sembra sottile,
ma in realtà è abissale. La Vision è un motore spirituale,
non materiale.

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Copyright, Daniele Trevisani, Anteprima dal volume “Il Coraggio delle Emozioni” www.danieletrevisani.com/emotions

La Natura ha il potere di riportare le persone a contatto con la loro anima vera, con la loro identità più profonda, e con se stessi.

Quando poi un’esperienza nella natura e fatta assieme a qualcuno che decide di aprire i canali della percezione e dell’ascolto, assieme a te, avrai un momento di vita magico, unico, scoprirai che si può comunicare senza parlare e riempirsi il cuore senza comprare

Percepire le forze della natura, sentirle vivere, ed esserne parte, è una forma di intelligenza pura. (Daniele Trevisani)

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(C) Image by Daniele Trevisani

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Articolo Copyright, dal volume di Daniele Trevisani Self Power, Psicologia della Motivazione e delle Performance

Nel 1983, Howard Gardner in Frames of Mind: The Theory of Multiple Intelligences inserisce in letteratura il concetto delle intelligenze plurime o multiple, che includono – tra le altre – questioni fondamentali, come l’intelligenza interpersonale (capacità di relazionarsi, capire gli altri), e l’intelligenza intrapersonale (capacità di capire se stessi, entrare in contatto con i propri desideri, sentimenti, paure, stati d’animo).

Le intelligenze attivabili in ciascuno di noi secondo Gardner sono:

 

  • intelligenza logico-matematica: capacità di astrazione, pensiero logico, ragionamento, uso dei numeri, pensiero critico;
  • intelligenza linguistica: capacità nell’uso della parola e del linguaggio, leggere, scrivere, raccontare;
  • intelligenza visivospaziale: capacità di valutazione degli spazi e visualizzazione mentale;
  • intelligenza musicale e armonica: sensibilità per il suono, ritmo, toni e musica, per gli equilibri e le armonie;
  • intelligenza corporea-cinestesica: capacità di controllo del movimento, del corpo, della gestione di oggetti, dell’azione fisica;
  • intelligenza inter-personale: sensibilità agli stati d’animo, alle relazioni, alle interazioni umane:
  • intelligenza intra-personale: introspezione e auto-riflessione; comprensione dei propri punti di forza, debolezza, unicità, le proprie emozioni e sensazioni;
  • intelligenza naturalistica: interazione con l’ambiente, classificazione di oggetti e cose, ricettività ecologica;
  • intelligenza esistenziale: dimensione religiosa, spirituale, capacità di inserire se stessi e gli eventi in una cornice filosofica[1].

 

Arriviamo poi al concetto delle Intelligenze Fluide. La Fluid Intelligence[2] comprende il ragionare e risolvere nuovi problemi indipendentemente dalla conoscenza prima acquisita. I ricercatori studiano come i circuiti neurali si abituino – ma solo con allenamento e stimoli giusti – ad affrontare problemi nuovi, in una vita che cambia costantemente e sempre più in fretta.

La capacità di adottare una filosofia di vita migliore richiede il saper abbracciare non solo una dimensione, ma quante più possibile.

Un progetto di active learning consente di “chiamare all’opera” tutte le intelligenze di cui siamo dotati, mentre si apprende una specifica materia.

Attiva inoltre l’intelligenza emotiva, mentre l’apprendimento passivo la soffoca.

[1] Gardner, Howard (1983), Frames of Mind: The Theory of Multiple Intelligences, Basic Books, ISBN 0133306143

[2] Susanne M. Jaeggi, Martin Buschkuehl, John Jonides, and Walter J. Perrig (2008), Improving fluid intelligence with training on working memory, Proceedings of The National Academy of Sciences of the USA, vol. 105 no. 19

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Articolo Copyright, dal volume di Daniele Trevisani Self Power, Psicologia della Motivazione e delle Performance