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© Articolo estratto con il permesso dell’autore dal testo di Daniele Trevisani – “Psicologia di marketing e comunicazione. Pulsioni d’acquisto, leve persuasive, nuove strategie di comunicazione e management”. Franco Angeli editore, Milano.

Le valutazioni che il cliente sviluppa sul prodotto avvengono in base ad una sequenza temporale di “avvicinamento” al prodotto, una sequenza di steps. Come abbiamo sottolineato in precedenza, nell’ambito del rapporto psicologico con un prodotto, non tutte le componenti dello stesso possiedono uguale gradiente di importanza. Alcuni steps sono più critici di altri. Alcuni elementi, che denomineremo first above perceptivity line (FAPL, primi in linea rispetto alla percezione umana) possiedono un elevato carico comunicazionale di prodotto, ovvero incidono molto più fortemente di altri sulla percezione del consumatore – sia per la frequenza con cui vi entrano a contatto che per l’ordine di contatto a livello di step di utilizzo.

Se analizziamo il momento di prova di un’autovettura all’interno di un salone, noteremo che il primo elemento valutativo è dato dall’esterno della stessa (carrozzeria, colori, forme). Il secondo elemento proviene dall’apertura della porta, il terzo elemento dalla visione dell’interno. Avremo in seguito l’atto di entrata e quindi l’atto di seduta al posto di guida. 

In un campo diverso, ad esempio quello turistico, la sequenza di azioni del turista intento a cercare un albergo, potrà seguire steps quali un tour della cittadina turistica, una veloce occhiata ai diversi alberghi, per poi ritornare a chiedere informazioni su quelli che hanno destato interesse e sembrano alla portata del budget, per poi passare ad una visita della camera, ecc..

A seconda di quanto in profondità si voglia giungere nell’analisi dell’azione valutativa del cliente, è possibile analizzare diversi stadi: 

  • le micro-azioni, il comportamento del cliente “al microscopio” temporale (ad esempio, i singoli movimenti del capo e oculari che il cliente mette in atto nella valutazione di una vetrina); nel nostro metodo MICRO-PSA (micro-actions perceptual steps product-interaction analysis).
  • le meso-azioni, ad esempio, ciò che il turista compie in un arco di ore, inclusi tutti i diversi passaggi valutativi, precedenti e successivi all’acquisto); l’analisi relativa è denominata MESO-PSA (meso-actions perceptual steps product-interaction analysis). Riguarda azioni complete e distinte, che delimitano le fasi di fruizione del prodotto e possono considerarsi separate (durata: da pochi secondi ad alcuni minuti, es: l’avvicinamento ad un banco di frutta, la valutazione estetica ed odorifera, l’acquisto, e l’uscita dalla scena)
  • le macro-azioni, le sequenze di eventi che il consumatore mette in atto dall’inizio alla fine del processo di acquisto, incluso il rapporto con il personale di vendita, la valutazione dei locali, delle atmosfere, dei climi umani, i test del prodotto, i dialoghi con gli amici, gli avvenimenti critici che accompagnano tutta la vita del prodotto nel suo utilizzo, sino al punto di monitorare il comportamento del cliente durante tutto l’acro di vita e capire come si è formata l’intenzione d’acquisto del prodotto nel corso degli anni). La tecnica relativa è denominata MACRO-PSA (macro-actions perceptual steps product-interaction analysis).

Uno dei risultati della tecnica consiste nel determinare le componenti del prodotto situate in posizione first above the line, per giungere ad una programmazione del prodotto (in fase ideativa o migliorativa) che massimizzi gli investimenti dell’azienda.

In questa trattazione forniremo una breve descrizione di un’analisi di frame realizzato con livello di dettaglio MESO-PSA. Analizzeremo una breve sequenza di durata approssimativa di pochi minuti, relativa alla “prova di seduta” su un autovettura da parte di un potenziale acquirente, all’interno di un autosalone. In questo setting entrano in scena diverse porzioni del sistema di marketing del prodotto:

  • Step 1: visione dell’esterno dell’auto: marketing visivo – valutazione degli elementi visivi, forme, colori, linee;
  • Step 2: apertura della porta: sub-azione “utilizzo della  maniglia” – si attivano i sistemi di pertinenza del marketing tattile per la sensazione provocata dalla maniglia (caldo-freddo, rigidità, forme), del marketing cinestesico per il livello di sforzo e le sensazioni che derivano dal movimento della maniglia (maggiore o minore resistenza, scatti di apertura), del marketing uditivo per quanto riguarda il rumore del meccanismo di movimento della maniglia; uno scricchiolio in questo punto, ad esempio, causa l’immediato innalzamento della criticità valutativa;
  • Step 3: apertura della porta: sub-azione “movimento della porta” – si attivano le valutazioni di marketing cinestesico in riferimento al livello di sforzo necessario, alla sensazione di solidità della maniglia e della porta, alla scorrevolezza delle cerniere di supporto. Si attiva il marketing uditivo per il rumore dovuto agli attriti (ovattato, stridente, alto, basso);
  • Step 4: visione dell’interno – marketing visivo per gli elementi di interior design;
  • Step 5: fase di ingresso nell’abitacolo: sub-azione di entrata – attivazione del marketing cinestesico per l’ergonomia di ingresso, marketing olfattivo per le fragranze, profumi, odori presenti nell’ambiente interno, marketing tattile per le sensazioni provenienti dalle maniglie o altri elementi di appoggio;
  • Step 6: fase di ingresso nell’abitacolo: sub-azione del sedersi – attivazione del marketing tattile per l’ergonomia dello schienale e della postazione di guida, marketing tattile per la sensazione data dal volante e dal pomello del cambio, marketing visivo per la visione del cruscotto e della plancia, marketing emotivo per la sensazione prodotta dalla sinergia degli elementi percettivi (look-&-feel del prodotto).

Nel caso esposto, in pochi minuti entrano in azione una molteplicità di sistemi valutativi e percettivi. Nulla è ancora conosciuto a livello di prestazione dell’autovettura (tenuta di strada, ripresa, consumi, velocità, comfort di guida) e tuttavia gli elementi FAPL (first above perceptivity line) hanno già determinato, in buona parte, il gradimento del prodotto. Hanno quindi predisposto il consumatore in senso positivo o negativo in termini di intenzione di acquisto (fenomeno di imprinting di prodotto). 

Difficilmente la prova del prodotto potrà modificare sensazioni iniziali negative, e comunque si tratterà di un percorso in salita, che richiede l’inversione degli atteggiamenti iniziali, con conseguente dispersione di risorse.

Una analisi delle micro-azioni con il metodo MICRO-PSA (micro-azioni), incentrato su frame di analisi minimali, avrebbe potuto evidenziare particolari di livello quasi subliminale, come ad esempio l’istante di ricerca di feedback che l’attore genera con il contatto visivo nei riguardi dei presenti (moglie o amico), i quali l’accompagnano nell’esperienza, per verificare il livello di accettazione da parte dei gruppi di riferimento (gli “altri rilevanti”) e quindi orientare le proprie reazioni successive.

© Articolo estratto con il permesso dell’autore dal testo di Daniele Trevisani – “Psicologia di marketing e comunicazione. Pulsioni d’acquisto, leve persuasive, nuove strategie di comunicazione e management”. Franco Angeli editore, Milano. Vietata la riproduzione senza citazione della fonte.

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Temi e Keywords dell’articolo:

  • La psicologia del marketing
  • La tecnica PSA
  • Perceptual steps product-interaction analysis
  • First above perceptivity line
  • Carico comunicazionale di prodotto
  • Percezione d’acquisto
  • Leve di comunicazione
  • Sensazioni primarie
  • Marketing emozionale
  • Imprinting di prodotto
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  • Brand Awareness
  • Sistemi valutativi
  • Percezioni sensoriali visive
  • Percezioni sensoriali olfattive
  • Progettazione del prodotto
  • Trigger
  • Esplorazione
  • Esperienza

© Articolo estratto dal libro di Daniele Trevisani “Strategie di comunicazione e marketing. Un metodo in 12 punti per campagne di comunicazione persuasiva”. Franco Angeli editore, Milano. Pubblicato con il permesso dell’autore.

Communication Goals: ( Pag. 62 ) passare da un generico obiettivo ad un goal misurabile permette di fissare le azioni sul campo e valutare la qualità delle strategie. La fissazione dei goals richiede la produzione di variabili-target (su cosa voglio vedere effetti) e proposizioni dettagliate di risultato. Es, numero di click, cambiamenti nella percezione, numero di vendite attivate nel periodo di campagna… qualsiasi obiettivo può essere fissato purché misurabile o inquadrabile.

Communication Goals

I goals comunicativi esprimono le azioni che dovranno accadere, i risultati da ottenere, in termini quanto più possibile pratici e misurabili. 

I goals possono essere distinti in due grandi categorie:

  1. Informazionali: produrre o aumentare conoscenza e consapevolezza sua una certa notizia, situazione o stato di fatto. Il caso tipico è dato dalle campagne di “brand awareness” finalizzate alla diffusione della conoscenza del marchio.
  2. Attitudinali/psicologici: creare o modificare atteggiamenti, opinioni, credenze – sino, nei casi più complessi – all’azione sui valori di fondo. Il caso tipico è dato dalle campagne di “identity building” o costruzione di immagine – e da ogni attività che “crei le condizioni” perché un comportamento accada.
  3. Comportamentali/attivazionali: indurre cambiamenti reali, effettivi, nei comportamenti –  modificarli, eliminarli, o crearli. Casi tipici sono le campagne commerciali di vendita, le campagne per ridurre gli incidenti stradali o il fumo, o altre azioni comunicazionali in cui il risultato finale sia comunque un comportamento.

L’ordine di difficoltà è crescente man mano che si passa dalla “semplice” necessità di informare qualcuno, alla volontà di cambiare i suoi atteggiamenti e opinioni, sino al produrre veri cambiamenti di comportamento o creare nuovi comportamenti.

modificare comportamenti

Il goal-setting richiede la chiarificazione di cosa vogliamo ottenere. 

La domanda è: ma tu, hai chiari i tuoi goal? E la tua organizzazione o il tuo team, anno gli stessi tuoi goal o stanno remando in qualche altra direzione?

Occorre una grande affinità di intenti, occorre mettersi daccordo sugli obiettivi da ottenere, costi quello che costi.

Gli animali non si preoccupano del Paradiso o dell’Inferno. Nemmeno io, forse è per questo che andiamo d’accordo.

Charles Bukowski

Molte campagne di comunicazione che vorrebbero creare comportamento (nella comunicazione sociale, o nella vendita) non riescono nemmeno a creare informazione, poiché i goals non esistono o sono fumosi (deliberatamente o per incapacità).

Per facilitare il compito dei realizzatori, occorre predisporre goals chiari e ben comunicabili, abbinati ad apposite schede di rilevazione e check-lists che permettono di svolgere una verifica adeguata. 

Non possiamo infatti creare la situazione in qualcuno, al termine di un briefing, si trovi a dire: “molto bello, però adesso cosa devo fare?” I funzionari o professionisti che sanno tradurre un goal in una sequenza precisa di azioni da intraprendere sono abbastanza rari. Per questo motivo, le check-lists e formulari consentono di avviare molto più rapidamente le operazioni di campagna. 

checklist

Nel metodo ALM abbiamo individuato e predisposto diversi tipi di supporto per il goal-setting nelle campagne di comunicazione e marketing B2B :

Check-list riepilogative di campagna (CRC): predispongono i compiti (task) da assegnare ai diversi membri del team; riassumono i risultati di campagna.

Check-list riepilogative individuali per il team-member (CRI): predispongono e riassumono operazioni svolte da singoli membri del team.

Check-list riepilogative di analisi sul singolo prospect (CRP): predispongono azioni comunicative e riepilogano sotto forma di questionario la situazione rilevata nel singolo cliente attuale o potenziale (o altro destinatario di campagna).

Goals specifici e misurabili

Le campagne necessitano di goals specifici, differenziati dagli obiettivi generici. Per un punto vendita, aumentare il confort del cliente sul non è un goal ma un obiettivo, mentre lo specifico goal può essere formulato  come “ridurre i tempi medi di attesa del cliente da 5 a 2 minuti”. 

goals specifico

Allo stesso modo, l’obiettivo “farsi conoscere dal pubblico” è certamente un risultato auspicabile per ogni azienda, ma per divenire operativo deve essere tradotto in goals misurabili, come “portare a conoscenza i potenziali clienti dell’apertura dei nostri punti vendita, generando un grado di conoscenza (awareness) di almeno il 70% delle famiglie nella città A e il 40% nella città B entro 6 mesi dall’apertura” – proseguendo con la definizione di altre formulazioni misurabili.

Vediamo alcuni esempi di goal misurabili :

Tabella 1 – Esempi di impostazione di goals misurabili per campagne di comunicazione, marketing e commerciali

Per una catena di negozi di abbigliamento“incrementare entro 8 mesi la durata della visita media da 22 minuti a 40 minuti, in almeno il 70% dei nostri punti vendita, attraverso azioni di ottimizzazione della Customer Experience
Per una catena di vendita informatica“ridurre entro 12 mesi dal 25% al 4% il numero di clienti in età 14-24 che reputano insoddisfacente il nostro servizio post-vendita ottenuto attraverso il call-center”
Per una banca o assicurazione“incrementare il tasso di chiusura dal 3% al 40% sui servizi finanziari destinati alle PMI nella regione Lombardia, su vendite gestite dalla rete di vendita esterna, per l’anno XXXX”(l’obiettivo viene ripetuto declinandolo con % e goals specifici per ogni regione)
Per un’azienda automobilistica“almeno il 95% di chi ha acquistato un’auto del nostro marchio deve essere contattato da una nostra concessionaria al raggiungimento dei 100.000 Km percorsi e non oltre i 120.000, per offrire un up-selling
Per un’azienda di allestimenti fieristici“Il 100% dei direttori commerciali delle aziende dai 50 ai 100 mil. di euro della provincia di Brescia deve essere contattato dal 10 settembre al 10 novembre, con un tasso di chiusura del 10% entro il 20 novembre”(l’obiettivo viene ripetuto con tassi diversi per altre 15 province limitrofe)
Per un’associazione industriale“Il 60% dei direttori risorse umane delle aziende associate (target customer) deve acquisire la pratica di interpellarci, nel prossimo anno, prima di ogni azione formativa, per ottenere una consulenza di processo”(l’obiettivo viene ampliato al target “direttori commerciali” per l’anno successivo)

Ogni goal deve essere delimitato nel tempo, nello spazio fisico-geografico nel settore merceologico, nella tipologia di soggetti su cui agire, sino ad identificare con estrema precisione i target di campagna.

La struttura aziendale, di fronte ad input chiari, risponde solitamente con maggiore efficienza ed efficacia, e passa rapidamente allo sviluppo di soluzioni operative. Obiettivi confusi e poco traducibili in pratica creano invece demotivazione e portano ad uno stato di generale frustrazione e malcontento nelle risorse umane. 

Pertanto, la creazione di goals e la buona strutturazione della comunicazione rappresenta un importante momento che il management deve utilizzare per lanciare un messaggio chiaro alle risorse umane: “sappiamo cosa vogliamo”. 


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© Articolo estratto dal libro di Daniele Trevisani “Strategie di comunicazione e marketing. Un metodo in 12 punti per campagne di comunicazione persuasiva”. Franco Angeli editore, Milano. Pubblicato con il permesso dell’autore.

Mission, obiettivi e goals

La mission definisce il motivo di esistere di un’organizzazione. 

La mission deve avere qualcosa di nobile, qualcosa per cui valga la pena battersi e ogni sforzo speso per trovare questo senso si ripaga esponenzialmente.

Quando crediamo in quello che facciamo, diventiamo inarrestabili.

Partendo da questo assunto di base, possiamo considerare che un campaign team – il gruppo di professionisti, collaboratori e strutture che cooperano al team di campagna – sia un’organizzazione temporanea di persone accomunate da una mission, che deve essere chiaramente esplicitata. 

Per cosa si riuniscono queste persone? Non dobbiamo confondere la mission con i macro-obiettivi e gli obiettivi con i goals. I goals sono descrizioni specifiche che contengono proposizioni di risultato misurabili, mentre gli obiettivi di campagna devono essere più ampi e “rendere il senso” di ciò che stiamo facendo.

La mission deve invece possedere, alla sua base una forte componente di coraggio, di sfida, di “relazione d’aiuto”.

help

La sua formulazione (nel metodo ALM, ma anche in altre formulazioni) richiama sempre un “risolvere i bisogni di…”, trovare soluzioni per…” e altre formule di ispirazione ai bisogni di miglioramento sociale o di realizzazione di propositi di crescita, positività e sviluppo. 

Nessun esercito può resistere alla forza di un’idea il cui momento è arrivato.

Victor Hugo

La mission deve essere centrata sullo sviluppo sociale o economico e non solo sugli obiettivi economici o aziendali. 

La confusione tra mission (contribuire a…) e obiettivi economici aziendali è uno dei più frequenti errori di management, una miopia gravissima.

Ad esempio, un caso seguito dall’autore riguarda la creazione di una campagna commerciale per un nuovo prodotto dell’azienda Secure[1], destinato alla sicurezza dei sistemi informativi aziendali (information security), in un territorio ad alta concentrazione industriale. Il timore di sabotaggi e attentati, unito alla sostanziale arretratezza dei sistemi informativi presenti nelle aziende, rendeva urgente occuparsi di questo tema.

La declinazione di obiettivi può essere così descritta e articolata:

esempio di mission “diffondere nelle aziende a rischio ambientale una grande cultura della sicurezza, potenziare i sistemi di difesa e prevenzione, ridurre drasticamente le possibilità di incidenti derivanti da attacco informatico interno o esterno, finalizzato al sabotaggio agli impianti, da cui possano derivare morte e rischi per le comunità locali”. 

Da questa formulazione orientata a produrre benefici (evitare incidenti chimici derivanti da sabotaggi informatici), derivano obiettivi più connessi alla necessità aziendale di produrre. Tuttavia, i secondi non possono essere anteposti ai primi, pena una grave perdita di visione e il concreto rischio di veder svanire tutta la competitività del progetto stesso. Per cui, data la mission, si passerà a definire:

obiettivi (più puntuali), come “testare la qualità e vulnerabilità dei sistemi informativi delle aziende chimiche e a rischio industriale nel territorio del Nord-Est”, “verificare la tenuta delle procedure informatiche interne in casi di crisis management, per ogni processo”, e altri.

specifici goals misurabili. Es: “portare 3 stabilimenti chimici di grandi dimensioni del nord-est, ad un livello di sicurezza 100/100 sulla nostra scala di rating”, “diffondere la brand-awareness dei prodotti Secure tra le PMI delle province di Venezia, Ferrara e Ravenna, realizzando almeno 10 dimostrazioni complete del sistema Secure ai direttori di stabilimento e della sicurezza entro 4 mesi dal lancio della nuova gamma di prodotto”, e altri goals.

Dobbiamo chiarire al mondo, a noi stessi e ai nostri collaboratori e partner cosa stiamo facendo. Questo è lo spirito della mission. Senza chiarire fino in fondo la mission, essa rimarrebbe una coltre di etica nebbiosa, una “mano di bianco” manageriale su un muro traballante pronto a cadere. 

Bisogna far emergere definitivamente e una volta per tutte se il risultato che vogliamo produrre è utile e per chi. A chi serviamo? A cosa vogliamo dare un contributo con la comunicazione, con il prodotto o servizio? 

Spiegarsi, condividere con qualcuno il senso è lo scopo è fondamentale per raffinare la strategia.

clear

Il miglior modo per chiarirsi le idee è quello di spiegarle a un’altra persona.

Arthur Conan Doyle

Nell’esempio sopra riportato, sarebbe particolarmente facile confondere la mission con gli obiettivi economici. Perché la Secure dovrebbe preoccuparsi della sicurezza degli abitanti, prima che di vendere? Perché la dimostrazione va fatta ai direttori di stabilimento e responsabili della sicurezza, e non ad esempio ai direttori commerciali? Domande stupida? Molti direttori commerciali, presi dall’ansia di vendere, smettono di curarsi di “cosa stiano facendo e per chi”, “a cosa stiamo dando un contributo vero”. Ma questo è un errore gravissimo, il primo anello della catena del fallimento.

Sempre nello stesso caso, se la mission fosse “proteggere i dati aziendali dal furto, evitando perdite economiche derivanti da fuoriuscite di informazioni commerciali riservate”, l’interlocutore da ingaggiare (Key Leader Engagement) diventerebbe immediatamente il direttore commerciale, e non più il direttore tecnico. 

Cambierebbe immediatamente la rete dei partner della campagna. Gli assessori all’ambiente – partner della prima mission, e sicuramente interessati a contribuire, se ben motivati, alla campagna inerente la sicurezza per i cittadini del proprio comune – non sarebbero più nemmeno da pensare come possibili partner per la campagna sulla sicurezza dei dati commerciali. Quindi, non dovrebbero più essere oggetto di Key Leader Engagement. Ingaggiarli, andare a parlare con loro per ottenere un supporto dall’Ente, diventerebbe solo uno spreco di tempo. Dovremmo invece cercare ingaggi più coerenti e utili.

Cambierebbero tutti i riferimenti, tutti i goals, tutte le strategie di comunicazione, di canale, e di motivazione. In pratica, si tratterebbe di un’altra campagna. Il risultato finale può essere comunque lo stesso (es:, vendere 10 sistemi di sicurezza entro 5 mesi), ma l’impianto strategico che sottostà la campagna di comunicazione cambia completamente, e se non lo capiamo non si venderanno né i primi 5 né gli ulteriori “pacchetti di servizi”, a nessuno.

Il risultato comunicazionale avviene solo quando la mission della campagna è ben studiata e formulata.

È questo uno dei punti che più distingue i “comunicatori professionali” dagli “improvvisatori professionali” e dai “manager da pollaio” (le persone cui non dovrebbe essere dato nemmeno il compito di gestire più di tre galline, pena l’accadere di gravi disastri, e che purtroppo invece occupano spesso posizioni che non dovrebbero).


[1] Per motivi di riservatezza, i dati (nomi, territori, etc.) sono alterati al fine di salvaguardare l’identità del cliente, pur mantenendo intatta la “filosofia” del progetto.

Altri materiali su Comunicazione, Formazione, Potenziale Umano, Crescita Personale e Professionale, disponibili in questi siti e link:

Altre risorse online

Articolo a cura della dott.ssa Ginevra Bighini, www.negoziazioneinterculturale.wordpress.com; mentoring a cura del dott. Daniele Trevisani, www.studiotrevisani.it

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Parlare di personal branding oggi non è una novità. Al contrario possiamo affermare con tranquillità che il termine sia largamente sdoganato, nonostante se ne parli con sempre maggiore superficialità, senza approfondirne tecniche e metodi.

Nell’articolo qui di seguito, oltre a definire la valenza semantica del termine e a raccontarne la storia, cercheremo di elencare sinteticamente le strategie più diffuse.

Il significato più contemporaneo del termine personal branding risale ad un articolo del 1997 di Tom Peters, mentre il concetto di self-branding (o brand individuale) si ricollega al testo Positioning: The Battle for your Mind”, scritto da Al Ries e Jack Trout nel 1980. Qui si conia per la prima volta, in questo tipo di contesto, il verbo to brand, che letteralmente significa “Marchiare”.

Per quanto riguarda il suo significato attuale invece, questi si esprime perfettamente attraverso le parole del sito www.insidemarketing.it:

“Con l’espressione Personal branding si fa riferimento a quel complesso di strategie messe in atto per promuovere se stessi, le proprie competenze ed esperienze, la propria carriera alla stregua appunto di un brand.”(1)

Unendo i due significati possiamo sintetizzare che il personal branding non è altro che un modo per pubblicizzarsi, veicolando un’immagine di sé in grado di fare breccia nella mente altrui, quasi come se marchiassimo a fuoco la parte migliore di noi, così da distinguere noi stessi dal resto della massa di professionisti che opera nel nostro campo.

Ma quali sono le strategie da adottare per essere un brand di successo?

Innanzitutto bisogna sottolineare che fare personal branding non significa soltanto avere un blog o postare sui social. Di fatto è possibile diventare oggetto di marketing tramite canali esterni alla rete, come giornali, cartelloni pubblicitari, ecc…

Bisogna anche ammettere che i canali cosiddetti offline sono molto costosi e non ci danno grande libertà di movimento, nonostante appaiano generalmente più autorevoli.

Ecco perché il web è il canale più sfruttato: è libero, costa poco e raggiunge un pubblico più ampio.

Detto ciò, vediamo passo per passo alcuni punti strategici di personal branding:

1 – Costruire la propria brand identity

La brand identity (o identità di brand) è la chiave per raggiungere il successo. Essa si costituisce di tutti i valori, competenze e obiettivi, che formano il contenuto distintivo strategico da veicolare per permettere alla nostra immagine, e quindi al nostro brand, di spiccare sugli altri. Chiaramente, diventando noi stessi il brand, è importante essere veri e onesti, rimanendo fedeli ai propri ideali, altrimenti si creerebbe un contrasto tra “noi in quanto persone” e “noi in quanto brand” vanificando l’efficacia di tutto il lavoro di personal branding.

2 – Curare i dettagli

Una volta definiti i tratti distintivi che vogliamo diffondere, è necessario soffermarsi sui punti di forza e sui dettagli apparentemente marginali capaci in qualche modo di attirare l’attenzione dell’utenza. Questi dettagli possono essere collegati alla nostra vita privata o a quella professionale, e quindi essere più o meno legati al contesto, ma il segreto sta sempre nell’essere originali, poiché l’obiettivo rimane comunque quello di distinguersi dal resto dei competitors.

3 – Scegliere attraverso quale mezzo e con che stile comunicare il nostro brand

Molto semplicemente, come già spiegato in precedenza, bisogna decidere se sfruttare canali online, come blog, social network, ecc…, meno dispendiosi e di più ampia distribuzione, oppure canali offline. La scelta dipende dal tipo di strategia comunicativa che si è deciso di adottare per raggiungere gli obiettivi prefissati e il tipo di pubblico a noi più congeniale. Una volta scelto il mezzo è importante non dimenticarsi dello stile, che potrà essere più spontaneo ed empatico o più distaccato e professionale, sempre in base al “cosa” desideriamo valorizzare di noi.

4 – Creare una rete di contatti

Infine è fondamentale utilizzare gli stessi mezzi di comunicazione scelti per creare una rete di contatti utili a diffondere le nostre idee e il nostro brand. Costruire delle relazioni solide e sfruttare il passaparola sono due degli elementi alla base di qualsiasi strategia di personal branding e non è possibile prescindere da essi. Di fatto anche il brand più interessante del mondo, senza nessuno disposto a veicolarlo, non sarà in grado di superare le mura di casa.

5 – diffondere un messaggio tramite emozioni

Ora che abbiamo i mezzi e le persone, non dobbiamo fare altro che esprimere il nostro messaggio facendo leva sulle emozioni. Uno stile da non sottovalutare in questo senso è lo storytelling , che permette di raccontarsi in maniera più diretta e introspettiva, comunicando sogni, progetti e aspirazioni, così da creare empatia nel pubblico e diventarne oggetto di ispirazione.

Questi sono solo alcuni dei metodi da cui prendere spunto per avviare un processo di personal branding. Come specificato all’inizio, questa disciplina strategica, se così vogliamo chiamarla, è molto più complessa di quello che appare e servono anni di esperienza per poterla gestire con abilità ed efficacia, ma così come per molte altre discipline, anche per il personal branding possiamo far valere il detto: “la pratica vale più della grammatica”.

personal branding

(1) https://www.insidemarketing.it/glossario/definizione/personal-branding/

Articolo a cura della dott.ssa Ginevra Bighini, www.negoziazioneinterculturale.wordpress.com; mentoring a cura del dott. Daniele Trevisani, www.studiotrevisani.it