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© Articolo estratto dal libro di Daniele Trevisani “Negoziazione interculturale. Comunicare oltre le barriere culturali. Dalle relazioni interne sino alle trattative internazionali”. Franco Angeli editore, Milano. Pubblicato con il permesso dell’autore

La negoziazione tra aziende

Ogni azienda è in grado di incidere attivamente sul destino delle proprie negoziazioni, anche se non di determinarlo del tutto. Le negoziazioni non avvengono nell’astratto, ma nel concreto. Come un pugile può prepararsi ad un incontro e non perderà o vincerà solo per merito del destino, un negoziatore può assumere il senso del controllo situazionale.

Riappropriarsi della capacità di incidere sul proprio destino, sul presente e futuro (alimentare il locus of control interno) è un tema fondamentale, che tocca anche il modo con cui vogliamo dare un’impronta alle negoziazioni e ai rapporti umani.

Principio – Principio del locus-of-control conversazionale

Il successo della comunicazione dipende:

  • dalla considerazione che ogni conversazione e negoziazione possa (abbia il potenziale) di essere condotta con stili comunicativi costruttivi;
  • dalla consapevolezza che è responsabilità di ciascuno costruire attivamente un clima negoziale positivo;
  • dalle abilità comunicative di ricentraggio della conversazione e degli stili possedute da tutti i partecipanti, e soprattutto dai conduttori negoziali.

Ribadiamo che ogni persona è anche protagonista delle proprie azioni, e non solo vittima delle azioni altrui, il destino ha poco a che fare con quanto accade in una negoziazione, e molto di quanto avviene può essere riportato nella sfera della strategia.

Ma, come abbiamo detto, per agire sul conflitto bisogna riconoscere che stiamo negoziando, che siamo diversi, è che il conflitto è potenzialmente alle porte se non anticipato. 

Lo stesso meccanismo di riconoscimento è necessario in ogni vendita, ogni partnership, ogni acquisto, ogni fusione o incorporazione, ovunque si presenti una dimensione di possibile conflitto culturale e di negoziazione. La diversità deve essere esplicitata prima, per non dare ripercussioni dopo.

Quando una negoziazione si avvia in modo latente, la presa di coscienza negoziale richiede che il negoziatore si ponga alcune domande:

  • Siamo entrambi consapevoli di stare negoziando?
  • Stiamo negoziando dettagli o impostazioni di fondo?
  • Sto negoziando con la persona giusta?
  • È il setting adeguato (tempo e luogo) dato l’argomento che stiamo affrontando? È il luogo giusto? È il momento giusto?
  • Su quali fattori posso agire per impostare la negoziazione? Quali sono sotto il mio controllo? Come posso ricondurre i fattori esterni e situazionali entro la mia sfera di controllo?

La costruzione dell’identità durante la negoziazione

L’analisi della conversazione permette di definire quali mosse e dispositivi comunicativi gli interlocutori usano per definire e negoziare la propria identità.

Nel metodo ALM, è riconosciuto sin dalle prime opere la necessità di suddividere gli obiettivi strategici di una comunicazione negoziale, distinguendo soprattutto tra:

  • fissazione dell’identità e vendita dell’identità: essere riconosciuti come i soggetti adeguati per la risoluzione del problema, creare una percezione di valore nel fornitore come soggetto e nella persona o ruolo incontrato;
  • fissazione del value mix (mix di valore) e vendita del prodotto o soluzione: creare una percezione di valore nei dettagli dell’offerta.

Nessun prodotto o soluzione può essere acquistato se non si creano prima le condizioni minime di credibilità del venditore.

Un negoziatore aziendale giapponese è estremamente attento alle identità di chi si presenta. Perciò, gli esiti di un’apertura conversazionale telefonica saranno estremamente diversi a seconda che il soggetto europeo si presenti come:

  • Buongiorno, sono Rossi della Panini, Italia. Volevo parlare con qualcuno delle vendite. vs.
  • Buongiorno, sono il dott. Franco Rossi, direttore marketing della Panini, Panini è l’azienda leader in Europa per la distribuzione di figurine per bambini e teenagers, vorrei parlare con la direzione vendite.

L’impressions management interculturale è l’arte e/o capacità di suscitare impressioni positive sul proprio ruolo (da non confondere con il millantare un ruolo o un’importanza), per poter superare i filtri negoziali.

Per poterlo praticare è necessaria consapevolezza dei propri punti di forza e della propria identità, delle unicità che si possiedono, del valore reale, e la capacità di farli emergere nella comunicazione.

Allo stesso modo, nessuna negoziazione può avere successo se non vengono chiariti i confini delle identità reciproche, i confini dei ruoli, e le modalità per avviare un dialogo cooperativo.

Durante la negoziazione interculturale è necessario dedicare mosse conversazionali specifiche alla costruzione della propria identità, riuscendo a far emergere nell’altro la percezione del valore che tale identità assume nel contesto della propria cultura. Ogni soggetto, infatti, attribuisce identità secondo i propri schemi culturali.

Nel caso dell’identità del “formatore aziendale” italiano, come può essere correttamente percepita da un imprenditore cinese, se nemmeno in Italia abbiamo un concetto semantico univoco? E come può essere correttamente percepita se non si fissano i confini di identità? 

Potremo, infatti, avere un formatore-istruttore, un formatore-mentore, un formatore-consulente, un formatore-psicologo, un formatore-guru, e altri formati. Non è possibile dare per scontato che le persone riconoscano automaticamente le reciproche identità. “Chi sono io” e “Chi sei tu” sono due degli aspetti più trascurati nella negoziazione interculturale.

Nella negoziazione tra aziende, si entra in negoziazione debole o inconsapevole già dai primi momenti di incontro. 

Il fatto di decidere di incontrarsi presso la “nostra” azienda, presso la “loro”, o in una sede neutra (e dove), è già negoziare. 

Parliamo di negoziazione debole non perché essa sia di poca importanza, ma perché risulta debolmente percepita come reale momento di negoziazione. La sua importanza reale è invece altissima, poiché fissa le impressioni iniziali (imprinting dell’immagine personale ed aziendale) e le posizioni di partenza. 

Il vero problema è che le situazioni “deboli”- contatti preliminari, email, telefonate interlocutorie, scambi di messaggi logistici – non sono spesso riconosciute come vere negoziazioni, e rischiano di venire sottovalutate.

La negoziazione forte o esplicita riguarda invece le situazioni in cui entrambi i soggetti hanno sancito ufficialmente il fatto che una negoziazione sia in corso, hanno messo in piedi formalismi e meccanismi di contrattazione formale, tavoli di negoziazione, piattaforme negoziali o altri strumenti di negoziazione palese e istituzionalizzata.

La negoziazione tra aziende assume spesso il formato di uno scontro tra identità, modi di essere e valori. Nessuna azienda possiede realmente le stesse culture di un’azienda seppure simile, gli stessi modelli di comportamento. Le diversità aumentano ancora maggiormente quando le distanze fisiche e culturali si fanno ampie, come nei contesti intercontinentali e interetnici.

Un esempio classico di diversità culturale latente è la differenza tra culture d’acquisto arretrate (acquisto di “pezzi”) e culture di business avanzate (ricerca di partnership e rapporti di fornitura, sino alla ricerca e sviluppo congiunta).

Le culture d’acquisto arretrate sono orientate all’acquisto di merce, di “pezzi”, di “unità”, di “ore” o di “giorni” se parliamo di formazione, di “tonnellate” o “casse” se parliamo di frutta. Hanno bisogno di tentennare, non impegnarsi. Le culture di business avanzate sono invece orientate a ricercare partnership, relazioni forti e durature, fornitori affidabili, credibilità e professionalità prima di tutto, valutano le possibilità di ricerca e sviluppo congiunta, non si limitano a “pezzi” o “ore”.

Per la propria formazione manageriale, un’azienda può cercare (a) un fornitore che venda “ore” o “giornate” (un “corsificio”, sostanzialmente) mentre la società di formazione ricerca non solo la “vendita di ore”, ma anche (b) diagnosi dei fabbisogni, coaching, monitoraggio delle performance, azioni di sostegno, e ogni altra forma di azione positiva sulle risorse umane.

Dietro all’obiettivo generico di “formare le risorse umane” possono esistere quindi due culture aziendali completamente opposte, che collidono in fase negoziale. 

Uno (il compratore) cerca “ore”, l’altro (il venditore) vede il valore solo nella continuità e in un processo che dura nel tempo. Le due diverse soluzioni implicano due identità e due visioni antitetiche, e non è detto che uno dei due contendenti accetti di modificare la propria identità a comando dell’altro. 

Questi problemi latenti di identità negoziale rendono la negoziazione interculturale, e vanno affrontati come tali.

Principio – Principio della negoziazione di identità

  • Ogni negoziazione di merito (contenuti) è preceduta, e costantemente accompagnata, da una negoziazione sulle reciproche identità.
  • Qualora uno dei partecipanti non accetti l’identità altrui o la percepisca in modo distorto, si aprono possibili aree di fraintendimento e conflitti, risolvibili solo con una negoziazione delle identità e dei ruoli reciproci.

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Le parole chiave di questo articolo La negoziazione delle identità e dei ruoli sono :

  • Confini dei ruoli
  • Confini delle identità
  • Culture di acquisto arretrate
  • Culture di business avanzate
  • Dettagli dell’offerta
  • Filtri negoziali
  • Fissazione del value mix
  • Fissazione dell’identità
  • Identità
  • Identità negoziali
  • Impressions management
  • Imprinting dell’immagine personale ed aziendale
  • Locus-of-control conversazionale
  • Modi di essere e valori
  • Negoziazione debole 
  • Negoziazione dei ruoli
  • Negoziazione delle identità
  • Negoziazione forte
  • Negoziazione inconsapevole
  • Negoziazione interculturale

 

© Articolo estratto dal libro di Daniele Trevisani “Psicologia di marketing e comunicazione. Pulsioni d’acquisto, leve persuasive, nuove strategie di comunicazione e management”. Franco Angeli editore, Milano. Pubblicato con il permesso dell’autore

L’immagine del prodotto

L’immagine dell’impresa nasce dalla somma delle impressioni che un soggetto (ad esempio un cliente) sviluppa nei riguardi di essa, ogni qualvolta viene a contatto con qualcosa (un prodotto, una persona, un simbolo) ad essa collegato o da essa prodotto. Ogni marchio, ed ogni azienda, sono in grado di generare impressioni nei clienti (positive o negative che siano). 

Così come l’azienda assume un’immagine agli occhi dei suoi pubblici, i prodotti acquistano una connotazione, e persino una personalità (debole o forte, definita o vaga, gradita o sgradita). 

Un prodotto forte è dotato di una personalità ben definita che lo fa fuoriuscire dalla concorrenza di prezzo. L’immagine del prodotto, del marchio e dell’azienda può essere misurata scientificamente. La sua costruzione attiva è uno degli obiettivi primari di qualsiasi strategia competitiva.

Quando esiste una connessione tra il prodotto, il marchio e l’immagine proiettata dall’individuo, il prodotto diventa strumento di impressions management

Il prodotto d’immagine assume valenze comunicazionali nella proiezione di un’identità, facilitando il passaggio del cliente da un’identità attuale ad un’identità desiderata (identità target o immagine target). Non importa che ciò sia realmente vero, è sufficiente che questo sia vero nella psicologia individuale dell’acquirente. 

In altre parole, l’immagine del marchio e l’immagine del prodotto diventano strumenti espressivi di un modo di essere, o di un modo di pensare. 

Trasmettono un’identità del possessore, o almeno, il più delle volte, questo è ciò che vorrebbe l’acquirente.

Il prodotto non è solo un assemblaggio di componenti. Una visione puramente merceologica e ingegneristica impedisce di capirne il valore affettivo.

Quando i prodotti si rivolgono a bisogni di ordine superiore – bisogni sociali, autorealizzazione, costruzione d’immagine della persona – essi assumono valenze soprattutto psicologiche, ancor prima che tecnico-funzionali.

I prodotti/servizi (non tutti, naturalmente, ma buona parte di essi) si trasformano da beni asettici a oggetti dotati di anima, e con essi si instaura un rapporto che fuoriesce dalla pura fruizione per entrare nel campo della comunicazione e della psicologia. Diventano, in altre parole, strumenti espressivi con i quali il soggetto cerca di modificare la propria identità, verso un’immagine più vicina al proprio sè ideale.

Nella psicologia del consumo il prodotto assume valenze emotive, quale porzione del vissuto di un individuo. L’acquisto di un viaggio può avere alla base la ricerca di un semplice momento di svago o ricreazione. Ma un viaggio può essere anche il momento di svolta di una vita, nel quale ricercare la propria identità smarrita, e ritrovare un senso nella propria esistenza. 

Sviluppare sensibilità verso la motivazione d’acquisto sottostante, capire le valenze emotive attribuite dal consumatore è un prerequisito per la comunicazione aziendale e la costruzione del prodotto. Come si può notare, elementi estranei al prodotto possono distruggere o rovinare l’esperienza del fruitore e distruggere il tentativo di costruzione attiva dell’immagine.

La presenza di elementi di disturbo, difformi e disomogenei (ad esempio un cesto dei rifiuti di plastica, anziché ricoperto di legno, in un agriturismo) elimina la consonanza tra gli elementi, necessaria per costruire un profilo d’immagine omogeneo e fluido.

Il profilo d’immagine di un marchio o di un prodotto è analizzabile ricorrendo, tra l’altro, a concetti sviluppati dalla psicologia sociale degli atteggiamenti, che esploreremo di seguito.

Gli atteggiamenti del cliente

Gli atteggiamenti sono un concetto fondamentale della psicologia sociale. Il loro utilizzo nelle ricerche psicologiche e nel marketing è ampio e permea diverse funzioni: comunicazione, ricerca di mercato, test dei prodotti, segmentazione del mercato, risorse umane e formazione aziendale.

Come sottolineano Eiser e van der Pligt (1991)[1], gli atteggiamenti non sono vaghi stati d’animo o sensazioni, ma forme di esperienza che (a) si riferiscono a specifici oggetti, eventi, persone o problemi, e (b) sono di natura essenzialmente valutativa, cioè implicano dei giudizi di buono-cattivo, positivo-negativo, giusto-sbagliato.

La relazione tra atteggiamento e obiettivi aziendali è forte e immediata. Gli atteggiamenti verso il prodotto, verso il marchio o impresa, e verso il venditore, generano o eliminano la propensione all’acquisto.

La psicologia degli atteggiamenti applicata al marketing è in grado di fornire numerosi contributi di grande rilevanza per la comprensione di come le persone valutano i prodotti. L’importanza del concetto di atteggiamento proviene dalla sua stretta correlazione con il comportamento. Gli atteggiamenti sono precursori dei comportamenti. In altre parole, la creazione di atteggiamenti positivi (1) verso il prodotto, (2) verso il venditore e (3) verso il marchio, è indispensabile per conseguire successo di vendita.

La ricerca evidenzia che l’atteggiamento individuale non è l’unica causa del comportamento, altri fattori situazionali (ad esempio la pressione degli amici o della famiglia, o tagli alla disponibilità economica, tanto per fornire un dato concreto) possono bloccare l’azione, o dirigerla verso altre mete.

In generale, possiamo affermare che nel marketing l’atteggiamento individuale verso un prodotto o un comportamento è il risultato di una serie di valutazioni specifiche, e si forma come sommatoria delle opinioni e credenze (convinzioni) relative alle componenti del prodotto. L’atteggiamento verso un comportamento emerge come risultato delle varie credenze riguardanti l’esito del comportamento stesso.

L’atteggiamento può avere una valenza positiva o negativa. Inoltre, ciascun atteggiamento avrà una certa “forza”, cioè un livello più o meno alto di radicamento nel soggetto. Perciò potremo identificare atteggiamenti fortemente positivi o fortemente negativi, moderatamente positivi o moderatamente negativi, oppure atteggiamenti neutri o inesistenti, verso qualsiasi tipo di prodotto.

La forza di un atteggiamento verso il prodotto si determina grazie ad un ragionamento moltiplicatorio: è il risultato delle credenze soggettive sul fatto che il prodotto possegga una certa proprietà per la valutazione (positiva o negativa) di quella proprietà.

Ad esempio, il mio atteggiamento verso l’ “oggetto mentale” Internet sarà dato:

  1. dalle proprietà positive che io vi attribuisco (ritengo che Internet renda possibile una ricerca veloce di informazioni; considero anche indispensabile, oggi, poter scambiare dati con altre persone senza spostarmi fisicamente) e
  2. da quanto risulta per me importante quella proprietà (per me la velocità nelle ricerche di informazioni è molto importante, così come poter risparmiare tempo negli spostamenti).

Queste valutazioni spingeranno il soggetto ad avere un atteggiamento complessivamente positivo.

In ogni prodotto è possibile percepire sia componenti positive che negative, le quali vengono soppesate secondo un sistema di bilanciamento che è estremamente individuale e soggettivo. Posso personalmente ritenere che Internet contenga anche informazioni errate ed inutili, e questo possa generare dispersività, ma questo fatto è per me poco incisivo, in quanto sento di padroneggiare bene lo strumento e di poter gestire facilmente il problema. Tutto sommato, quindi, il mio atteggiamento complessivo verso Internet sarà positivo (sommatoria di forti valutazioni positive, con qualche debole valutazione negativa). 

Nell’individuo, le diverse informazioni e valutazioni (positive e negative) compongono un quadro di atteggiamento . Questo sistema complesso di valutazioni deve essere capito, dopo una attenta analisi dei punti di forza e di debolezza del prodotto, se si vuole sperare di ottenere una buona probabilità di successo di mercato. Il valore complessivo dell’atteggiamento consente di migliorare la propria offerta, la progettazione di prodotto, e la comunicazione al cliente.

Il prodotto nel continuum positività-negatività

Gli individui non sono uguali tra loro in merito a posizioni specifiche su diversi argomenti: ad esempio, riguardo alla pena di morte, alcuni hanno posizioni negative molto forti e radicate, altri ugualmente forti, ma in senso favorevole, altri ancora moderatamente a favore o contro, altri ancora non avranno alcun’opinione specifica. Lo stesso vale rispetto ai prodotti.

Ciascun individuo possederà diverse tipologie di atteggiamento nei riguardi di diverse entità di valutazione. La struttura dei diversi atteggiamenti può essere visualizzata lungo un continuum.

Per ogni atteggiamento, esistono ancoraggi valoriali e culturali, a volte chiari e decodificabili immediatamente, altre volte inconsci e subconsci.

È naturale che un qualsiasi tentativo di modificare queste situazioni preesistenti (tentativo di persuasione) si confronterà con la modifica dei valori sottostanti, e porrà problemi di diversa natura.

In generale si può affermare che quanto maggiore è la forza di un atteggiamento, e radicato il suo collegamento con altri atteggiamenti forti e valori elevati, tanto più alta è la difficoltà di cambiarlo. Atteggiamenti molto forti e radicati nel tempo sono difficili da cambiare. Là dove non esiste alcun atteggiamento specifico (ad esempio un tema sul quale l’individuo non ha mai focalizzato la propria attenzione) la creazione di un atteggiamento specifico risulta più semplice.

Implicazioni per il marketing business-to-business

Nel business-to-business, molto spesso la latitudine di accettazione del buyer verso un nuovo prodotto o nuovo servizio non è predefinita, in quanto appunto non vi sono esperienze in merito. Questa rappresenta una problematica generale delle aziende che vendono innovazione.

Una tattica difensiva del buyer è quella di partire da posizioni negative, salvo modificarle in seguito. Non tutti, fortunatamente, adottano questa tattica, in quanto preclude ad una valutazione oggettiva e ponderata delle opportunità che possono essere realmente presenti nell’offerta.

Tra gli individui presenti all’interno di un target o campione eterogeneo di aziende, esistono varietà e differenziazioni in merito alla natura di atteggiamento preesistente. All’interno di una popolazione ampia, spesso la distribuzione degli atteggiamenti preesistenti assume una forma di curva normale (curva gaussiana, in termini statistici), che vede la presenza di un’area di soggetti fortemente positivi, una massa di “incerti” o persone che detengono atteggiamenti deboli, e un’area di soggetti con atteggiamenti negativi. Occorre quindi, per il venditore, capire questo scenario di atteggiamenti preesistenti, poiché con questo quadro egli dovrà confrontarsi.

Segmentazione attitudinale del cliente

Il termine “attitude” nella terminologia psicologica e di marketing anglosassone risponde all’equivalente italiano di “atteggiamento”. Con una piccola traslazione linguistica, utilizzeremo questo termine per definire il concetto di “segmentazione attitudinale”, intesa come stratificazione del mercato in funzione degli atteggiamenti preesistenti. 

La nostra tecnica individua cinque macrogruppi, differenziati in termini di posizioni latenti verso il prodotto:

  • Gruppo A: soggetti aperti e disponibili che dispongono di atteggiamenti fortemente positivi; le credenze possedute sono tutte positive e rilevanti.
  • Gruppo B: i soggetti dispongono di atteggiamenti positivi ma di valenza debole o moderata. Questi soggetti possono collocarsi in B anche quando a credenze positive (prevalenti) si sommano credenze negative (minoritarie).
  • Gruppo C: soggetti che non dispongono di un chiaro orientamento, per indisponibilità di esperienze precedenti o difficoltà nel valutare, o non conoscenza della materia;
  • Gruppo D: soggetti moderatamente negativi. La negatività può provenire o dal riconoscere solo punti negativi, o dal riconoscere più punti negativi (o di maggiore intensità) rispetto a quelli positivi. Eventuali punti positivi, nel quadro di atteggiamenti complessivo verso il prodotto o la proposta, diventano minoritari.
  • Gruppo E: soggetti fortemente negativi; le credenze negative possono essere numerose e sommarsi, oppure possono essere poche ma di intensità molto alta, tali da mettere in secondo piano qualsiasi altra possibile valutazione.

Questi diversi stadi corrispondono a diverse realtà psicologiche che il venditore troverà nel buyer. La difficoltà di vendita sarà crescente man mano che ci si sposta dal gruppo A al gruppo E, con una distribuzione degli atteggiamenti lungo un continuum  positivo/negativo, anche se venditori abili non si scoraggeranno molto nel fronteggiare soggetti E.

La segmentazione attitudinale (identificazione di sottogruppi diversificati in funzione degli atteggiamenti esistenti), ha lo scopo di:

  1. inquadrare la struttura degli atteggiamenti preesistenti,
  2. identificare i target prioritari,
  3. definire strategie di attacco ai diversi target.

Distribuzione delle risorse sui diversi target

Nessuna azienda o organizzazione dispone di un budget di comunicazione infinito, o di infinite risorse di vendita (tempi, uomini e mezzi). Diventa pertanto necessario definire le priorità di intervento, o priorità di vendita, in relazione ai diversi tipi di target.

In genere, queste vanno ottimizzate e distribuite partendo dai target più accessibili e responsivi, tenendo per ultimi i più ostili, i quali richiedono un maggiore costo di vendita (tempo, energie, sforzo persuasivo e abilità necessarie).

Saper identificare con che tipo di soggetti si dovrà avere un confronto è una necessità che va oltre il marketing aziendale, e pervade fortemente anche il marketing pubblico e la comunicazione pubblica. 

L’utilizzo di una strategia standardizzata su target dalle caratteristiche troppo diverse ne riduce sicuramente l’efficacia, soprattutto quando non sia stato trovato un minimo comune denominatore motivazionale.

In base alle considerazioni esposte, formuliamo il seguente principio:

Principio – Assioma di targeting della comunicazione

  • La comunicazione strategica richiede l’attivazione di percorsi e strategie diversificate in funzione dei diversi target. 
  • La comunicazione deve essere tarata in base alla struttura di atteggiamenti esistente nel soggetto ricevente.
  • La necessità di diversificazione della strategia cresce all’aumentare della divergenza/differenza tra soggetti e gruppi sui quali si vuole agire. 

In questo assioma si sostiene, quindi, che l’accettazione di un messaggio sia correlata al grado di “centratura” sui bisogni del target, sulla corretta identificazione delle strutture preesistenti di atteggiamento.

I problemi emergono sia nella pubblicità realizzata senza analisi precedente del target, che nella vendita diretta in cui il venditore fronteggia un soggetto sconosciuto.

In questi casi di blind sales (vendita che avviene su soggetti non conosciuti) la posizione dovrà essere rilevata online, in diretta, sul luogo e durante l’incontro. Le tecniche di rilevazione (domande, probing) non devono tuttavia urtare il sistema difensivo del soggetto, il quale deve vedere nelle domande del venditore una reale forma di interessamento.

Un tecnico di blind sales o un tecnico di vendita creativa è un soggetto molto abile sia in termini di formazione psicologica che in termini di capacità di analisi. Questi professionisti sono decisamente rari.

Nella vendita di servizi (es: finanziari, immobiliari), un’attività preliminare di segmentazione e screening diviene necessaria per fornire al venditore un profilo preliminare dei soggetti da incontrare (un profilo psicografico, oppure la posizione di atteggiamento ed interesse rilevata in precedenza). Questo consente la realizzazione di visite di vendita maggiormente mirate.

Nella comunicazione pubblicitaria, o comunque mediata, e nella vendita indirizzata a più soggetti (quando quindi il target è costituito da un gruppo), vale inoltre il seguente principio:

Principio – Assioma del minimo comune denominatore (MCD)

  • Azioni di comunicazione che hanno come target un gruppo composito di soggetti dovranno basarsi su bisogni e caratteristiche che costituiscono un minimo comun denominatore tra i soggetti membri del gruppo (valori condivisi, atteggiamenti condivisi, passati condivisi). 
  • Al crescere della variabilità interna del gruppo diminuisce la probabilità di trovare modelli validi ed efficaci per tutti i soggetti, e quindi aumenta la necessità di sviluppare strategie comunicative diversificate.

Credenze sul prodotto e belief system del consumatore

Le credenze, secondo Rokeach,[2] sono «proposizioni semplici, consapevoli o inconsapevoli, inferite da ciò che una persona dice o fa, che possano essere precedute dalla frase …Credo che…».

Alla base della formazione degli atteggiamenti verso il prodotto vi sono le «credenze» del soggetto (beliefs) relative al prodotto. La somma delle diverse credenze crea il “sistema delle credenze” (belief system) del cliente relativo alle conseguenze dell’acquisto. 

Credenze e atteggiamenti sono concetti diversi, in quanto le credenze rappresentano le componenti di base degli atteggiamenti, i mattoni costitutivi. Un atteggiamento può quindi essere considerato come una organizzazione di credenze

Il sistema delle credenze è un composto instabile, in cui ogni informazione in ingresso può modificarne la struttura. Le diverse credenze, valutate soggettivamente, producono l’atteggiamento complessivo di prodotto.

Il termine “credenze” evidenzia subito un fatto importante: gli atteggiamenti verso il prodotto sono un fatto psicologico, ed esistono anche senza la prova diretta o test del prodotto svolto in prima persona. È sufficiente un passaparola negativo (o positivo), o una supposizione tutta interiore sul gradimento, o persino il sound del marchio, ad innestare lo sviluppo di credenze e quindi la formazione di atteggiamenti. La credenza è una convinzione, che può anche essere sbagliata. 

Non dobbiamo pensare che il fondamento di una valutazione di prodotto si basi su riscontri oggettivi o valutazioni scientifiche, ma prendere atto che le credenze (beliefs) di prodotto si formano indipendentemente dalla volontà del venditore: sono dati di fatto con i quali egli deve avere a che fare, e che può tuttavia cercare di cambiare.

Gli atteggiamenti hanno quindi componenti cognitive, affettive e comportamentali. 

  • La componente cognitiva degli atteggiamenti riguarda l’insieme di credenze che il cliente possiede relative all’oggetto (ciò che il cliente pensa di sapere)
  • La componente affettiva o valutativa riguarda il grado di favore o sfavore verso l’oggetto, il grado di positività o negatività, che il cliente percepisce nell’oggetto
  • La componente conativa o comportamentale riguarda la tendenza all’azione che l’atteggiamento predispone nel cliente (acquistare o meno, suggerire il prodotto ad altri, non suggerirlo, o addirittura sconsigliarlo, ecc).

La maggior parte degli scienziati sociali è d’accordo sul fatto che un atteggiamento non sia un elemento basilare, irriducibile, all’interno della personalità, ma rappresenti un cluster (aggregazione) di più elementi intercorrelati.

Esistono forti influenze reciproche tra le tre componenti dell’atteggiamento. Se dispongo di una informazione non veritiera su una persona (ad esempio, penso – sbagliando – che abbia tradito la fiducia di qualcuno), la componente cognitiva sarà viziata da un errore di conoscenza. 

Questo errore si trasferirà alla componente valutativa (inizierò ad avere un rifiuto interno di quella persona, se per il mio sistema di valori il tradimento della fiducia è un comportamento indegno) e alla componente comportamentale (non lo inviterò ad una festa). 

La traduzione non è tuttavia automatica, poiché, come ricordato, vincoli esterni possono creare vincoli così forti da non consentire alla persona di agire coerentemente con i propri atteggiamenti.

Persuasione e organizzazione degli atteggiamenti

Abbiamo notato come le credenze su un determinato oggetto o prodotto si inseriscono all’interno del sistema di credenze di cui dispone il soggetto (belief system), che rappresenta «l’universo totale delle credenze di una persona riguardanti il mondo fisico, sociale, e il self». 

Dobbiamo considerare che le attività di persuasione aziendale, o l’autopersuasione di un consumatore  – magari successiva alla prova di un prodotto – costituiscono atti di riorganizzazione del belief system, cioè veri e propri mutamenti nel sistema di credenze della persona, a volta anche dolorosi.

Questa modifica, se avviene, causerà una forte riorganizzazione cognitiva, il cui costo è elevato in termini di sforzo persuasivo per l’individuo, il quale dovrà iniziare a “vedere il mondo” attraverso un sistema diverso di credenze. Il cambiamento di credenze non è di per se negativo, se il sistema di credenze iniziali conteneva bias, errori di valutazione che autolimitano la crescita del soggetto. 

Iniziare a percepire il mondo attraverso una luce diversa, con l’eliminazione dei filtri autoimposti o creati artificialmente dall’ambiente sociale, è del resto uno degli obiettivi della terapia cognitiva e di alcune scuole psicoterapeutiche (scuole Rogersiane[3]), le cui applicazioni alla vendita aziendale sono oggetto di studio da parte dell’autore e altri ricercatori.

La forza coesiva e la resistenza al cambiamento dei belief systems è tale che molti soggetti preferiscono rifiutare nuova informazione, pur di conservare il sistema di credenze in atto. Ad esempio, un razzista etnico sarà tentato a pensare che il ragazzo nero, il quale ha salvato una bambina da un annegamento, lo ha fatto “per ottenere una ricompensa” e non per volontà individuale. Questi meccanismi di “errore di attribuzione” che avvengono per non modificare le proprie strutture concettuali, sono stati dimostrati dalla ricerca sociale sulla comunicazione interculturale, inizialmente per comprendere i meccanismi di comprensione/incomprensione tra culture, ed in seguito per capire alcune valutazioni di prodotto nel marketing internazionale

In questi contesti, infatti, è stato dimostrato che le aziende di paesi ad alta reputazione in un certo settore industriale (moda italiana, meccanica tedesca, elettronica giapponese, ecc.), godono in quel settore di un vantaggio competitivo di immagine del prodotto. Ciò avviene grazie al belief system stereotipico del consumatore, che attribuisce ai prodotti di quel paese, in quel settore industriale, un grado di qualità di partenza superiore.

Questo effetto, determinato country-of-origin effect, è studiato estensivamente[4]. Ricerche nel campo dimostrano che il fattore “paese di origine” viene utilizzato dal consumatore in condizioni di scarsità di tempo di elaborazione (quando, cioè, non esiste tempo sufficiente per testare realmente le prestazioni e compararle tra prodotti).

Non dobbiamo né possiamo basare una strategia di marketing sulle credenze che il cliente “dovrebbe avere”, ma su quelle che effettivamente ha, per quanto sbagliate o distorte siano. Fare il contrario significherebbe ottenere risultati opposti o controproducenti, sia nella comunicazione sociale e pedagogica, che nella comunicazione di mercato.Sono proprio le credenze del momento ciò che l’individuo pensa, gli elementi in base ai quali agisce. Il fatto che le credenze siano distorte, al di là della verità oggettiva, non cambia le cose. Quindi le credenze assumono un peso maggiore rispetto alla “verità” di fatto. 


[1] Eiser, J.R., & van der Pligt, J. (1991). Atteggiamenti e decisioni. Bologna, Il Mulino. Edizione originale: Attitudes and Decisions. London, Routledge, 1988.

[2] Rokeach, M. (1968). Beliefs, attitudes, and values. San Francisco: Jossey-Bass.

Rokeach, M. (1973). The nature of human values. New York: Free Press.

[3] Autore di riferimento: Carl Rogers, psicologo e psicoterapeuta creatore della Client-centered therapy. Vedi Rogers (1951). Per approfondimenti sulle applicazioni rogersiane al marketing e comunicazione aziendale vedi www.medialab-research.com/tecniche/rogersiane/

[4] Vedi Gurhan-Canli, Z. & Maheswaran, D. (2000). Determinants of Country-of-origin evaluations Journal of Consumer Research, 27.

Altri materiali su Comunicazione, Formazione, Potenziale Umano, Crescita Personale e Professionale, disponibili in questi siti e link:

Altre risorse online

Le parole chiave di questo articolo La psicologia degli atteggiamenti verso il prodotto sono :

  • Psicologia degli atteggiamenti
  • Immagine del prodotto
  • Impressions management
  • Atteggiamento
  • Credenza
  • Comportamento
  • Quadro di atteggiamento
  • Distribuzione degli atteggiamenti preesistenti
  • Segmentazione attitudinale
  • Priorità di intervento
  • Targeting della comunicazione
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  • Sistema delle credenze
  • Belief sistem
  • Componente cognitiva
  • Componente affettiva
  • Componente comportamentale
  • Vantaggio competitivo di immagine del prodotto
  • Country of-origin-effect
  • Strategie di marketing sulle credenze

© Articolo estratto dal libro di Daniele Trevisani “Psicologia di marketing e comunicazione. Pulsioni d’acquisto, leve persuasive, nuove strategie di comunicazione e management”. Franco Angeli editore, Milano. Pubblicato con il permesso dell’autore

Pulsioni d’acquisto: ragioni di un’analisi

Perché le persone acquistano? Sotto l’influsso di quali forze avvengono le scelte di mercato? E soprattutto, perché affrontare questo tema è così cruciale per la competitività delle aziende?

La vita di ogni persona e di ogni azienda è costellata da momenti d’acquisto. Nonostante questo dato incontrovertibile, la psicologia del consumo costituisce uno dei fenomeni meno studiati e meno tradotti in azienda, in buona parte a causa dell’impostazione classica che vedeva nel consumatore un soggetto razionale, che agisce secondo criteri logici. Capovolgendo quest’impostazione, rivolgeremo la nostra attenzione soprattutto alle dinamiche psicologiche, ai moventi nascosti, al “dark side” del consumo.

Per raggiungere gli obiettivi previsti, riteniamo necessario fornire una prima griglia di impostazione del lavoro, che divide i comportamenti di acquisto in base a motivazioni consce, subconscie ed inconsce. 

I tre livelli della motivazione d’acquisto :

  • Inconscio
  • Subconscio
  • Conscio

Una seconda considerazione ci spinge a rivolgere la nostra attenzione all’area della psicologia dei bisogni. L’atto di acquisto si lega innegabilmente a qualche forma di problema esistente nell’individuo (es: risolvere un dolore fisico tramite una medicina), o di aspirazione da raggiungere (es: in un’azienda, l’acquisto di un macchinario per aumentare la produttività), sia che si tratti di un bene povero che di un genere di lusso. Questi problemi o moventi sono il nesso che collega il prodotto alla scelta di acquisto.

Il comportamento degli individui, orientato a diminuire i problemi che li circondano, determina, in un certo momento del tempo, la nascita di una pulsione, un impulso d’acquisto, uno stimolo alla risoluzione dello stato di tensione[1]. Una strategia aziendale che non tenga in seria considerazione quali impulsi d’acquisto inserire nelle proprie offerte, non ha alcuna prospettiva di successo.

Conscio, subconscio ed inconscio

A volte risulta difficile spiegare il comportamento delle persone nella sfera del consumo e del rapporto con i prodotti. Ci animiamo per questioni apparentemente futili (quale film vedere…), ma ci abituiamo a fatti che non dovrebbero lasciarci dormire (es: la produzione di mine antibambino). Un impiegato dedica una vita a far raccolte di tappi di bottiglia, un bambino non va a scuola senza quello specifico zainetto, ecc… ecc…. I casi umani sono tanti. Ogni persona ha le proprie ansie, paure, speranze, illusioni, e queste si trasferiscono anche nel comportamento di acquisto (e di riflesso, sulle strategie di vendita).

Se dovessimo catalogare in “consapevoli vs. inconsapevoli”, “razionali vs. irrazionali”, “realmente utili vs. futili”, gli acquisti e i comportamenti del consumatore medio, saremmo costretti ad attribuirne buona parte al secondo tipo: illogico, irrazionale, difficile da spiegare.

Quando si entra nella sfera dei gusti e delle preferenze, esprimere consciamente perché odiamo un certo tipo di scarpe, un vestito di un certo colore, un’azienda tedesca piuttosto che italiana, vede spesso goffi tentativi di ricerca di spiegazioni. Quando queste vengono attuate, si dimostrano spesso vere e proprie “azioni di copertura”. In queste azioni, l’individuo si sforza di riportare una coltre di apparente razionalità in scelte altrimenti difficile da spiegare anche a se stessi. 

Il grado di consapevolezza delle proprie pulsioni, dei moventi d’acquisto, infatti decresce nel passaggio da conscio a subconscio ed inconscio.

Possiamo o meno essere d’accordo con le analisi freudiane, certo, tuttavia, risulta strano spiegare ricorrendo alla logica perché le persone non utilizzino più i cavalli come mezzo di spostamento a corto raggio, perché molte donne amino il giardinaggio, perché esistano gli sport violenti, perché i bambini siano attratti da attività quali lo smontare e il rimontare o l’arrampicarsi sugli alberi, perché esistano i rossetti, perché alcuni odino i computer, perché esistano le pellicce, perché.., perché…. infiniti perché ai quali non è possibile rispondere dando soluzioni meccaniche e razionali. 

Se analizziamo le trascrizioni scientifiche dei moventi d’acquisto – espresse dagli stessi consumatori – notiamo che in molti atti non appare niente di quanto previsto dall’economia classica. Il concetto di utilità razionale del prodotto a volte sparisce e l’acquisto diventa un fenomeno psicologico che risponde ad altre esigenze, ad esempio un “riempitivo psicologico”, una tecnica di “riparazione di stati emotivi negativi”, o un modo di affermarsi.

Man mano che procediamo nell’analisi dei moventi, notiamo che le motivazioni divengono sempre meno “superficiali” e razionali, ed emergono fattori nuovi. Le motivazioni di primo livello (il motivo apparente d’acquisto) sono progressivamente sostituite da concetti più complessi e la coltre di razionalità sparisce.

Continuando a scendere nel grado di introspezione, si nota che le motivazioni apparenti (del tipo, “l’ho comprato perché ne avevo bisogno”, o “mi piaceva, e basta”), non tengono. Il livello di profondità nella discesa verso il mondo nascosto a se stessi, l’area delle pulsioni profonde, può decifrare i significati simbolici ed il rapporto emotivo che si genera tra prodotto ed immagine di sè. Da queste analisi emerge spesso che il prodotto diviene strumento di proiezione d’immagine, o mezzo per raggiungere obiettivi strategici (seduzione, potere), e ciò avviene anche inconsapevolmente.

L’inconsapevolezza dei propri moventi non deve meravigliare. Vediamo una constatazione sulla natura umana, svolta in base al pensiero di Freud:

Per Freud la psiche è per la maggior parte inconscia. Essa assomiglia ad un iceberg, i nove decimi della quale sono nascosti o inconsci, e solo un decimo è in superficie o consapevole. Per questo i 9/10 dei nostri atti sono dettati da motivazioni inconsce. La parte consapevole, poi, si divide tra Io o Ego (la coscienza propriamente detta) e Super-io o Super-ego, che raccoglie i referenti morali e educativi. L’Io o Ego media tra motivazioni inconsce e motivazioni morali.

La psicoanalisi è pertanto un processo di autoconoscenza, perché aiuta a svelare l’inconscio, e a capire quali sono le motivazioni autentiche dell’individuo rispetto a quelle imposte dai modelli morali o educativi[2].

Il fatto che i moventi dei consumatori non siano sempre ben chiari, o le scelte delle aziende appaiano a volte controintuitive, deve portarci ad una prima riflessione generale: i consumatori e clienti sono macchine biologiche e sociali il cui funzionamento è lungi dall’essere compreso a pieno. Queste macchine a volte hanno dei comportamenti strani, ma le aziende, con questi comportamenti, devono fare i conti tutti i giorni.

A volte i desideri e le scelte di acquisto delle persone sono prevedibili, a volte non lo sono affatto. Se il campo del consumo fosse dominato dalle leggi della razionalità, vivremmo in un mondo diverso.

Le persone, sia come consumatori singoli che come decisori aziendali (buyer[3]), esprimono nei propri comportamenti tutta la natura umana, in cui subentra, spesso, un versante di irrazionalità e di scelte poco spiegabili.

Forniamo, in via iniziale, una prima tipologia di moventi d’acquisto:

  • pulsioni conscie: gli impulsi d’acquisto che derivano da valutazioni razionali, consapevoli e quasi-scientifiche della convenienza di acquisto in relazione ad un’analisi accurata dei propri bisogni (personali o aziendali); 
  • pulsioni subconscie: gli impulsi d’acquisto che derivano da associazioni inconsapevoli o solo parzialmente consapevoli tra l’atto d’acquisto e l’eliminazione di problemi reali o potenziali. Le pulsioni subconscie sono prevalentemente di natura culturale e ontogenetica (influssi che il soggetto ha subito durante la sua crescita e sviluppo, partendo dalla nascita);
  • pulsioni inconscie: gli impulsi d’acquisto governati da dinamiche non percepite dal soggetto, soprattutto provenienti dalle pulsioni ancestrali, istintuali, genetiche, recondite, le quali agiscono sull’individuo senza che egli stesso ne sia consapevole. Tali impulsi sono prevalentemente dovuti ad aspetti psicobiologici, associati a pulsioni derivanti dalla filogenesi dell’individuo (influssi che derivano dalla storia della specie e dalla sua biologia).

Un esempio di pulsione conscia è dato dalla percezione della necessità di possedere un ombrello se piove molto, o dotarsi di un mezzo di trasporto per raggiungere il lavoro, scegliendo accuratamente tra le diverse alternative esistenti (auto, treno, autobus, bicicletta, ecc..) e valutandone pro e contro razionalmente.

Un esempio di pulsione subconscia avviene durante la scelta di un capo di abbigliamento da parte di un impiegato di banca, nella quale egli a priori – inconsapevolmente – esclude dal campo delle proprie scelte soluzioni tipo babbucce orientali, tuniche africane o perizomi indiani, includendo invece mocassini o abiti “giacca e cravatta” o tuttalpiù maglioni e polo. Il fatto che la scelta avvenga all’interno di un “set mentale” di prodotti occidentali non è  completamente consapevole, e risponde ad esigenze di conformità spesso latenti e subconscie. Per quale motivo plausibile, razionale, un impiegato di banca non dovrebbe recarsi al lavoro in perizoma d’estate quando fa molto caldo? Proviamo ad anticipare le reazioni (dei colleghi, dei clienti) a questo comportamento, e lo capiremo immediatamente. Una pulsione subconscia alla conformità culturale è presente in moltissimi acquisti, senza che i consumatori se ne rendano conto.

Un esempio di pulsione inconscia è dato dal movente per cui un ragazzo maturo, non sposato o fidanzato, decide di recarsi in una palestra. In questa scelta può esistere un desiderio sottostante di aumentare la propria attrattività riproduttiva, ed acquistare maggiori chance di trasmettere i propri geni. Questo movente fisiologico e genetico, di origine animale, può avvenire al di fuori della consapevolezza della persona stessa.

Analisi dei moventi d’acquisto

  • Conscio : Razionale – Basato sull’algebra mentale (calcoli matematici di opportunità, comparazioni e valutazioni razionali) – Chiari modelli di valutazione, ogni variabile influente è nota – La persona sa esattamente cosa sta facendo, perché agisce così – Nessuna dimensione nascosta
  • Subcoscio : Subisce pressioni culturali, apprese durante la crescita ed interazione con gli input familiari, scolastici-educativi, amici, mass media, società – Agiscono ad un livello più profondo –  Le persone non sono sempre consapevoli delle forze culturali che agiscono su di loro –  Dimensioni nascoste, come l’appropriatezza culturale, la religione, la pressione dei gruppi, agiscono sulle scelte dell’individuo ad un livello  debolmente consapevole, poco razionalizzato
  • Incoscio : Forze genetiche agenti sull’individuo partono dai livelli più profondi della psiche –   Possiedono elementi comportamentali comuni al regno animale – Includono pulsioni sessuali, comportamenti di difesa-attacco, possesso, paura – Il comportamento di consumo, le scelte e le valutazioni dei prodotti, vengono influenzate inconsciamente – Dimensioni molto nascoste all’individuo stesso – Prevalentemente inconsapevoli

Mentre le motivazioni conscie si collegano ad acquisti apparentemente logici, l’analisi delle motivazioni subconscie ed inconscie si riferisce alle pulsioni che difficilmente sono spiegabili ricorrendo a modelli razionali. 

Lo spostamento dell’attenzione verso l’area del subconscio ed ancor più verso l’area dell’inconscio disturba la sensibilità di molti. Alcuni si oppongono all’intrusione soprattutto per questioni di interesse. Economisti e ricercatori possono infatti vedere il quadro complicarsi, le formule saltare, e sostanzialmente il potere scivolare di mano.

Altri oppositori sono coloro i quali vorrebbero l’essere umano emancipato dalla sua componente animale, considerano la componente pulsionale inconscia una sorta di decadenza verso la brutalità animale, una concessione agli impulsi che tutto il sistema educativo cerca di frenare, nascondere, negare. Capisco, sarebbe bello, ma ancora non è possibile. Il compito di un ricercatore è quello di capire, prima di tutto. Il compito di un manager è quello di agire, in base ad informazioni accurate. Se in questo stadio evolutivo dell’uomo, le pulsioni animali sono ancora presenti, non possiamo far finta che così non sia, e che questo non si innesti nei processi di marketing.

Vi sono zone del cervello la cui funzione è solo vagamente conosciuta ed il suo influsso sui comportamenti di acquisto non è mai stato veramente esplorato.

Questo influsso determina scelte che a volte possono apparire illogiche, ma che risultano comprensibili alla luce di una teoria delle pulsioni.

La ricerca dei moventi nascosti

Le nostre ipotesi vanno alla ricerca delle pulsioni e dei moventi profondi, oltre la pura espressione verbale e consapevole. Se considerassimo sufficienti le prime spiegazioni verbali fornite dai consumatori, per capire le dinamiche reali del loro comportamento, ci accontenteremo davvero di poco.

Non è facile per nessuno dare risposte a domande del tipo: “Quanto ha influito il personaggio di Superman nella costruzione del tuo modello di Sé ideale” (ad un ragazzo, ma specularmente questo vale per la Barbie in una ragazza). L’influenza può essere avvenuta, e molto forte, ma a livello inconscio, senza una chiara percezione del fenomeno.

La letteratura psicosociale è sin troppo ricca di studi che dimostrano quanta distanza esiste tra ciò che le persone dicono di fare e ciò che fanno veramente, tra l’immagine che proiettano all’esterno e la propria vera identità, tra quello che sono e quello che vorrebbero essere.

Differenziazione tra comportamenti reali e comportamenti dichiarati

  1. Area della non comunicazione di sè : ciò che faccio e penso, ma non si deve sapere, Percezione reale di sè – Comportamenti reali dell’individuo
  2. Area della proiezione d’immagine reale
  3. Area della proiezione d’immagine artificiale: ciò che dico di fare e dico di pensare, ma non corrisponde al vero, Identità proiettata – Comportamenti dichiarati

Un primo momento di analisi riguarda la distanza tra ciò che le persone proiettano, tra ciò che dichiarano, e i veri comportamenti e pensieri posseduti. In genere la collimazione tra queste sfere non è totale, ma esistono aree del Sè che non emergono (area 1), ed aree del Sè puramente proiettate (area 3). 

La ricerca di marketing ha evidenziato il fenomeno del Socially Desirable Responding (SDR) che riguarda la tendenza degli individui a proiettare di se stessi, quando intervistati formalmente o nella comunicazione interpersonale, un’immagine accettabile, positiva, rispetto alle norme culturali correnti, o alle norme dei gruppi di appartenenza. 

David Mick (1996)[6] ad esempio ha evidenziato le difficoltà insite nell’esplorazione del “dark side” del comportamento del consumatore, su temi quali il materialismo, l’uso di alcool e di droghe, l’acquisto compulsivo, i piccoli furti nei negozi, le scommesse, il fumo di sigaretta, e la prostituzione. 

Il Socially Desirable Responding avviene sia per incapacità di focalizzare le proprie motivazioni, che per volontà precisa di nascondere fatti, comportamenti e opinioni, di consumo, culturali e politiche. 

Impressions management e proiezione dell’identità

Un fenomeno estremamente diffuso è costituito dall’impressions management, il comportamento di gestione strategica della propria immagine verso gli altri. Questo viene attuato esprimendo pensieri e azioni conformi alle norme della buona convivenza sociale e della morale (e non ciò che si fa o si pensa realmente).

Paulhus (1984)[1] evidenzia come i soggetti intervistati nelle ricerche di mercato pratichino ampliamente impressions management e praticano tentativi di costruire le proprie risposte con lo scopo di riflettere un’immagine sociale positiva.

Un’ulteriore spiegazione del permanere di fenomeni di SDR (Socially Desirable Responding) anche in condizioni di anonimità deve portarci a chiederci: agli occhi di chi l’individuo cerca di apparire positivo? Solo agli occhi altrui? No. In realtà, l’impressions management avviene anche internamente all’individuo stesso, (self impressions management), in ogni momento in cui una affermazione provvede all’opera di costruzione dell’immagine ideale di se stessi (immagine di sé ideale o ideal self image).

Impressions management interno ed esterno : Ricerca della proiezione di un’immagine coerente, positiva, socialmente accettabile 

  • Self Impressions management : Ricerca della proiezione di un’immagine coerente, positiva, socialmente accettabile di se stessi. Si produce al fine di evitare dissonanze interne o ammissioni dolorose per la propria immagine personale e l’opinione di sè. Riguarda il rapporto con se stessi.
  • Others Impressions management : Ricerca della proiezione di un’immagine coerente, positiva, socialmente accettabile, con funzione esterna. Ricerca di costruzione di un’immagine per gli altri, al fine di migliorare il proprio ruolo, il posizionamento sociale e l’accettazione tra i gruppi di persone importanti per l’individuo. 

Scelte del cliente e dissonanza

Le ricerche di Leon Festinger[3] hanno ampiamente dimostrato il bisogno umano di evitare dissonanza tra i propri pensieri e le proprie azioni, sino al punto che – a fronte della percezione di una dissonanza interna – l’individuo modificherà le proprie opinioni o le proprie azioni per ricercare un equilibrio interno.

Il problema della dissonanza cognitiva nel marketing emerge in tutta la sua forza quando l’impresa non riesce a sviluppare un’immagine coerente tra qualità del prodotto, packaging, qualità del marchio, comportamento delle forze di vendita, materiali pubblicitari e internet, e ogni altro elemento comunicativo di contatto con il cliente.

Lungo il percorso di valutazione del prodotto, il consumatore o buyer può incontrare diverse fonti di dissonanza. Esponiamo alcuni esempi:

  • Dissonanza interna al prodotto. La dissonanza interna al prodotto emerge quando diverse caratteristiche dello stesso vanno in direzioni non compatibili l’una con l’altra. Ad esempio, una cucitura mal fatta in un abito da cerimonia (lo stesso difetto non disturberebbe più di tanto in un abito da giardinaggio). Oppure ancora, un paese di origine del prodotto che non rientra tra quelli graditi dal consumatore, pur essendo il prodotto perfetto dal punto di vista tecnico.
  • Dissonanza prodotto-venditore. Si presenta nelle situazioni in cui il prodotto piace, ma vi sono dubbi o scarso gradimento rispetto al punto di vendita, o sul venditore stesso. Posso essere estremamente attratto da un marchio di computer, ma non gradire assolutamente il modo di comportarsi arrogante del venditore esclusivista della zona.
  • Dissonanza prodotto-immagine. Posso gradire le caratteristiche tecniche del prodotto, ma non l’immagine che vi è associata. Può piacermi il prodotto Lacoste (in termini di qualità e finiture), ma non il soggetto tipico che indossa Lacoste. Posso amare il paesaggio visuale di Portofino, ma non i suoi frequentatori e la sua immagine di luogo d’elite.

[1] Vedi Rook, D.W. (1987). The buying impulse. Journal of Consumer Research, 14 (September), 189-199.

[2] Enciclopedia Rizzoli Larousse 2000.

[3] Il termine “buyer” viene utilizzato nel corso del testo per indicare la persona responsabile degli acquisti, o chi comunque assume un ruolo di cliente, acquirente, decisore o controparte rispetto al venditore.

[4] Mick, D.G. (1996). Are studies of dark side variables confounded by socially desirable responding? The case of materialism. Journal of Consumer Research, 23.

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© Copyright estratto dal libro di Daniele Trevisani (2016).  Psicologia di Marketing e Comunicazione. Pulsioni d’acquisto, leve persuasive, nuove strategie di comunicazione e management. Milano, Franco Angeli, 9° edizione.

Impressions management e proiezione dell’identità

Le nostre ipotesi vanno alla ricerca delle pulsioni e dei moventi profondi, oltre la pura espressione verbale e consapevole. Se considerassimo sufficienti le prime spiegazioni verbali fornite dai consumatori, per capire le dinamiche reali del loro comportamento, ci accontenteremo davvero di poco. Non è facile per nessuno dare risposte a domande del tipo: “Quanto ha influito il personaggio di Superman nella costruzione del tuo modello di Sé ideale” (ad un ragazzo, ma specularmente questo vale per la Barbie in una ragazza). L’influenza può essere avvenuta, e molto forte, ma a livello inconscio, senza una chiara percezione del fenomeno.

La letteratura psicosociale è sin troppo ricca di studi che dimostrano quanta distanza esiste tra ciò che le persone dicono di fare e ciò che fanno veramente, tra l’immagine che proiettano all’esterno e la propria vera identità, tra quello che sono e quello che vorrebbero essere.

Un primo momento di analisi riguarda la distanza tra ciò che le persone proiettano, tra ciò che dichiarano, e i veri comportamenti e pensieri posseduti. In genere la collimazione tra queste sfere non è totale, ma esistono aree del Sè che non emergono (area 1), ed aree del Sè puramente proiettate (area 3).

La ricerca di marketing ha evidenziato il fenomeno del Socially Desirable Responding (SDR) che riguarda la tendenza degli individui a proiettare di se stessi, quando intervistati formalmente o nella comunicazione interpersonale, un’immagine accettabile, positiva, rispetto alle norme culturali correnti, o alle norme dei gruppi di appartenenza.

David Mick (1996) ad esempio ha evidenziato le difficoltà insite nell’esplorazione del “dark side” del comportamento del consumatore, su temi quali il materialismo, l’uso di alcool e di droghe, l’acquisto compulsivo, i piccoli furti nei negozi, le scommesse, il fumo di sigaretta, e la prostituzione.

Il Socially Desirable Responding avviene sia per incapacità di focalizzare le proprie motivazioni, che per volontà precisa di nascondere fatti, comportamenti e opinioni, di consumo, culturali e politiche.


Un fenomeno estremamente diffuso è costituito dall’impressions management, il comportamento di gestione strategica della propria immagine verso gli altri. Questo viene attuato esprimendo pensieri e azioni conformi alle norme della buona convivenza sociale e della morale (e non ciò che si fa o si pensa realmente). Paulhus (1984) evidenzia come i soggetti intervistati nelle ricerche di mercato pratichino ampliamente impressions management e praticano tentativi di costruire le proprie risposte con lo scopo di riflettere un’immagine sociale positiva.

L’anonimità è stata trovata almeno parzialmente correlata alla costruzione di risposte meno artificiali. Anche in condizioni di anonimità, tuttavia, molti individui continuano a praticare un’attenta gestione dell’immagine che emerge dal modo di comportarsi e dalle risposte che si danno.

Un’ulteriore spiegazione del permanere di fenomeni di SDR anche in condizioni di anonimità deve portarci a chiederci: agli occhi di chi l’individuo cerca di apparire positivo? Solo agli occhi altrui? No. In realtà, l’impressions management avviene anche internamente all’individuo stesso, (self impressions management), in ogni momento in cui una affermazione provvede all’opera di costruzione dell’immagine ideale di se stessi (immagine di sé ideale o ideal self image).

Il SDR avviene anche in condizioni di scarsa rilevanza delle relazioni per l’individuo. Ad esempio è stato notato che le persone tendono a gestire la propria immagine praticando impressions management anche mentre chiacchierano in una coda d’attesa al supermercato, o su un autobus, o all’estero in un aeroporto con un vicino di viaggio, con persone che probabilmente non vedranno mai più.

Scelte del cliente e dissonanza

Le ricerche di Leon Festinger hanno ampiamente dimostrato il bisogno umano di evitare dissonanza tra i propri pensieri e le proprie azioni, sino al punto che – a fronte della percezione di una dissonanza interna – l’individuo modificherà le proprie opinioni o le proprie azioni per ricercare un equilibrio interno.

Il problema della dissonanza cognitiva nel marketing emerge in tutta la sua forza quando l’impresa non riesce a sviluppare un’immagine coerente tra qualità del prodotto, packaging, qualità del marchio, comportamento delle forze di vendita, materiali pubblicitari e internet, e ogni altro elemento comunicativo di contatto con il cliente.

Lungo il percorso di valutazione del prodotto, il consumatore o buyer può incontrare diverse fonti di dissonanza. Esponiamo alcuni esempi:

  • Dissonanza interna al prodotto. La dissonanza interna al prodotto emerge quando diverse caratteristiche dello stesso vanno in direzioni non compatibili l’una con l’altra. Ad esempio, una cucitura mal fatta in un abito da cerimonia (lo stesso difetto non disturberebbe più di tanto in un abito da giardinaggio). Oppure ancora, un paese di origine del prodotto che non rientra tra quelli graditi dal consumatore, pur essendo il prodotto perfetto dal punto di vista tecnico. O ancora, nel marketing turistico, la dissonanza tra l’ingresso di marmo di una struttura alberghiera ed il retro sporco e maleodorante, o la scelta difficile tra due prodotti entrambi lacunosi.
  • Dissonanza prodotto-venditore. Si presenta nelle situazioni in cui il prodotto piace, ma vi sono dubbi o scarso gradimento rispetto al punto di vendita, o sul venditore stesso. Posso essere estremamente attratto da un marchio di computer, ma non gradire assolutamente il modo di comportarsi arrogante del venditore esclusivista della zona.
  • Dissonanza prodotto-immagine. Posso gradire le caratteristiche tecniche del prodotto, ma non l’immagine che vi è associata. Può piacermi il prodotto Lacoste (in termini di qualità e finiture), ma non il soggetto tipico che indossa Lacoste. Posso amare il paesaggio visuale di Portofino, ma non i suoi frequentatori e la sua immagine di luogo d’elite.

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