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Spunti e riflessioni sulla dinamica lavorativa

L’orizzonte che ci si prospetta dinanzi a noi è decisamente incerto, tenendo conto solo dei possibili scenari legati allo sviluppo tecnologico. Non ritengo necessario giungere a conclusioni affrettate, ma reputo indispensabile immaginare piccoli e semplici cambiamenti di cui siamo già stati “vittime” in passato.

Lo sviluppo dell’intelligenza artificiale progredirà senza ombra di dubbio, come è sempre stato e sempre sarà per ogni strumento e tecnologia inventata dall’uomo. Abbiamo già vissuto durante le prime rivoluzioni industriali, processi di automazione della produzione che hanno portato ad una sostituzione dell’uomo con determinate macchine. Ma fino a che la produzione necessaria al sostentamento globale non sarà completamente automatizzata, quale futuro ci si prospetta di fronte a noi?

Quello che stiamo vivendo in questo periodo storico coincide, come dice Luciano Floridi, con la quarta rivoluzione (quella digitale). Contemporaneamente, ci stiamo avvicinando al concetto di Industria 4.0 ovvero un insieme di processi di automazione industriale mirati a migliorare le tecnologie di produzione e la qualità del lavoro.

Il concetto di industria 4.0 prende in considerazione il concetto di “fabbrica intelligente [1]”, che si compone di tre diverse parti:

1) Smart Production (produzione intelligente): consistono in nuove tecnologie in grado di creare maggior collaborazione tra uomo, macchina e strumenti produttivi.

2) Smart Service (Servizi intelligenti): consistono in una serie di infrastrutture informatiche e tecniche in grado di integrare sistemi e aziende in modo collaborativo.

3) Smart energy (energie intelligenti): ovvero l’utilizzo di risorse sostenibili.

Per rendere possibile questa rivoluzione dal punto di vista industriale, secondo il Boston Consulting ci sarà bisogno di tecnologie chiamate “abilitanti”: tra queste figurano sistemi avanzati di produzione, simulatori, dispositivi di realtà aumentata, Cloud, sicurezza informatica e Big Data Analytics.

Analizzando i requisiti e le componenti di tale processo innovativo, salta all’occhio come oltre ad i processi di automazione dei sistemi di produzione, giochino un ruolo di fondamentale importanza tutte le competenze e le informazioni legate al “digitale”.

Ma tali fabbriche intelligenti, dotate di macchine intelligenti, non ci rubano il lavoro: è più probabile che ci liberino da esso. Devono sostituirci nelle mansioni più faticose e pericolose, e anche in quelle che richiederebbero per noi uno sforzo mentale enorme.

Come dice Luciano Floridi nel suo saggio “La quarta rivoluzione [2]” sono state create in un “ambiente digitale” che permette loro di esprimersi seguendo leggi che noi stessi gli abbiamo imposto. Gli argomenti trattati all’interno del saggio li analizzerò nel quarto capitolo.

© Cpyright. Estratto dalla tesi di Laurea in Filosofia, Teorie e sistemi dell’intelligenza artificiale, a cura di Federico Malpighi. Alma Mater Studiorum Università di Bologna. Materiale pubblicato per fini didattici e di ricerca con il permesso dell’autore. Riproducibile solo con citazione della fonte originale.


[1] https://it.wikipedia.org/wiki/Industria_4.0#cite_note-8 URL consultato in data 28 agosto 2020.

[2] Luciano Floridi, La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo, Raffaello Cortina Editore, 2014, p. 106.

Quale futuro per la nostra salute ?

In un recente articolo pubblicato dal The Journal of AMD, intitolato Intelligenza Artificiale e Big Data in ambito medico: prospettive, opportunità, criticità. JAMD Vol. 21-3, Nicoletta Musacchio e i suoi collaboratori hanno evidenziato l’evoluzione e l’incredibile aumento delle informazioni digitali, raddoppiate in quasi ogni ambito negli ultimi 2 anni.

Conseguentemente a questo aumento, siamo arrivati ad avere una mole non indifferente di dati, che sono stati definiti come Big Data. Essi sono caratterizzati da quattro componenti, rappresentate dalla lettera “V”: volume, velocità, varietà ed infine veridicità. I Big Data li troviamo oggigiorno anche in ambito medico sanitario, grazie allo sviluppo di quattro differenti fenomeni.

In primis lo sviluppo della diagnostica per immagini digitali, che sta prendendo il posto alle antiquate tecniche di diagnostica analogica. Collegato a ciò, ci sono ovviamente le nuove tecniche di reportistica digitale: tutti noi disponiamo di cartelle e fascicoli elettronici sanitari su cui vengono pubblicati gli esiti delle visite mediche a cui ci sottoponiamo.

Gli altri due punti riguardano temi differenti: lo sviluppo delle biotecnologie impiegate nelle scienze riguardanti la genomica e la trascrittomica; e l’esplosione di quello che viene definito come “Internet of things” (IOT). Il primo di questi due fenomeni riguarda l’indagine che viene effettuata sulle cellule ad un livello sempre più microscopico: l’analisi di ciò e l’elaborazione dei dati ricavati portano alla creazione di un ingente mole di dati.

Infine, l’esplosione delle IOT riguarda l’evoluzione tecnologica che stiamo vivendo ad un livello molto più ampio rispetto al solo settore della sanità (sia essa pubblica o privata). Passare dall’IOT al IOMT (ovvero l’Internet of medical things) è un passo molto più breve di quanto si pensi: basti pensare ai moderni orologi da polso, in grado di tenere conto dei battiti cardiaci, della temperatura corporea e dei movimenti che compiamo in ogni singolo istante.

La vera rivoluzione in ambito di intelligenza artificiale applicata in ambito medico è e sarà sempre di più il machine learning: la capacità di un software di simulare ragionamenti sulla base dei dati forniti permetterà la generazione di modelli predittivi. Tali modelli tramite l’utilizzo di dati storici potranno prevedere eventi futuri (come l’insorgere di malattie). Esistono due differenti modelli: quelli trasparenti e quelli denominati “black box”.

I primi hanno la caratteristica di evidenziare i parametri su cui basano la loro previsione, passando così dall’essere predittivi a “prescrittivi”. Il modello “black box”, a contrario, ci fornisce sì una risposta ma non ci fornisce alcuna giustificazione a riguardo. Questa è una delle criticità legate all’utilizzo dell’intelligenza artificiale in ambito medico: affinché il sistema possa funzionare correttamente dobbiamo disporre di requisiti fondamentali come la qualità, la validità e il corretto utilizzo dei dati a nostra disposizione.

Alcuni di essi provengono da piattaforme che originariamente erano state dedicate a ben altri scopi. Sempre rimanendo in tema di dati, l’importanza fondamentale è che siano digitalizzati: negli archivi sono presenti ancora decine di migliaia di cartelle cliniche inutilizzate a questi scopi.

Ovviamente raccogliere ingenti quantità di informazioni cartacee e racchiuderle in un database è un lavoro molto impegnativo, che deve garantire anche la privacy delle persone interessate. È chiaro ora come l’intelligenza artificiale possa essere di estremo aiuto per le funzioni quotidiane e per l’implementazione di nuovi sistemi sanitari complessi, tuttavia affinché essa possa davvero essere efficiente, è necessario preparare una base solida su cui poter erigere un sistema di tale complessità.

© Cpyright. Estratto dalla tesi di Laurea in Filosofia, Teorie e sistemi dell’intelligenza artificiale, a cura di Federico Malpighi. Alma Mater Studiorum Università di Bologna. Materiale pubblicato per fini didattici e di ricerca con il permesso dell’autore. Riproducibile solo con citazione della fonte originale.

Riflessioni sull’etica delle macchine

Questi sette punti sono stati stilati sulla base di tre diversi presupposti che una qualsiasi intelligenza artificiale deve possedere: legalità, eticità e robustezza. Legalità significa che deve attenersi alle regole e alle leggi presenti e future.

Eticità che deve fare riferimento a principi etici e morali in accordo con quelle che sono gli obiettivi di coesione sociale ed integrazione promulgati dalla comunità europea. Infine, la robustezza sia tecnica che sociale, che renderà l’intero sistema uno strumento sicuro da utilizzare (sistemi di intelligenza artificiale potrebbero causare gravi danni seppur non intenzionali).

I sette punti elencati non devono essere visti come delle regole fisse a cui ogni macchina deve attenersi, quanto piuttosto una linea guida da seguire per la creazione di una legislazione che possa essere usufruibile in futuro[1].

  • Azione e sorveglianza umane: i sistemi di IA dovrebbero promuovere lo sviluppo di società eque sostenendo l’azione umana e i diritti fondamentali e non dovrebbero ridurre, limitare o sviare l’autonomia dell’uomo.
  • Robustezza e sicurezza: per un’IA di cui ci si possa fidare è indispensabile che gli algoritmi siano sicuri, affidabili e sufficientemente robusti da far fronte a errori o incongruenze durante tutte le fasi del ciclo di vita dei sistemi di IA.
  • Riservatezza e governance dei dati: i cittadini dovrebbero avere il pieno controllo dei propri dati personali e nel contempo i dati che li riguardano non dovranno essere utilizzati per danneggiarli o discriminarli.
  • Trasparenza: dovrebbe essere garantita la tracciabilità dei sistemi di IA.
  • Diversità, non discriminazione ed equità: i sistemi di IA dovrebbero tenere in considerazione l’intera gamma delle capacità, delle competenze e dei bisogni umani ed essere accessibili.
  • Benessere sociale e ambientale: i sistemi di IA dovrebbero essere utilizzati per promuovere i cambiamenti sociali positivi e accrescere la sostenibilità e la responsabilità ecologica.
  • Responsabilità intesa anche come accountability: dovrebbero essere previsti meccanismi che garantiscano la responsabilità e l’accountability dei sistemi di IA e dei loro risultati.

Un’intelligenza artificiale accuratamente programmata secondo queste “leggi” sarebbe un grosso passo in avanti per l’uomo, oltre che ad un supporto alla società ineguagliabile.

L’aiuto che può essere offerto riguarderebbe le più svariate forme: dalla medicina, all’ambiente, passando per l’organizzazione delle città (le cosiddette smart cities) e il mondo del lavoro. Esaminiamo ora alcune di queste questioni.

© Cpyright. Estratto dalla tesi di Laurea in Filosofia, Teorie e sistemi dell’intelligenza artificiale, a cura di Federico Malpighi. Alma Mater Studiorum Università di Bologna. Materiale pubblicato per fini didattici e di ricerca con il permesso dell’autore. Riproducibile solo con citazione della fonte originale.


[1] https://ec.europa.eu/digital-single-market/en/news/ethics-guidelines-trustworthy-ai, URL consultato in data 28 agosto 2020.

La legge dei ritorni accelerati

Abbiamo visto precedentemente come la Legge di Moore definisca una curva esponenziale di sviluppo ma ciò rappresenti solamente un caso particolare di una legge più generale: la legge dei ritorni accelerati. Tale legge afferma come la curva descritta dalla prima legge di Moore in realtà sia doppiamente esponenziale. Questo significa che a mano a mano che il nostro progresso tecnologico avanzerà, diminuirà anche il tempo per nuove scoperte.

Quanto detto è stato espresso da Ray Kurzweil in The Law of Accelerating Returns[1]. L’adozione di una nuova tecnologia da parte dell’essere umano determina, all’interno del grafico dello sviluppo, un gradino, su cui si ergerà un’ennesima curva esponenziale. Analizzando quest’ultimo grafico ed estrapolando la velocità d’evoluzione attuale, potremmo iniziare a considerare cosa potrebbe aspettarci da qui a dieci o cento anni a questa parte. Ray Kurzweil ha proposto sei diverse epoche[2], basandosi su quali invenzioni sono state fatte nell’epoca precedente per ipotizzare (o confermare) cosa è stato creato nell’epoca successiva.

Le sei epoche di Kurzweil

La prima epoca è determinata da una massa di informazioni semplice e generale: energia e materia. Si parla di milioni di anni fa, in cui erano presenti strutture atomiche che immagazzinavano informazioni di vario tipo. Dopo il Big Bang (milioni di anni dopo) gli atomi hanno iniziato a formarsi e successivamente è nata la chimica: dall’incontro di atomi, sono nate le molecole. Doveroso menzionare il carbonio, che grazie alle sue caratteristiche atomiche e molecolari, è in grado di combinarsi con altre molecole creando così strutture complesse tridimensionali.

La seconda epoca è invece caratterizzata dallo sviluppo di organismi a partire dal carbonio: il DNA è l’apice di sviluppo di questa epoca, permettendo di trasmettere un numero informazioni sempre maggiore. La terza epoca, seguendo il meccanismo delle precedenti, parte dal DNA per arrivare allo sviluppo di organismi complessi, dotati di organi sensoriali e capacità di memorizzazione delle informazioni raccolta dai sensi stessi: si ha così lo sviluppo di cervelli e sistemi nervosi.

Questa ultima fase ha avuto inizio quando ha avuto inizio, da parte degli organismi, il pattern recognition, ovvero il riconoscimento degli “oggetti” nell’ambiente circostante. Tra tutti gli organismi, l’essere umano è riuscito a compiere dei ragionamenti logico-razionali su ciò che lo circonda, ed applicare in futuro tali pensieri. La quarta epoca si differenzia dalle altre dal momento che il progresso biologico è terminato ed è arrivato al culmine con l’uomo.

D’ora in avanti lo sviluppo riguarderà principalmente la tecnologia: da piccoli e semplici congegni meccanici siamo arrivati oggi a sofisticate apparecchiature elettroniche in grado di gestire e memorizzare una quantità impressionante di dati. Volendo paragonare lo sviluppo biologico e quello “tecnico”, è chiaro come il secondo sia avvenuto in maniera rapida e veloce: sono passati due miliardi di anni circa dall’origine della vita alle cellule, solamente quattordici anni dal primo computer portatile al World Wide Web.

La quinta epoca dovrebbe essere orientata indicativamente da oggi ad un futuro prossimo ed all’interno di essa avremmo la cosiddetta “fusione” tra l’intelletto umano e la tecnologia. Avverrà l’unione definitiva uomo-macchina, la singolarità tecnologica, come è stato spesso raccontato in molte pellicole cinematografiche e romanzi. Questo ci permetterà di ampliare gli orizzonti sia intellettuali che tecnologici, superando così i limiti imposti dal nostro sistema biologico.

Infine, l’ultima epoca delle sei descritte da Kurzweil, prevede un ulteriore evoluzione che permetterà sulla base delle tecnologie della singolarità tecnologica di superare i limiti dell’universo per come è conosciuto oggigiorno. Saremo in grado di trasformare l’intero universo in un complesso sistema intelligente. Sulla base della divisione proposta da Ray Kurzweil è interessante l’argomento portato dall’astronomo russo  Nikolaj Kardašëv, per la classificazione della civiltà umana sulla base della tecnologia che è in grado di produrre.

3.2.1 La scala di Kardashev

Tale scala è divisa in tre diversi tipi, sulla base dell’energia che l’uomo è in grado di produrre nell’ordine dei Watt; ed è utilizzata come base di partenza per il progetto SETI, volto alla ricerca di forme di vita extra terrestre. Una civiltà di tipo I sarebbe in grado di utilizzare tutta l’energia proveniente dal pianeta d’origine (nell’ordine dei 4×1016 watt), una civiltà di tipo II riuscirebbe ad usufruire di tutta l’energia di un intero sistema solare (4×1026 watt), infine una civiltà di tipo III capace di usare tutta l’energia presente all’interno della galassia in cui risiede (4×1036 watt).

Carl Sagan, astronomo e divulgatore scientifico, ha applicato una formula per poter calcolare a che livello si trovi la civiltà umana: ovviamente non siamo ancora una civiltà di primo livello, ma ci siamo molto vicini considerando che il valore corrisponde a 0,75! Magari arrivati al tipo I saremo in grado di usufruire di tecnologie tali da espandere esponenzialmente le nostre capacità, sia all’interno del sistema solare, sia all’interno della Via Lattea.

Iosif Šklovskij, uno dei principali collaboratori di Kardashev, ha affermato, come riportato da Ray Kurzweil in “la singolarità è vicina[3] che è impossibile non aver incontrato nel corso del progetto SETI una qualsiasi civiltà di tipo II o tipo III. Questo viene anche definito come il paradosso di Fermi, attribuito al fisico italiano Enrico Fermi: «Se l’Universo e la nostra galassia pullulano di civiltà sviluppate, dove sono tutte quante?».

© Cpyright. Estratto dalla tesi di Laurea in Filosofia, Teorie e sistemi dell’intelligenza artificiale, a cura di Federico Malpighi. Alma Mater Studiorum Università di Bologna. Materiale pubblicato per fini didattici e di ricerca con il permesso dell’autore. Riproducibile solo con citazione della fonte originale.


[1] Ray Kurzweil, The Law of Accelerating Returns, su kurzweilai.net, 7 marzo 2001. URL consultato in data 20 agosto 2020.

[2] Ray Kurzweil, The Law of Accelerating Returns, su kurzweilai.net, 7 marzo 2001. URL consultato in data 20 agosto 2020.

[3] Ray Kurzweil, La singolarità è vicina, Apogeo Education, 2005, p.608.

Quanto manca prima della prima singolarità tecnologica?

Gli approcci e i processi relativi alle intelligenze artificiali visti fino a questo momento potrebbero portare (o porteranno) all’avvento di quella che prende il nome di singolarità tecnologica: si identifica con il momento in cui la tecnologia sarà intellettivamente uguale o addirittura superiore all’uomo.

Le possibilità dell’avvento di tale tecnologia sono ancora oggi materia di discussione, tuttavia si sono delineate due diverse correnti di pensiero: un primo approccio considera la singolarità come l’inizio di una nuova era per l’uomo, garante di numerosi vantaggi; ed un secondo approccio che considera invece uno scenario apocalittico, che porterà alla progressiva estinzione dell’uomo.

L’approccio positivo considera l’avvento di una tale tecnologia come un punto di partenza per uno sviluppo uomo-macchina che seguirà un approccio esponenziale. L’ipotesi più probabile di tale avvento sarà quando un’intelligenza artificiale avrà a disposizione (per mano dell’uomo o per apprendimento automatico) una rete neurale artificiale al pari dell’uomo, sia dal punto di vista della capacità di memoria, sia da quello della velocità di calcolo.

Contando che il cervello di un essere umano è una rete neurale che conta al suo interno ben cento milioni di miliardi di connessioni neurali, l’impresa di riuscire a creare una tecnologia simile può essere scoraggiante. Nel 2014 in Giappone, Fujitsu K ha faticato non poco per “tenere testa” al cervello umano: dotato di 82944 processori ed un petabyte di memoria (equivalente a circa milleventiquattro terabyte, per poter fare un paragone con misure più quotidiane) ha impiegato circa quaranta minuti per simulare un solo secondo di attività celebrale[1].

Al quanto scoraggiante, ma siamo solo all’inizio. Il concetto di singolarità tecnologica è stato coniato da un matematico e scrittore, Vernor Vinge. Egli pubblicò un saggio chiamato a Technological Singularity[2], pubblicato nel 1993. All’interno, troviamo un’affermazione secondo la quale entro trent’anni l’uomo avrà a disposizione una tecnologia tale da creare un’intelligenza sovraumana e successivamente andremo incontro alla nostra estinzione.  

Tale singolarità viene definita erroneamente come un progresso infinito, che tende a seguire l’andamento di una singolarità matematica (o isolata): in realtà il termine singolarità è stato scelto dalla fisica e non dalla matematica. Il motivo è molto semplice: ogni qual volta il progresso tecnologico si avvicina alla singolarità, le previsioni sui modelli futuri diventano imprecise e di conseguenza inaffidabili.

Tuttavia, in ambito informatico e elettronico, possiamo prevedere oggigiorno dove potremmo arrivare in determinati ambiti informatici grazie alla prima e alla seconda legge di Moore. La prima legge afferma che «La complessità di un microcircuito, misurata ad esempio tramite il numero di transistor per chip, raddoppia ogni 18 mesi (e quadruplica quindi ogni 3 anni)». 

Può sembrare incredibile, tuttavia questa prima legge ha un grosso limite: quello spaziale. Non possiamo ridurre all’infinito le dimensioni dei transistor all’interno dei processori, e questo problema è comune a tante branche dell’informatica e della robotica moderna. La seconda legge di Moore invece afferma che «il costo di una fabbrica di chip raddoppia da una generazione all’altra».

Questo significa che all’aumentare della tecnologia a nostra disposizione (in questo caso in ambito di processori) aumenterà di conseguenza anche il costo di produzione dei singoli componenti. Questo potrebbe sancire, in un determinato tempo futuro, la morte della legge di Moore per come l’abbiamo intesa fino ad ora. Ma per Ray Kurzweil e Jim Keller non potrà mai morire idealmente, ma dovremmo reinterpretarla in maniera più ampia e complessa.

Estratto dalla tesi di Laurea in Filosofia, Teorie e sistemi dell’intelligenza artificiale, a cura di Federico Malpighi. Alma Mater Studiorum Università di Bologna.


[1]https://www.repubblica.it/tecnologia/2013/08/05/news/il_cervello_batte_sempre_il_supercomputer_per_replicare_un_secondo_servono_40_minuti-64320827/, consultato in data 10 agosto 2020.

[2] (EN) Vernon Vinge, The Coming Technological Singularity: How to Survive in the Post-Human Era (PDF), in Vision-21 Interdisciplinary Science and Engineering in the Era of Cyberspace, Proceedings of a symposium cosponsored by the NASA Lewis Research Center and the Ohio Aerospace Institute and held in Westlake, Ohio, 1993, p. 11-22. URL consultato 10 agosto 2020.

Tra artificiale e biologico

Questa metodologia di apprendimento cerca di creare un modello automatico su più livelli, in cui i livelli più “profondi” prendano in input i dati provenienti dai livelli precedenti a loro, rielaborandoli.

Ogni livello della scala di cui si compone corrisponderebbe ad una delle diverse aree che compongono il cervello umano, ognuna con le proprie caratteristiche: in base agli stimoli provenienti dall’esterno, così come nel cervello vengono “attivati” nuovi neuroni, così nella struttura proposta dal deep, verranno proposte differenti risposte del sistema a seconda degli stimoli ricevuti.

Nell’ambito delle reti neurali artificiali il deep learning viene largamente usato: si cerca di riprodurre il calcolatore più complesso in assoluto, il cervello umano. Le differenze tra i due sistemi sono ancora molto evidenti, basti pensare che a noi “umani” per riconoscere il viso familiare in una folla di persone possono volerci alcuni secondi, per una macchina distinguere immagini ben più semplici addirittura giorni!

Ed è così anche nel mondo animale, se consideriamo che i sistemi di orientamento di un pipistrello sono ben più avanzati e sviluppati dei sistemi radar umani. Questi paragoni servono principalmente per comprendere la difficoltà della risposta che vogliamo ottenere, e anche le complicazioni che sussistono all’interno di questo ambito di riserva. Ma che cos’è una rete neurale?

Per rete neurale intendiamo un processore ispirato al funzionamento del sistema nervoso di organismo biologici complessi, costituito di unità computazionali elementari che giocano lo stesso ruolo dei neuroni nel cervello. Essi hanno due caratteristiche: la prima è la conoscenza, come abbiamo visto precedentemente, acquisita tramite processi di apprendimento.

La seconda consiste nella capacità di immagazzinare tali conoscenze all’interno del sistema neuroni-rete neurale. I neuroni artificiali funzionano come nodi all’interno della rete, ricevono segnali provenienti dall’esterno o da altri nodi (neuroni) e ne effettuano una trasformazione chiamata funzione di attivazione. Questa operazione altro non fa che trasformare matematicamente il valore delle informazioni prima di passarle ad uno strato successivo, facendo in modo di trasmettere i valori di input attraverso tutta la rete fino ad arrivare all’output.

Il percettone è stato il primo schema di rete neurale proposta da Frank Roosenbalt nel 1958. Esso si presentava come un semplice classificatore binario in grado di riconoscere due differenti classi di input e separarle. Strutturalmente le similitudini con un neurone biologico sono indiscutibili: i dendriti e le sinapsi costituiscono l’input del neurone, mentre il nucleo e gli assoni costituiscono l’output del neurone che andrà poi ad interagire con gli altri neuroni. Il problema riguardante questo primo esperimento è la grande limitazione computazionale del singolo percettone, collegata al fatto che le prestazioni ottenibili dipendono con la scelta degli input.

Dal 1958 ad oggi, con un’impennata raggiunta negli anni ‘80, lo sviluppo delle reti neurali è continuato ed è possibile impiegare tali tecnologie soprattutto quando la difficoltà computazionale aumenta e le quantità di dati da elaborare diventano proibitive per l’uomo: ad esempio vengono utilizzate nel controllo del traffico aereo e veicoli, nelle simulazioni videoludiche come il gioco degli scacchi, nel riconoscimento nei sistemi radar e di identificazione facciale e vocale.

La nota negativa riguardante l’utilizzo di tali sistemi riguarda il fatto che, a differenza di sistemi algoritmici nei quali è possibile analizzare l’intero processo di elaborazione, con le reti neurali ci viene fornito solamente un dato (o un insieme di dati) in output che dobbiamo prendere come tale. Per questo a maggior ragione la scelta dei dati in ingresso è fondamentale per una corretta e attendibile valutazione da parte della rete.

Come abbiamo visto sussistono ancora innumerevoli differenze tra la tecnologia utilizzabile in ambito di reti neurali e le reti neurali biologiche presenti all’interno del cervello: tuttavia, le similitudini tra questi sistemi non sono così astratte. Le diverse tipologie di apprendimento automatico che abbiamo tenuto in considerazione mostrano come l’uomo stia cercando di ricreare artificialmente quello che possiede biologicamente: ovviamente non è un’operazione semplice, ma le possibilità di sviluppo sono a favore dei ricercatori.

Da un punto di vista computazionale e di velocità di elaborazione dei dati, una macchina sarà sempre favorita sull’uomo, rimane da implementare la parte relativa all’intenzionalità e alla cognizione. E nonostante ammettessimo che un’intelligenza artificiale (di tipo simbolico) possa essere associata al concetto di intenzionalità,  nulla ci garantisce che essa possa possedere autocoscienza di sé.

Se così fosse avremo di fronte a noi qualcosa di rivoluzionario: sarebbe una tecnologia tale da potersi migliorare da sola, rendersi conto di sé e di cosa la circonda, delle minacce e dei pericoli. In questo caso ci troveremo di fronte a quella che Nick Bostrom ha catalogato come Superintelligenza e che esporrò nel terzo capitolo.

Intenzionalità e processi cognitivi tra mente umana e intelligenza artificiale forte

Il termine mente è nel vocabolario comune associato all’insieme di attività che riguardano la parte superiore del cervello, tra le quali la coscienza, il pensiero, le sensazioni, la volontà, la memoria e la ragione. Oggigiorno la neurofisiologia si occupa dello studio e del funzionamento delle unità che compongono il nostro cervello: i neuroni e le reti neurali. Assieme alle cellule della neuroglia e al tessuto vascolare, compongono il nostro sistema nervoso. Grazie alle sue caratteristiche chimiche, fisiche e biologiche, i neuroni sono in grado di elaborare e trasmettere impulsi nervosi. Un errore da non commettere è quello di confondere la mente con il pensiero: quest’ultimo riguarda l’elaborazione di informazioni ottenute tramite l’esperienza (ovvero tramite gli organi sensoriali) vissuta dal soggetto da parte della mente stessa. Il pensiero è quindi solamente una delle tante attività che riguardano la mente, e che ha luogo nel cervello.

L’intenzionalità e i processi cognitivi nella mente umana

L’intenzionalità umana è definita come la caratteristica del pensiero umano che tende a qualcosa come ad un oggetto specifico. Come abbiamo precisato precedentemente, non ha a che vedere con il concetto di volontà e nemmeno con l’agire intenzionalmente. L’origine del termine deriva dalla filosofia scolastica ed è stato ripreso successivamente da Franz Brentano: per intenzionalità della coscienza intendeva infatti l’idea che essa sia sempre diretta verso un contenuto. Brentano ha considerato l’intenzionalità all’origine dei fenomeni psichici, distinguendoli così dai fenomeni fisici. In questo modo ogni tipo di attività mentale, che vada dal pensare, al desiderare, al credere, ha un oggetto di riferimento. Il concetto presentato da Brentano è irriducibile, è l’elemento fondamentale per la comprensione dei fenomeni mentali, ed è ciò che costituisce la stessa coscienza umana. Successivamente è stato l’allievo Edmund Husserl ad approfondire il concetto dell’intenzionalità, fino a definirlo come ciò che caratterizza la coscienza, oltre a definire gli stati mentali come Erlebnisse intenzionali o più semplicemente atti. Gli studi di filosofia della mente, nel corso del tempo, hanno contribuito a portare  la coscienza e l’intenzionalità ad avere un ruolo di primaria importanza per la comprensione delle attività celebrali. Proprio a partire dalla mente e tramite i processi cognitivi l’uomo ha la possibilità di formare ed aumentare le proprie conoscenze, le quali sono fortemente influenzate anche dal contesto culturale e dalle esperienze a cui il soggetto è sottoposto. Le esperienze ci permettono di avvicinarci a nuove situazioni diverse da quelle proposte dall’ambiente circostante quotidiano, e permettono un confronto con queste ultime.

In tal senso l’apprendimento parte proprio da questo confronto e può essere considerato come un processo di rinnovamento delle proprie conoscenze a partire dalle nuove esperienze. I metodi di apprendimento sono molteplici e non riguardano solamente l’ambito umano, ma anche piante, animali e alcune “macchine”. Vorrei qui approfondire la questione e differenziare le meccaniche di apprendimento in ambito umano e animale da quelle nell’ambito delle intelligenze artificiale. Per come si presenta la situazione al giorno d’oggi le macchine non possono pensare, ma è lecito chiedersi se esse possano imparare da noi, o da altre intelligenze artificiali. Anticipo che sì, sono in grado di farlo, ma prima di esaminare questo aspetto, concentriamoci sull’ambito del “naturale”.


Estratto dalla tesi di Laurea in Filosofia, Teorie e sistemi dell’intelligenza artificiale, a cura di Federico Malpighi. Alma Mater Studiorum Università di Bologna.

Alla scoperta delle intelligenze artificiali

Per dare risposta a questa domanda dovremmo in primo luogo definire cosa intendiamo per macchina. Erroneamente la maggior parte delle persone pensa ad un robot dalle sembianze umane, come abbiamo visto in innumerevoli pellicole cinematografiche.

Innanzitutto, per macchina potremmo definire i risultati ottenuti dagli studi dell’intelligenza artificiale, disciplina che progetta un insieme di hardware e software (o, in un linguaggio meno “tecnico”, componenti tecniche e programmi) che sono tanto efficaci da avvicinarsi o essere potenzialmente del tutto identiche all’intelligenza umana.  

Rinchiudere tutti i mezzi tecnologici in grado di avvicinarsi all’intelligenza umana sotto un’unica famiglia sembra un passo al quanto azzardoso, perciò, in base alle caratteristiche di queste “macchine” distinguiamo tra intelligenza artificiale forte e intelligenza artificiale debole.

Un’IA (intelligenza artificiale) debole è uno strumento molto potente, che, come dice Searle all’interno di Minds, Brains and Programs, ci permette di calcolare in maniera precisa e veloce ogni sorta di ipotesi e di formulazione:

«Secondo l’IA debole, il pregio principale del calcolatore nello studio della mente sta nel fatto che esso ci fornisce uno strumento potentissimo: ci permette, ad esempio, di formulare e verificare le ipotesi in un modo più preciso e rigoroso».[1]

Un IA forte, non è più uno strumento, ma è considerata da Searle come una vera e propria mente:

«Secondo l’IA forte, invece, il calcolatore non è semplicemente uno strumento per lo studio della mente, ma piuttosto, quando sia programmato opportunamente, è una vera mente; è cioè possibile affermare che i calcolatori, una volta corredati dei programmi giusti, letteralmente capiscono e posseggono altri stati cognitivi». [2]

E, in quanto tale, possiede una propria cognizione delle cose. All’interno dell’IA forte, i programmi di cui fa uso quest’ultima per spiegare i fenomeni psicologici, sono essi stessi queste spiegazioni. Quindi, riformulando quest’ultima parte, sembrerebbe che un IA forte, appositamente programmata, possegga degli stati cognitivi (come il cervello umano) e che quindi i programmi di cui fa uso, spieghino i processi cognitivi dell’uomo.

Ci soffermeremo in particolar modo sul ruolo dell’intelligenza artificiale forte, per scoprire se davvero essa può pensare e cosa questo determina per l’essere umano. John Searle scrive Minds, Brains and Programs nel 1984, ponendo come primo obiettivo quello di dimostrare come il cervello umano e la mente non abbiano nulla in comune con un programma o una macchina. Queste ultime non riusciranno mai a pensare e avere un concetto di intenzionalità simile a quello degli esseri umani.


[1]John R. Searle.  Menti, cervelli e programmi, traduzione di Graziella Tonfoni, 1984, pp. 54.
[2] Ibid.