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autodeterminazione culturale

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© Articolo estratto dal libro di Daniele Trevisani “Negoziazione interculturale. Comunicare oltre le barriere culturali. Dalle relazioni interne sino alle trattative internazionali”. Franco Angeli editore, Milano. Pubblicato con il permesso dell’autore

La cultura come stato di coscienza

La comunicazione interculturale può essere concepita come un contatto tra diversi stati di coscienza, un ponte tra universi mentali distanti. 

Lo stato del sonno è uno stato di coscienza, così come lo è la veglia, o il rilassamento, l’agitazione e l’ansia, il fantasticare o sognare ad occhi aperti. 

La cultura italiana è uno stato di coscienza, così come lo è la cultura americana, o cinese. 

Ogni cultura mette il soggetto nella condizione di prestare più attenzione a certi aspetti del mondo e di trascurarne o ignorarne altri.

Gli esquimesi vedono oltre dieci tipi di neve e hanno parole per ciascuno di essi. Noi vediamo una singola neve. Per noi la neve è la neve, e basta. Facciamo fatica anche solo a pensare che esistano dieci nevi. 

Secondo l’ipotesi Sapir-Whorf e gli studi di psicolinguistica, lo stesso linguaggio forma una struttura della realtà e plasma la realtà che vediamo. 

Ogni essere umano percepisce la realtà in modo diverso, per cui (per quanto difficile sia da accettare) non esiste “una realtà” ma più realtà a seconda degli schemi mentali utilizzati per la percezione (multiple reality theory).

Dieci persone diverse, in un viaggio comune, daranno dieci resoconti diversi dello stesso viaggio, pur essendo stati esposti agli stessi fenomeni esterni. Un fenomeno esterno (presunta realtà oggettiva) non produce automaticamente la stessa esperienza soggettiva del fenomeno (realtà percettiva).

Questo per alcuni è inaccettabile, il rifiuto di tale concetto produce rigidità umana e manageriale, conflitti, guerre, disastri economici, e fallimenti aziendali.

L’incomunicabilità nasce persino all’interno dell’individuo stesso, che si trova dissociato tra il proprio Sè cosciente (ad esempio l’identità professionale) e il proprio inconscio (sede dei sogni, aspirazioni, pulsioni ancestrali ed istinti). 

L’individuo che non comunica con se stesso (ad esempio, nel dialogo interiore tra componente razionale, emozioni e istinto animale) ha difficoltà a riconoscere i propri stati emotivi, non capisce alcuni dei suoi comportamenti o non sa darsene una spiegazione, vorrebbe essere in un modo – es: estroverso, assertivo, tranquillo, integrato, a suo agio, sicuro, flessibile – e si trova nella condizione opposta, non riuscendo a capire perché.

Allo stesso tempo, l’individuo che “non si conosce” applica regole e schemi culturali senza esserne conscio, agisce senza consapevolezza di quali norme, principi, precetti, canoni, direzioni, usanze, linee guida o teorie implicite stia utilizzando.

Principio – Incomunicabilità interna all’individuo stesso

Il successo della comunicazione dipende:

  • dalla capacità di mettere in contatto tra di loro le componenti intra-individuali, e sbloccare la comunicazione tra le diverse componenti del soggetto stesso (livelli conscio, subconscio e inconscio);
  • dal grado di consapevolezza acquisita dal soggetto stesso rispetto alla propria cultura, in termini di valori, credenze, schemi, atteggiamenti e altri tratti culturali acquisiti;
  • dalla capacità di rimuovere il “rumore di fondo” intrapsichico (ansie, preoccupazioni, fissazioni, rumori psicologici) e attuare una forte presenza mentale durante gli incontri e scambi comunicativi.

La memetica

Una vita sana (personale ma anche aziendale) richiede consapevolezza di quali credenze, valori o insegnamenti stiamo mettendo in pratica, e soprattutto riconosce il fatto che essi sono stati acquisiti dall’acculturazione, sono stati assimilati dall’ambiente circostante – dalla famiglia alla scuola alla religione – sono “entrati” ed il soggetto stesso ne è impregnato. 

Gli esseri umani sono pieni di “memi”[1], di tracce mentali, idee, credenze, apprese dagli altri esseri umani (face-to-face) o da fonti mediate. Anche le aziende sono piene di “idee” o “tracce mentali” spesso subìte più che costruite.

La memetica – come nuova disciplina nel panorama delle scienze sociali – si occupa di come le idee o “memi” si trasmettono da persona a persona, da gruppo a gruppo, al pari di come la genetica si occupa della trasmissione dei geni e dei patrimoni ereditari.

Le idee di cui ciascuno di noi è portatore sono state apprese da qualcuno (in larga parte), e noi stessi le abbiamo in parte modificate, divenendo portatori di memi. Chi ha portato queste idee dentro di noi? Chi le ha portate nell’azienda? Come si sono diffuse? Chi ne è portatore sano? Sono tutte buone o alcune di queste sono virus dannosi?

Non appena due culture si incontrano, scopriamo che i nostri memi sono diversi da quelli altrui, ma in termini “riproduttivi” cerchiamo di replicare i nostri piuttosto che di accettare quelli degli altri. 

Al centro della negoziazione interculturale non c’è solo la questione di chi “abbia ragione” sui dettagli, ma addirittura il tentativo di far sopravvivere i propri “memi”, di riprodurre la propria visione delle cose, a volte di imporla. Questo comportamento dal punto di vista etologico, dell’“animale umano”, è normale, risponde ai principi di conservazione della specie.

Come ogni essere animale cerca di riprodurre i propri geni, l’essere sociale cerca di riprodurre le proprie idee (“memi”) e di trasmetterle ad altri. 

Il concetto di “memetica” (espresso da diversi scienziati) si presta bene a studiare come le idee si trasmettono da persona a persona, da gruppo a gruppo, al pari di quanto fa la “genetica” con la trasmissione e replicazione dei geni.

La negoziazione interculturale non consiste solo in un incontro tra posizioni diverse nei dettagli, ma nello scontro tra soggetti portatori di una “memetica” diversa, di una “genetica culturale” o patrimonio personale diverso. 

Esiste quindi una prima forte consapevolezza che rende il negoziatore interculturale più efficace: la consapevolezza della propria cultura, dei propri “memi” attivi. 

Questa consapevolezza non significa rifiuto e non deve produrre automaticamente rifiuto di quanto appreso culturalmente, ma solo e semplicemente consapevolezza di quanto appreso (cosa), delle fonti (da chi), e della storia dei propri apprendimenti (quando).

La consapevolezza della propria cultura e delle fonti

Principio – Consapevolezza delle proprie fonti culturali

Il successo della comunicazione dipende dalla consapevolezza:

  • delle fonti personali (persone fisiche) che hanno realizzato imprinting significativi sul proprio sistema di credenze e comportamenti;
  • delle fonti mediate (media, libri, letture, films) che hanno inciso sulla propria cultura personale;
  • dei tempi dell’assimilazione e delle sue fasi significative e pietre miliari;
  • della profondità di assimilazione nel Self delle diverse regole culturali, norme, guide, leggi e insegnamenti che si adottano;
  • dalla capacità di riconoscere i fattori e le persone da cui si sono assimilate specifiche abilità, atteggiamenti e comportamenti oggi praticati sul lavoro e a livello professionale (es: dove e da chi si sono appresi gli stili e comportamenti di negoziazione e di relazione oggi usati).

Si può accettare di tenere con sè una regola culturale, o si può decidere consapevolmente di tentare di eliminarla dal proprio modo di essere, ma solo dopo avere preso coscienza della sua esistenza (autodeterminazione culturale).

Nel metodo ALM, l’individuo è visto come una cellula in grado di applicare osmosi positive (scambiare con l’ambiente flussi di sapere e di esperienze). 

Come in ogni cellula, senza scambio non esiste nè nutrimento nè eliminazione di tossine. Così, anche nella comunicazione interculturale è necessario saper eliminare le tossine culturali che impediscono il buon funzionamento del Self, e sapersi aprire all’immissione di nuovi elementi.

Principio – Autodeterminazione culturale e locus-of-control interno culturale

Il successo della comunicazione dipende:

  • dalla capacità del soggetto nello scegliere quali regole culturali e tratti culturali mantenere nel proprio bagaglio personale (set culturale);
  •  dalla capacità del soggetto nello scegliere quali regole culturali e tratti culturali eliminare dal proprio set;
  • dalla capacità del soggetto nello scegliere quali nuove regole culturali e nuovi tratti acquisire nel proprio bagaglio personale;
  • dalla consapevolezza di fondo del fatto che sia possibile svolgere un’analisi di scoperta e consapevolezza della propria cultura, per riprendere il controllo delle regole culturali che si applicano. Questa conquista dipende dalla revisione del senso di controllo sul proprio destino, sugli eventi, e persino sulla propria cultura, vista come qualcosa su cui il soggetto può agire (locus-of-control interno).

Il negoziatore interculturale è vivo – come una cellula biologica – quando aperto al proprio cambiamento e allo scambio con l’ambiente. È morto e produce esiti nefasti quando rifiuta di accettare che le diversità esistono e devono essere capite e analizzate.

Tanto maggiore la sua capacità di scambio e osmosi con l’ambiente, quanto maggiore il livello di fitness psico-fisiologico.

L’essere interculturale è altrettanto morto quando non possiede una propria identità, accetta incondizionatamente la “memetica” altrui e rifiuta il proprio patrimonio, disperdendo quanto di buono esso abbia da offrire alla ricchezza relazione.

Come in molte delle attività umane, un buon esito richiede la capacità di trovare un equilibrio tra 

  1. tendenza alla accettazione incondizionata della cultura altrui (ipocrisia culturale) e
  2. tendenza all’imposizione incondizionata della propria cultura verso l’altro (imperialismo culturale).

Gli stati di coscienza alimentano le identità culturali.

Essere italiano ed essere stato cresciuto nella cultura italiana produce una visione del mondo assimilabile ad uno stato di coscienza, e alcuni comportamenti – ad esempio sedersi tutti a tavola in famiglia – entrano nella sfera della normalità di quello stato di coscienza. 

Arrivare a tavola tardi e andarsene prima non è culturalmente corretto nella cultura italiana standard, ma è normale nella cultura americana, passare la nottata al computer center è positivo per uno studente americano, orribile per un italiano. Per lo studente americano copiare è riprovevole, per l’italiano è da furbo. Si tratta di “memi” diversi che circolano: “se copi sei furbo” vs. “se copi sei un fallito”. Ogni negoziazione interculturale porta con se “memi” diversi.

Il problema delle culture è che le loro norme non scritte entrano “senza bussare”, per osmosi, e queste norme diventano tangibili solo quando avviene un contatto con una cultura diversa.

Ad esempio, uno studente italiano che offra ad un collega americano di copiare i propri compiti, per renderselo amico, anziché rafforzare un legame verrà additato, rifiutato e relegato.

Anche le aziende hanno culture tra loro diverse, così come le aree aziendali (amministrazione, vendite, acquisti, produzione) hanno culture proprie e distinte. A causa della grande varietà di input a cui si è esposti, non esiste una creatura che ragioni con gli stessi identici schemi mentali di un’altra.

In questo contesto, le persone si trovano a negoziare e a comunicare.

La ricerca del Common Ground

Due soggetti che possiedono visioni identiche e obiettivi identici, due cloni mentali, non hanno bisogno di entrare in una vera negoziazione e non potranno costruire nulla di originale e “più creativo del singolo”, lavorando assieme, essendo il loro bagaglio identico.

Quando invece emergono diverse visioni, diverse concezioni, esigenze diverse, la negoziazione entra in campo, così come la possibilità di costruire creativamente attingendo da più bagagli diversi.

Negoziare significa impegnarsi attivamente nella ricerca di una soluzione che soddisfi due o più interlocutori che partono da posizioni  culturalmente diverse, facendo emergere (1) le differenze latenti e (2) le basi comuni su cui poggiare.

Stiamo negoziando mentre trattiamo un prezzo o un acquisto – e questo è evidente – ma anche mentre si discute su quale film vedere (sentimentale o d’azione), o cosa fare nel weekend o in vacanza (mare, montagna, riposo, lavoro, visite familiari, sport) partendo da gusti e preferenze diverse. 

Principio – Prerequisiti negoziali

Il successo della comunicazione negoziale dipende:

  • dal grado di impegno/volontà di ciascun soggetto per la ricerca attiva di una soluzione di reciproca soddisfazione (approccio win-win);
  • dalla capacità di riconoscere esattamente i fattori che rendono diversa la posizione di partenza o gli interessi delle parti (riconoscimento delle diversità);
  • dall’utilizzo delle diversità passate allo stato cosciente, come motore propulsivo e creativo;
  • dalla ricerca e costruzione delle basi comuni (common ground) su cui costruire gradualmente una soluzione.

In una famiglia, una negoziazione su “quale vacanza fare” sarà ampiamente improduttiva se parte dalla discussione di specifici dettagli quale il nome dell’albergo o della località, e non si addentra – prima di tutto – sulla ricerca del common ground esperienziale: quale tipo di vacanza vogliamo fare assieme? Che tipo di esperienza vuole l’uno e quale vuole l’altro? Nella nostra mente quali sono le aspirazioni relative alla vacanza (relax, avventura, esplorazione, ozio, cura, sicurezza, rischio, vicinanza, lontananza, vacanza esotica, etnica, culturale, e altri elementi di fondo), e dove sono le nostre divergenze di fondo?

Anche tra aziende, è inopportuno e rischioso avviare una negoziazione sui dettagli (prezzo, ore, date, luoghi) senza aver definito quale tipo di relazione si desidera (anche solo “desidera”, non necessariamente “impone”). Ad esempio, in ogni negoziazione d’acquisto/vendita sarà necessario capire se stiamo parlando di una vendita “una tantum”, di una “prova del prodotto”, della ricerca di un “fornitore di continuità”, della ricerca di un “partner scientifico di ricerca e sviluppo”, e altre connotazioni di fondo.

Dettagli apparenti e sistemi di significazione

Si negozia in azienda anche sui dettagli apparenti.

I dettagli apparenti contengono una diversa visione del mondo. 

Quando si deve decidere quale formato dare ad un corso di formazione – scegliendo di fare otto ore in una giornata intera o fare il corso nei ritagli di tempo – si manifesta una cultura della formazione e una cultura dell’uomo.

Possiamo avere opinioni diverse sul fatto che sia più produttivo un intervento formativo di forte intensità in full-immersion (es: cinque giorni interi), o che sia meglio fare una giornata al mese; possiamo discutere sul fatto che sia meglio trattare i partecipanti con i guanti (tratto culturale “il cliente ha sempre ragione”), o agire con forte decisione per ottenere un cambiamento profondo. 

Di un possibile progetto, abbiamo esposto un piccolo dettaglio, ma possiamo avere diverse opinioni su una innumerevole mole di altri dettagli. 

Questi dettagli apparenti – va ricordato – non rappresentano solo dettagli – ma intere visioni del mondo

Ogni dettaglio  è – dal punto di vista semiotico – un sistema di significazione, un’antenna che comunica il contenuto di interi mondi sottostanti.

Principio – Dettagli come indicatori di visioni del mondo

Il successo della comunicazione negoziale dipende:

  • dal riconoscimento dell’importanza dei dettagli come indicatori di visioni del mondo (dettagli come sistemi di significazione allargata);
  • dalla capacità di gestire i dettagli con attenzione strategica.

Tornando all’esempio, il grado di “morbidità” dell’intervento formativo è considerato talmente un dettaglio da non essere a volte nemmeno discusso in una progettazione corsuale, ma dietro al dettaglio si colloca la visione più o meno marziale dell’educazione e della vita, la storia e le esperienze delle persone, e la loro visione del mondo. 

Dietro alla concentrazione temporale di un intervento formativo, o la sua distribuzione in più fasi, si colloca la filosofia del tempo, una filosofia del cambiamento graduale vs. una cultura dei risultati immediati. 

La modalità stessa con cui un corso viene comunicato, preparato, ritualizzato – oppure banalizzato, denota una diversa visione delle risorse umane e l’intera cultura dell’essere umano che lavora.

Ogni dettaglio apparente contiene una possibile diversa visione del mondo. 

È per questo motivo che la negoziazione – intesa come “costruire qualcosa assieme” – richiede impegno e scienza, partendo dalle questioni di fondo sino ai dettagli.

Esiste anche un modo diverso di osservare la negoziazione. Possiamo concentrarci sul livello di negoziazione interpersonale o su un livello di negoziazione organizzativa (aziendale, o tra enti/istituzioni). In entrambi i casi, ciò che conta è cogliere la diversa dimensione culturale e di visione del mondo che gli interlocutori possiedono.

Comunicazione, negoziazione e seduzione

Negoziare richiede la capacità di sedurre. Una seduzione per nulla sessuale, ma nei fatti assimilabile al corteggiamento: la proposta deve contenere “appeal”, deve rispondere a pulsioni ed esigenze dell’interlocutore. Una proposta forzata non è negoziazione in senso stretto ma imposizione. Una condizione mal digerita, inoltre, si presta molto di più ad essere rifiutata a posteriori, disattesa, o non applicata.

In ogni negoziazione esiste una componente di seduzione.

Da migliaia di anni, i teorici di ogni disciplina stimolano le persone ad adattare la propria arte alle situazioni diverse in cui dovranno operare, riconoscendo la necessità di tarare la strategia verso l’interlocutore, creando una comunicazione centrata sui destinatari.

Aristotele, nella Retorica, si occupa di seduzione pubblica e persuasione. Invita il politico ad usare dinamicamente ethos(credibilità), logos (arte dialettica) e pathos (capacità di suscitare emozioni) centrando il pubblico nel suo essere più intimo.

Come evidenziano ricerche sulla accuratezza delle valutazioni interculturali[2], l’errore di giudizio (sbagliare nel capire con chi si ha a che fare, o decodificare male un messaggio) – un errore già presente a livello intra-culturale – viene potenziato dalle distanze culturali, ed è uno dei fattori più distruttivi nella negoziazione. 

La strategia comunicativa deve tenere conto dei tratti culturali della controparte.

La comunicazione interculturale richiede impegno, a livello di:

  • comprensione del sistema culturale con il quale si interagisce;
  • conoscenza dei valori di fondo e delle credenze dell’interlocutore;
  • identificazione sociale: quale status possiede l’interlocutore nel suo sistema di appartenenza;
  • modalità di comunicazione non verbale;
  • analisi e risoluzione di conflitti.

Ogni negoziatore interculturale dovrebbe avere nel suo curriculum forti competenze su queste materie[3].

Per superare i judgment biases o errori di giudizio è necessario attivarsi, prepararsi. 

Principio – Formazione alla comunicazione interculturale

Il successo della comunicazione negoziale dipende:

  • dalla profondità del training comunicazionale;
  • dalla capacità di mettere in pratica competenze comunicative di valenza trans-culturale;
  • dalla capacità di identificare peculiarità comunicative e tratti culturali specifici dell’interlocutore cui prestare attenzione.

[1] Per il concetto di “mema” e di “memetica” vedi ad esempio:  Downes, Stephen (1999), “Hacking Memes”, in: First Monday, volume 4, number 10 (October 1999), URL: http://firstmonday.org/issues/issue4_10/downes/index.html

Gabora, Liane (1997), “The Origin and Evolution of Culture and Creativity”, in: Journal of Memetics – Evolutionary Models of Information Transmission, 1.

[2] Gelfand, MJ, Christakopoulou S. (1999), “Culture and Negotiator Cognition: Judgment Accuracy and Negotiation Processes in Individualistic and Collectivistic Cultures”, in: Organizational Behavior & Human Decision Processes, Sep;79(3):248-269

[3] Yu, Yanmin (2000). Curriculum Project: Intercultural Communication. Fulbright-Hays Summer Seminars Abroad Program, (Egypt and Israel). Report for the Center for International Education, Washington DC.

Altri materiali su Comunicazione, Coaching, Formazione, Potenziale Umano, Crescita Personale e Professionale, disponibili in questi siti e link:

Altre risorse online

Siti in sviluppo

Le parole chiave di questo articolo La comunicazione interculturale sono :

  • Approccio win-win
  • Autodeterminazione culturale
  • Common ground
  • Comunicazione centrata sui destinatari
  • Comunicazione interculturale
  • Dettagli apparenti
  • Errori di giudizio
  • Fonti culturali
  • Identità culturale
  • Imperialismo culturale
  • Imprinting
  • Ipocrisia culturale
  • Locus-of-control interno culturale
  • Memetica
  • Multiple reality theory
  • Negoziazione interculturale
  • Presunta realtà oggettiva
  • Realtà percettiva
  • Regole e tratti culturali
  • Seduzione
  • Sistema di significazione
  • Stato di coscienza
  • Visioni del mondo

Articolo estratto dal testo “Parliamoci Chiaro: il modello delle quattro distanze per una comunicazione efficace e costruttiva” copyright Gribaudo Editore e Daniele Trevisani, pubblicato con il permesso dell’autore.

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Concludiamo questo ciclo di 3 articoli sul raggiungimento della comunicazione efficace, cercando di riconoscere la propria cultura e le sue fonti, di capire come le idee si diffondano e di imparare a ricercare un common ground comunicativo.

Una vita sana richiede consapevolezza di quali credenze, valori o insegnamenti stiamo mettendo in pratica e ci chiede di riconoscere il fatto che essi siano stati acquisiti dall’acculturazione e dall’ambiente circostante: sono “entrati”, e noi ne siamo impregnati. Gli esseri umani sono pieni di memi, di tracce mentali, idee, credenze, apprese dagli altri esseri umani o da fonti mediate.

La memetica, come nuova disciplina nel panorama delle scienze sociali, si occupa di come le idee o memi si trasmettono da persona a persona, da gruppo a gruppo, proprio come la genetica si occupa della trasmissione dei geni e dei patrimoni ereditari. 

Non appena due culture si incontrano, scopriamo che i nostri memi sono diversi da quelli altrui, ma in termini “riproduttivi” cerchiamo di replicare i nostri piuttosto che di accettare quelli degli altri.  Al centro della comunicazione, infatti, non c’è solo la questione di chi abbia ragione sui dettagli, ma addirittura il tentativo di far sopravvivere i propri memi, di riprodurre la propria visione delle cose, a volte di imporla. Questo comportamento è normale e risponde ai principi di conservazione della specie. 

Esiste quindi una prima forte consapevolezza che rende il comunicatore più efficace: la consapevolezza della propria cultura, dei propri memi attivi.  

Questa consapevolezza non significa rifiuto e non deve produrre automaticamente rifiuto di quanto appreso culturalmente, ma solo e semplicemente consapevolezza di quanto appreso, delle fonti, e della storia dei propri apprendimenti.  

Dopo avere svolto l’analisi del “cosa ho appreso”, quando e da chi, è necessario prendere queste tracce memetiche e sottoporle ad un vaglio fondamentale: cosa voglio tenere e consolidare da un lato, e di cosa mi fa bene liberarmi e perché, dall’altro.

Lo stesso tipo di analisi si può applicare agli apprendimenti organizzativi e alle regole vigenti in un’organizzazione, ai memi che vi circolano, in modo palese, o in modo più nascosto. 

Il successo della comunicazione dipende quindi dalla consapevolezza: 

  • delle fonti personali; 
  • delle fonti mediate; 
  • dei tempi dell’assimilazione, delle sue fasi significative e delle pietre miliari; 
  • della profondità di assimilazione nel Self di regole culturali, leggi e insegnamenti che si adottano; 
  • dalla capacità di riconoscere i fattori e le persone da cui si sono assimilate specifiche abilità, atteggiamenti e comportamenti oggi praticati sul lavoro e a livello professionale. 

Si può accettare di tenere con sè una regola culturale, o si può decidere consapevolmente di tentare di eliminarla dal proprio modo di essere, ma solo dopo avere preso coscienza della sua esistenza (autodeterminazione culturale). 

Nel metodo ALM, l’individuo, nella comunicazione, deve saper eliminare le tossine culturali che impediscono il buon funzionamento del Self, e sapersi aprire all’immissione di nuovi elementi, nuove energie, nuovi apprendimenti: aria pura per la mente

Il comunicatore è vivo quando è aperto al proprio cambiamento e allo scambio con l’ambiente. È morto e produce esiti nefasti quando rifiuta di accettare che le diversità esistono e devono essere capite e analizzate, ed è altrettanto morto quando non possiede una propria identità, quando accetta incondizionatamente la memetica altrui e rifiuta il proprio patrimonio. 

Dobbiamo essere consapevoli che le parole hanno un potere, il potere di aggregare interi “mondi di significato” e trasmettere valori attraverso le persone e attraverso il tempo. 

Come in molte delle attività umane, un buon esito richiede la capacità di trovare un equilibrio tra:

  1. tendenza all’accettazione incondizionata della cultura altrui (ipocrisia culturale)
  2. tendenza all’imposizione incondizionata della propria cultura verso l’altro (imperialismo culturale). 

Gli stati di coscienza alimentano le identità culturali: per esempio arrivare a tavola tardi e andarsene prima non è culturalmente corretto nella cultura italiana standard, ma è normale nella cultura americana. Si tratta di memi diversi che circolano, presenti in ogni comunicazione.

Il problema delle culture è che le loro norme non scritte entrano senza bussare, per osmosi, e diventano tangibili solo quando avviene un contatto con una cultura diversa. 

Anche le aziende hanno culture tra loro diverse, così come le aree aziendali. A causa della grande varietà di input a cui si è esposti, non esiste una creatura che ragioni con gli stessi identici schemi mentali di un’altra. In questo contesto, le persone si trovano a negoziare e a comunicare.

Due soggetti che possiedono visioni identiche e obiettivi identici, però, non hanno bisogno di entrare in una vera comunicazione e non potranno costruire nulla di originale. Quando invece emergono diverse visioni, concezioni ed esigenze, la comunicazione entra in campo, così come la possibilità di costruire creativamente attingendo da più bagagli diversi. 

Negoziare significa impegnarsi attivamente nella ricerca di una soluzione che soddisfi due o più interlocutori che partono da posizioni culturalmente diverse, facendo emergere sia le differenze latenti, che le basi comuni su cui poggiare. 

Stiamo negoziando mentre trattiamo un prezzo o un acquisto, ma anche mentre discutiamo su quale film vedere, o cosa fare nel weekend o in vacanza partendo da gusti e preferenze diverse.  

 Il successo della comunicazione dipende infine: 

  • dal grado di impegno/volontà di ciascun soggetto nella ricerca attiva di una soluzione di reciproca soddisfazione; 
  • dalla capacità di riconoscere esattamente i fattori che rendono diversa la posizione di partenza o gli interessi delle parti; 
  • dall’utilizzo delle diversità passate allo stato cosciente come motore propulsivo e creativo; 
  • dalla ricerca e costruzione delle basi comuni (common ground).
libro "Parliamoci Chiaro" di Daniele Trevisani

Per approfondimenti vedi: