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© Articolo estratto dal libro di Daniele Trevisani “Negoziazione interculturale. Comunicare oltre le barriere culturali. Dalle relazioni interne sino alle trattative internazionali”. Franco Angeli editore, Milano. Pubblicato con il permesso dell’autore

La Cooperazione conversazionale

Il risultato della mancanza di una formazione adeguata del negoziatore è il fallimento. 

Come evidenzia Zorzi (1996)[1], la comunicazione richiede cooperazione conversazionale e lavoro sulla negoziazione dei significati:

“Analizzando incontri interculturali  si è visto come l’interazione fra persone di culture diverse sia marcata da una serie di momenti di asincronia, che si manifestano in silenzi, sovrapposizioni, reazioni impreviste, interruzioni, ecc. che mostrano la difficoltà di stabilire e mantenere una cooperazione conversazionale a causa delle differenze nel background culturale e nelle convenzioni di comunicazione. 

I partecipanti, normalmente inconsapevoli sia delle conoscenze socioculturali sia delle convenzioni comunicative che contribuiscono alla loro interpretazione (e, normalmente, inconsapevoli anche delle proprie convenzioni conversazionali), hanno solo la percezione di un incontro fallimentare, le cui cause sono raramente identificate. 

Spiegano quello che è accaduto più spesso in termini psicologici che in termini sociologici o culturali, percependo l’altra persona come non cooperativa, aggressiva, stupida, incompetente o con spiacevoli caratteristiche personali. 

Ripetuti incontri interculturali falliti con diverse persone portano nel tempo, alla formazione di stereotipi culturali negativi (Chick, 1990: 253 e sgg[2]).”

La competenza interculturale consiste nel raggiungere un reciproco adattamento (e non solo l’adeguamento dell’apprendente ai modelli linguistici e culturali del paese ospitante). 

Obiettivo primario della pedagogia interculturale – di conseguenza – è trovare strategie didattiche perché soggetti di origini culturali diverse possano imparare a comunicare fra loro indipendentemente dalle differenze di lingua, comportamenti culturali e credenze. L’attenzione si sposta, quindi, dal lavoro che fa il singolo apprendente al modo con cui due persone di culture diverse riescono a negoziare significati e relazioni tramite un mezzo linguistico in cui hanno competenze molto sbilanciate.

Esiste quindi un common ground linguistico che permette ai negoziatori di uscire dall’impasse della mancanza di un vocabolario condiviso. Cercare di condividere il significato dei termini, di uscire dalla “indeterminatezza semantica”, dalla “confusione semantica”, dalle “penombre connotative” è uno degli strumenti principali del negoziatore interculturale.

Le parole chiave e come eliminare il fraintendimento

Ogni parola molto radicata nel vissuto sociale – poniamo la parola “educare” – porta con sè una enorme varietà di significati possibili: educare come “plasmare”, come “ricondurre il comportamento alle regole”, far diventare il soggetto “come io lo voglio”, educare come “irreggimentare oppure educare come “far emergere il potenziale personale”, e altre. 

Anche la frase “crescita aziendale” porta con se un intero, enorme, spettro di possibili significati. Per un imprenditore può significare “far aumentare il fatturato”, per un altro ancora “avere una organizzazione migliore”, per un altro “essere leader nel proprio settore come capacità di immettere nuovi prodotti sul mercato”.

Ogni parola porta con sè evocati mentali (immagini mentali) del tutto soggettivi.

L’uscita dalla indeterminazione e il confronto sulla semantica è uno degli steps primari di ogni progetto che parte da basi diverse.

La regola pratica richiede di “mettere sul tavolo” della negoziazione le parole più forti e cariche di significato che stanno alla base del negoziato stesso, e chiarirle rispetto ai loro tanti significati possibili.

Nel caso di un progetto di formazione sulla leadership svolto in Cina da formatori italiani, dovremmo chiarire ad esempio il significato dei termini primari “formazione” e “leadership”. Nulla sarà possibile senza questo chiarimento iniziale.

Ogni negoziazione porta con se la necessità di chiarire i termini di base su cui si fonda e confrontare le rispettive “semantiche” (i significati possibili).

La chiarificazione dei concetti e la precisione del linguaggio

Sul piano interculturale, come abbiamo notato, anche concetti relativamente semplici e dati per scontati (es: “casa”, “lavoro”, “amicizia”) subiscono fraintendimenti. È opportuno quindi svolgere attività di fissazione dei confini semantici (fissazione dei significati) che permettano di precisare il linguaggio.

Costruire la base comune linguistica richiede una precisazione a più livelli. Ogni parola chiave, ogni parola o concetto in generale, può essere letto attraverso almeno quattro filtri descrittivi. 

Realizziamo un esempio sulla parola italiana “gondola”. Gli attributi possibili sono: 

  • Percettivi: è lunga e stretta:
  • Funzionali: si usa per trasportare i turisti;
  • Associativi: mi fa pensare a Venezia;
  • Socio-Simbolici: ricorda un’esperienza romantica, per persone di classe;
  • Enciclopedici: è composta di legno, viene usata dall’anno ….., è costruita così….

Lo stesso problema accade sul piano aziendale. Immaginiamo di realizzare una “consulenza di marketing” per conto di un cliente indiano, coreano o cinese. Dovremmo innanzitutto confrontare le due immagini mentali della parola “marketing”, capire a quale delle due diverse concezioni del marketing sta pensando il cliente.

Ad esempio:

Concezione A : marketing come strumento operativo

Analisi:

  • Percettiva: il marketing equivale alla pubblicità e promozione, alla vendita, alla pubblicità
  • Funzionale: si usa per vendere di più
  • Associativa: è uno strumento del capitalismo e del consumismo
  • Socio-Simbolica: è per aziende avanzate, grandi, tecnologiche o molto manageriali
  • Enciclopedica: tratta concetti quali il marketing mix, la customer satisfaction, la promozione.

Concezione B : marketing come strumento strategico

Analisi :

  • Percettiva: il marketing equivale alla ricerca di prodotti nuovi o migliori soddisfare i bisogni umani
  • Funzionale: si usa per progettare meglio i prodotti e i servizi
  • Associativa: è uno strumento di ricerca
  • Socio-Simbolica: richiede rispetto per il cliente e volontà di soddisfarlo, può essere usato da chiunque
  • Enciclopedica: tratta concetti quali il marketing mix, la customer satisfaction, la promozione, ma soprattutto la ricerca di mercato, la creatività, l’orientamento al cliente

Avviare una negoziazione interculturale significa prima di tutto fare chiarezza sulle concezioni semantiche, sui significati latenti delle parole, sulle associazioni mentali, e non darle per scontate.

Tramite le tecniche associative, è possibile inoltre ricercare gli “stereotipi” che le persone possiedono rispetto ai concetti trattati.

Ad esempio, trattare la formazione di un venditore significa prima di tutto fare chiarezza su quale sia l’immagine mentale del nostro interlocutore, capire cosa ci sia dietro alla parola “venditore”.

Ad esempio,

Diversa concezione di due culture di vendita:

  • il venditore : deve parlare molto – deve essere un pò stupido e lavorare sodo, non importa che sia laureato – non deve fare strategia, la strategia la facciamo noi – deve stare in giro tutto il giorno – deve portarci i risultati,

oppure

  • Il venditore : deve ascoltare molto – deve essere intelligente e creativo – deve essere stratega del suo territorio, rispettando le linee guida – deve agire con appuntamenti mirati – dobbiamo metterlo nelle condizioni di dare i risultati migliori.

Senza chiarire questi punti ogni azione rischia di essere basata su concezioni sbagliate e fraintese.

Le aree di applicazione della negoziazione interculturale

La negoziazione interculturale è un fenomeno sempre più pervasivo a causa della globalizzazione e dell’intensificarsi dei rapporti interetnici, interreligiosi, internazionali, di business, culturali o sociali. 

Rimanendo nel campo del business, i casi nei quali la negoziazione interculturale diventa più evidente sono:

  1. Vendita all’estero nelle culture prossime e nelle culture distanti.
  2. Acquistare all’estero o costruire accordi di fornitura (supply management), negoziazione con i fornitori esteri.
  3. Accordi di business per la distribuzione all’estero di beni o servizi
  4. Joint ventures (costruzione di aziende dirette da più partners di nazionalità diversa) per insediamenti produttivi all’estero.
  5. Fusioni tra aziende e acquisizioni di aziende in cui le culture organizzative di provenienza siano sostanzialmente diverse (come avviene nella quasi totalità dei casi, sia a livello intra-nazionale, che a livello di acquisizioni e fusioni internazionali).
  6. Gestire le forze di lavoro nei paesi terzi.
  7. Gestire le forze di lavoro straniere che operano nella propria azienda.
  8. Fare formazione multinazionale, programmi di formazione che riguardano risorse umane operanti in diversi paesi.
  9. Formazione interculturale: diversità culturali tra formatore e partecipanti, o diversità culturali all’interno del gruppo di allievi.
  10. Coordinare gruppi di lavoro internazionali.
  11. La negoziazione diplomatica e gli accordi internazionali.
  12. Il Peacekeeping, il mantenimento della pace, la prevenzione e la risoluzione dei conflitti.
  13. La contrattualistica internazionale, la negoziazione giuridica cross-culturale.

Sul fronte delle comunicazioni mediate, vediamo l’urgenza di un approccio interculturale ogni volta che emergono problemi di:

  1. Campagne di comunicazione informativa in culture distanti.
  2. Comunicazione pubblicitaria diffusa in culture diverse e su mercati internazionali.
  3. Creazione di messaggi persuasivi e promozionali su scala internazionale.
  4. Sviluppo di concept di prodotto di valenza internazionale, destinati a funzionare su mercati globali e diversi tra di loro.
  5. Sviluppo di concept di prodotti finalizzati unicamente ad una area linguistica-culturale, la cui progettazione avvenga in una diversa cultura di partenza.
  6. Costruire strutture distributive e di vendita su paesi diversi.
  7. Creare sistemi di incentivazione e motivazione del personale adeguate alla cultura locale.

Sul fronte sociale, vediamo invece una urgenza delle abilità di negoziazione e comunicazione interculturale quando si affrontano i seguenti problemi:

  • Inserimento scolastico di bambini stranieri.
  • Terapia psicologica interculturale e counseling interculturale.
  • Dinamiche dell’adattamento etnico.
  • Dialogo interreligioso.
  • Progetti di sviluppo internazionale.
  • Campagne di comunicazione sociale (sanità pubblica, prevenzione di malattie, educazione alimentare, droga, e altre) condotte in aree culturalmente diverse.

Oltre venti aree di problematiche forti ed urgenti caratterizzano il campo della comunicazione interculturale. La vastità e gravità dei problemi sottostanti – in questa incompleta lista – evidenzia l’urgenza di un’attenzione elevata verso la dinamica di comunicazione interculturale.

I metodi e gli strumenti per l’efficacia negoziale interculturale

Data la vastità del campo, preferiamo fornire una prima visione delle aree e strumenti di soluzione.

Le tecniche di base utili in ogni contesto interculturale sono:

  • empatia e ascolto attivo: capire in profondità i comportamenti, atteggiamenti, emozioni, i sistemi di pensiero dell’interlocutore;
  • dinamiche di ascolto multi-livello: la capacità di disaggregare le componenti multiple del messaggio, tenere “corta” la distanza comunicativa – e quindi il margine di incomprensione – tra gli interlocutori;
  • ricerca della condivisione valoriale e di risultato, approccio win-win: valutazione delle “impossibilità di non comprendersi” su alcuni temi per costruire un approccio win-win, in cui entrambi gli interlocutori possano trarre beneficio dalla negoziazione. Partire dalla considerazione che per  chiedere molto ci si deve preoccupare di dare molto;
  • approccio grounded, sperimentale e role-playing: testare sul campo, sperimentare e affinare le proprie strategie comunicative prima di metterle in azione in situazioni di non ritorno;
  • consapevolezze macro-culturali: capire i macro-fondamenti della cultura con la quale si interagisce;
  • analisi del contesto: capire le intenzioni e goals dell’interlocutore, il punto di arrivo desiderato, lo scenario nel quali egli si muove e come questo lo condiziona;
  • piattaforme negoziali flessibili e line d’azione adattive: costruire spazi negoziali flessibili nei quali potersi muovere;
  • consapevolezze micro-culturali: capire la dimensione culturale nascosta e poco evidente nelle manifestazioni della cultura del nostro interlocutore;
  • diagnosi e stratificazione del comunicatore: disaggregare le componenti multiple dei messaggi per comprendere quali messaggi sono da attribuire alla cultura di provenienza del nostro interlocutore, quali alla sua personalità individuale, quali al ruolo giocato e quali ad altri fattori di contesto;
  • centratura emozionale e rimozione del rumore di fondo psicologico (Mental Noise): predisporsi a negoziare con spirito di analisi, attenzione, liberi da pregiudizi; sapersi liberare da stress fisici e psicologici, per poter dare la migliore prestazione negoziale possibile.

[1] Zorzi, Daniela (1996). Dalla competenza comunicativa alla competenza comunicativa interculturale. Babylonia 2/1996.  46 -52.

[2] Chick, J.K. (1990). “Reflections on language, interaction and context: micro and macro issues“, in Carbaugh, D. (ed.) Cultural communication and intercultural contact. Hillsdale NJ, Lawrence Erlbaum. 

[3] Blommaert, J. (1991). “How much culture?” in Blommaert, J. & J. Verschueren (eds.) The pragmatics of international and intercultural communication. Amsterdam/Philadelphia, Benjamins

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Altre risorse online

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Le parole chiave di questo articolo Le strategie e le dinamiche della negoziazione interculturale sono :

  • Analisi del contesto
  • Approccio win-win
  • Ascolto attivo
  • Associativo
  • Associazioni mentali
  • Competenza interculturale
  • Comunicazione interculturale
  • Concezione semantica
  • Cooperazione conversazionale
  • Empatia
  • Enciclopedico
  • Evocati mentali
  • Filtri descrittivi
  • Fissazione dei significati
  • Fraintendimento
  • Funzionale
  • Immagine mentale
  • Mental noise
  • Negoziazione interculturale
  • Percettivo
  • Significati latenti delle parole
  • Socio-simbolico

Di: dott.ssa Manuela Fragale, editing e post-fazione di Daniele Trevisani

Abstract

Compito del messaggio pubblicitario è mettere in risalto adeguatamente le caratteristiche positive del prodotto generando verso di esse un effetto psicologico che induce a generare concentrazione sui vantaggi, affinchè possano essere di gran lunga più consistenti di eventuali punti di debolezza nelle prestazioni attese.

Il presente saggio mira a esaminare il processo di elaborazione delle informazioni contenute tanto nel messaggio monomarca quanto nel messaggio realizzato in un contesto di co-branding.

L’associazione tra marchi non ha mai effetti neutri, ma può generare profonde variazioni sull’immagine aziendale, positive o negative.

Le associazioni tra brand finiscono con l’assomigliare al “farsi vedere con” nel mondo reale, dove il soggetto cui si viene accostati (es, un delinquente vs. un eroe sportivo) può alterare completamente la percezione di chi lo affianca.

Con chi ci associamo, come persone e come marchi, ha anche profonde implicazioni sulla creazione o distruzione della fiducia in noi o nel marchio.

Messaggio, nozioni ed emozioni

Tra i diversi spunti forniti dal messaggio pubblicitario assume particolare importanza l’informazione di marca, che è, più precisamente, uno spunto attuativo (di natura cognitiva o emotiva) destinato a comunicare (non) verbalmente il brand name, gli attributi di marca, i vantaggi, le situazioni d’uso. Dall’esposizione al messaggio possono scaturire la thinking response (apprendimento fattuale) e l’affective response (risposte positive in termini di sentimenti e atteggiamenti). L’affective response influenza la thinking response e può associarsi alla marca con conseguente effetto sulla attitudine alla marca e sulla scelta di marca. I modelli emergenti di affective response evidenziano che i sentimenti: associando gli attributi intangibili alla marca, possono trasformare l’esperienza d’uso (che verrà associata alla marca); possono venire associati alla marca, con conseguente effetto sulla attitudine alla marca e/o sulla scelta di marca; possono creare una attitudine positiva verso il messaggio. Dall’attitudine positiva verso il messaggio scaturiscono stimolazione e attivazione, giudizi più favorevoli circa il messaggio pubblicizzato, ricordo migliore del materiale pubblicizzato.

L’elaborazione del messaggio nel contesto monomarca

Gli spunti attuativi delle pubblicità svolgono due ruoli: si adattano ai livelli d’information-processing dei consumatori; facilitano la motivazione, l’opportunità e/o l’abilità dei consumatori nel processare le informazioni tratte da un messaggio pubblicitario.

I tre concetti appena accennati (motivazione, opportunità, abilità) possono essere definiti così:

  1. la motivazione verso il messaggio è il desiderio del consumatore di processare le informazioni di marca contenute in un messaggio pubblicitario;
  2. l’opportunità è il grado in cui la distrazione o il tempo di esposizione limitato influenzano l’attenzione dei consumatori;
  3. l’abilità si riferisce alla capacità o alla competenza dei consumatori nell’interpretare le informazioni di marca.

Si tratta quindi di tre filtri, che, se non considerati, portano all’annullamento degli effetti attesi.

Il trattamento delle informazioni di marca tratte dal messaggio pubblicitario è definito come il grado in cui i consumatori allocano l’attenzione e le risorse di processo al fine di comprendere ed elaborare le informazioni di marca contenute in un messaggio pubblicitario.

Infine, i modelli di risposta sensibile alla pubblicità si fondano sui seguenti costrutti:

  • i sentimenti sono prodotti dai messaggi pubblicitari;
  • l’attitudine verso un messaggio, il grado in cui il messaggio piace al / diverte il soggetto esposto alla visione;
  • la trasformazione dell’esperienza d’uso, in cui gli attributi possono essere intangibili sono effettivamente aggiunti alla marca;
  • il processo, usualmente considerato il classico processo di condizionamento, dal quale i sentimenti, l’attitudine verso il messaggio o l’esperienza d’uso trasformata restano associati alla marca (1).

Nei modelli di “gerarchia persuasiva” e di “gerarchia degli effetti” tratti dalla letteratura pubblicitaria, la pubblicità è processata mentalmente e sequenzialmente in una serie di stadi: riconoscimento, influenza, comportamento.

Le tracce lasciate dal messaggio

Gli effetti del riconoscimento, dell’influenza e del ricordo della pubblicità sono stati esaminati sia dalla neurologia sia dalla letteratura di marketing.

La connessione tra gli inputs della pubblicità e il comportamento è effettuata dalla memoria, che viene testata con misure di riconoscimento e di ricordo.

Il riconoscimento e il ricordo, benché correlati, non sono unidimensionali; inoltre, è stato osservato che il riconoscimento è più sensibile e penetrante, ma tende a diminuire con il passare del tempo. Bene fece LeDoux ad ammonire: “I neuroscienziati hanno, in tempi moderni, concentrato la loro attenzione sulle basi neurologiche dei processi cognitivi come la percezione e il ricordo. Hanno per la maggior parte ignorato il ruolo del cervello nell’emozione” (2). Di fatto, l’intensità dei ricordi innescati dai messaggi dipende da vari fattori capaci di incidere profondamente sulla risposta emotiva. Un messaggio credibile, che proponga una situazione realistica, potrà facilmente generare una risposta emotiva significativa, un messaggio caratterizzato da elevato livello di empatia cognitiva, cioè comprensione delle situazioni altrui, potrà suscitare unarisposta emotiva più piacevole e intensa.

Il contributo delle neuroscienze all’analisi del legame stimolo-risposta

Avvalendosi delle tecniche usate in neurologia, l’impatto sulla formazione del ricordo è stato testato sperimentalmente mediante la somministrazione di Beta-bloccanti – usati convenzionalmente come antidepressivi o per alleviare lo stress – e di un placebo a un campione di soggetti esposti alla visione del messaggio pubblicitario (3).

Nel caso specifico, è stato somministrato il Propranololo, un β-bloccante non selettivo che, oltre a svolgere attività parzialmente antagonista per i recettori della serotonina, stimola il rilascio di noradrenalina, un neurotrasmettitore/ormone dello stress, capace di agire sulle parti del cervello umano deputate al controllo dell’attenzione e delle reazioni. Si è così constatato che, in generale, l’ingestione di b-bloccanti, pur non eliminando l’abilità del soggetto di riconoscere le emozioni nello stimolo, riduce la risposta agli stimoli e inibisce l’esperienza delle emozioni.

Nel dettaglio, il test condotto da Ambler e Burne e il modello MAC (memory-affect-cognition) degli effetti intermedi del messaggio pubblicitario, hanno messo in luce sia un maggiore riconoscimento e richiamo per i messaggi caratterizzati da  elevato contenuto affettivo sia un ridotto livello di riconoscimento e richiamo nei soggetti trattati con Propanololo rispetto ai soggetti trattati con placebo.

L’elaborazione del messaggio nel contesto di co-branding

Fin qui, l’analisi degli effetti del messaggio pubblicitario imperniato su una singola marca. Parimenti, tanto il modello MAC quanto il processo di elaborazione delle informazioni possono essere applicati al messaggio pubblicitario realizzato in un contesto strategico di co-branding in cui una marca primaria e una marca secondaria vengono associate tanto per incrementare le vendite della marca primaria valorizzandone la valutazione da parte dei consumatori quanto per favorirne l’accesso a nuovi mercati.

Posto che le azioni di co-branding si articolano in due tipologie fondamentali, il make-in (anche detto ingredient co-branding nel settore food) e  il  joint advertising (imperniato sulla complementarità tecnica o sulla complementarità simbolica), la scelta di un alleato (complementare o non complementare) deve essere effettuata considerando attentamente il modo in cui la mente del consumatore collega le due differenti categorie di prodotto.

In altre parole, associarsi a marchi è un meccanismo estremamente delicato, e pericoloso qualora l’associazione finisca per inquinare l’immagine del marchio originale. Così come può invece avere effetti positivi quando innesca sinergia, o altera la percezione nella direzione desiderata (es, maggiore dinamismo, maggiore credibilità).

Dunque, le categorie di prodotto, i brand names, gli attributi messi in risalto nella pubblicità congiunta sono paragonabili ai nodi di un network model.

Per quanto concerne i nuovi prodotti, inoltre, la pubblicità crea brand nodes originali connessi ad altri nodi tramite legami relazionali. Ogni legame ha una etichetta che ne spiega il ruolo e il significato: il legame tra il prodotto e il brand node sta a indicare che la marca fa parte di una determinata categoria di prodotto.

L’incongruità tra i prodotti pubblicizzati congiuntamente può generare perplessità nei consumatori, i quali per superare questo problema fanno ricorso ad altre informazioni disponibili ed elaborano cognitivamente il joint advertising (4).

Il ruolo della marca secondaria nella valutazione del co-branding

Gli effetti del co-branding sulla valutazione e sulla scelta di marca dipendono dal modo in cui il consumatore processa l’informazione collegata alla marca secondaria.

I fattori-chiave che influenzano la profondità del processo sono: la motivazione al processo, cioè il coinvolgimento del consumatore; l’abilità, quindi la familiarità di marca, la perizia, l’intelligence; l’opportunità del processo (tenendo conto del “rumore” e delle contingenze).

Se è vero che alcuni spunti attuativi possono motivare il consumatore a prestare attenzione alla pubblicità, è pur vero che altri spunti motivano il consumatore a processare l’informazione di marca, facendo perno sulla relazione marca-consumatore percepita e sulla curiosità circa la marca.

La durata del processo può essere ridotta facendo ricorso a stimoli processabili immediatamente e totalmente, capaci di ottenere effetti di apprendimento più duraturi degli stimoli verbali. Dunque, un’ottima soluzione è costituita dalle illustrazioni e dalle immagini interattive che presentano visivamente il brand name, la categoria di prodotto, gli attributi di prodotto, i vantaggi del prodotto.

In altri termini, temi e simboli hanno maggior potere della parola.

Durante un processo mentale superficiale, l’influenza del co-branding può essere triplice: influenza sulla composizione del consideration set (insieme di alternative prese in considerazione), effetto alone, uso più facile dell’euristica.

La scelta di marca è determinata sia dall’inclusione di una marca nel consideration set sia dalla dimensione del consideration set.

Solo in presenza di una associazione consolidata, una marca secondaria altamente accessibile può agevolare la marca primaria.

L’utilizzo dell’input associato alla marca secondaria è una funzione positiva dell’accessibilità dello stesso input nella memoria. L’accessibilità si riferisce alla capacità del consumatore di rintracciare, esternamente o dalla memoria, un certo input. Essa, incrementando il riconoscimento di marca, detiene una posizione di rilievo  nelle decisioni stimulus based: i brand names e i marchi più accessibili vengono, infatti riconosciuti più rapidamente.

Una marca secondaria altamente accessibile rende più probabile l’inclusione della marca primaria nel consideration set, benché sia vero che l’inclusione è moderata dalla prominenza delle dimensioni associate alla marca secondaria e dalle associazioni preesistenti tra la marca secondaria e la marca primaria.

Il legame tra l’oggetto e la sua valutazione fornisce la “forza dell’attitudine”.

In un contesto di co-branding, l’influenza positiva associata alla marca secondaria può essere trasferita o confusa con l’influenza associata alla marca primaria, nonché trasferita all’intero co-branding.

Oltre a generare un effetto alone, una marca secondaria altamente accessibile facilita il recupero delle euristiche di successo basate su decisioni  passate.

L’euristica, cioè la ricerca metodica e scientifica del vero, è proficua per i consumatori desiderosi di interpretare le informazioni mediante uno sforzo cognitivo ridotto. Nel caso di co-branding alcuni degli elementi sopra indicati assumono una valenza critica doppia, nel senso che si porranno in evidenza la credibilità e l’attitudine degli advertisers, l’attitudine verso le marche, le percezioni verso le marche.

Conclusioni

Nell’elaborare le informazioni contenute nel messaggio pubblicitario monomarca, i consumatori attivano attenzione e risorse di processo che risultano facilitate dagli spunti attuativi delle pubblicità.

Dall’esposizione al messaggio, dunque, scaturiscono l’affective response e la thinking response; quest’ultima risulta influenzata dalla prima, con conseguente effetto sulla attitudine alla marca e sulla scelta di marca.

La connessione tra gli spunti attuativi della pubblicità e il comportamento è effettuata dalla memoria, che viene testata con misure di riconoscimento e di ricordo.

Dagli studi condotti, è emerso che il riconoscimento, pur essendo particolarmente sensibile e penetrante, tende a diminuire con il passare del tempo, e che l’intensità dei ricordi innescati dai messaggi dipende sia dall’elevato livello di empatia cognitiva del messaggio stesso sia da vari fattori capaci di incidere profondamente sulla risposta emotiva.

Nel processo di elaborazione delle informazioni applicato al messaggio pubblicitario realizzato in un contesto strategico di co-branding, si assiste al moltiplicarsi degli spunti attuativi e alla creazione di una pluralità di nodi nel network model, nonché – nell’ambito dei nuovi prodotti – alla produzione di  brand nodes originali. Gli spunti attuativi più rilevanti sono, tuttavia, quelli associati alla marca secondaria, la quale, generando un effetto alone, può trasferire la propria influenza positiva alla marca primaria o confondere la stessa con l’influenza associata alla marca primaria oppure ancora trasferirla all’intero co-branding.

Riflessioni finali (a cura di Daniele Trevisani)

Appare evidente che le pubblicità che espongano modelli di bellezza impossibile, sogni ad occhi aperti, ma irreali, persone troppo lontane da se stessi, finiscono per venire rifiutate. I pubblicitari sembrano vivere in mondi troppo distanti dalla persona della strada, propongono mondi irreali, persone di plastica, comportamenti poco credibili, in situazioni altrettanto improbabili.

Quanto più riusciamo a creare situazioni nelle quali il soggetto si possa identificare, quanto più riusciremo a generare empatia cognitiva tra chi riceve il messaggio e la fonte del messaggio stesso. Su questo dovrebbero riflettere molte aziende che propongono prodotti accanto a modelli e modelle e in situazioni talmente idealizzati e lontani dalla realtà, dall’innescare disinteresse o persino fastidio.

Di questo devono tenere conto anche i pubblicitari e le imprese, quando riflettono sulla loro responsabilità sociale d’impresa, e sull’impatto che la loro pubblicità avrà nei comportamenti. Ad esempio, promuovere la “scommessa” come forma di divertimento non è solo vendere un prodotto ma stimolare un comportamento che è socialmente pericoloso per le giovani generazioni.

Nell’accostamento tra marchi, sponsorizzare o associarsi ad un brand non ha mai effetti neutri, ma “sporca” o “pulisce” l’immagine di marca, altera il profilo percettivo, ed è quindi un’operazione da condurre scientificamente.

“Farsi vedere con…” on “stare lontani da…” è sempre stata una delle questioni più delicate della strategia di costruzione dell’identità.

Note:

(1) Aaker – Myers, 1987, Advertising Management, Prentice-Hall, 3 ed.

(2) LeDoux Joseph E., 1994, Emotion, memory and the brain, Scientific American, June.

(3) Ambler – Burne, 1999, The impact of affect on memory of advertising, Journal of Advertising Research, March-April, 25-34.

(4) Fragale Manuela, A.A. 1998-99, Le politiche di co-branding. Analisi di casi aziendali, Tesi di Laurea, Università della Calabria.

Note:

(1) Aaker – Myers, 1987, Advertising Management, Prentice-Hall, 3 ed.

(2) LeDoux Joseph E., 1994, Emotion, memory and the brain, Scientific American, June.

(3) Ambler – Burne, 1999, The impact of affect on memory of advertising, Journal of Advertising Research, March-April, 25-34.

(4) Fragale Manuela, A.A. 1998-99, Le politiche di co-branding. Analisi di casi aziendali, Tesi di Laurea, Università della Calabria.

Note sugli autori

  • Manuela Fragale è  Giornalista Pubblicista e Dottore Commercialista. Ha conseguito la Laurea in Scienze Economiche e Sociali, a indirizzo economico, presso la Facoltà di Economia dell’Università degli Studi della Calabria, Dipartimento di Organizzazione Aziendale e Amministrazione Pubblica, discutendo la tesi sperimentale in Marketing “Le politiche di co-branding. Analisi di casi aziendali”. Si è specializzata con il Corso di Alta Formazione post lauream “Il giornalismo economico. Comunicare e informare al servizio di giornali, imprese e istituzioni” e con il Corso post lauream “Nuovi media per il giornalismo e la comunicazione pubblica”. Dal 2001 è collaboratrice di diverse testate giornalistiche italiane ed estere, docente di giornalismo economico, responsabile di uffici stampa.
  • Daniele Trevisani, Direttore Studio Trevisani Communication Research, è autore del best seller italiano “Psicologia di Marketing e Comunicazione”,  coach aziendale e consulente e tra i principali formatori in Italia nell’area della psicologia di marketing e fenomeni di acquisto e consumo.

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Accorgersi di correre con i sassi nello zaino. E’ possibile?

Esiste un momento sacro nella vita, in cui una persona decide se vuole o meno correre, o stare sul divano, o magari alternare le due cose, e se corre, vuole imparare ad accorgersi se ha o meno uno zaino sulle spalle, decide di guardarvi dentro. Può fare male, ma è un dolore che produce crescita.hypnosis-meditation-brain

Chi lo fa, si impegna per individuare i sassi e zavorre e distinguerli dalle cose buone, e lavora per iniziare a buttare fuori sassolini e macigni, liberarsi dalle zavorre, alleggerirsi, e correre più libero.

Questo momento è sacro, ma ad oggi nessuna istituzione lo promuove, anzi, è decisamente temuto. I liberi pensatori hanno sempre fatto paura.

Le performance sono forme di pensiero pratico e voglia di vivere in azione.

Esiste una vera sacralità dell’esistenza, come recita un capo Indiano:

Nascere uomo su questa terra è un incarico sacro.

Abbiamo una responsabilità sacra,

dovuta a questo dono eccezionale che ci è stato fatto,

ben al di sopra del dono meraviglioso

che è la vita delle piante, dei pesci, dei boschi,

degli uccelli e di tutte le creature che vivono sulla terra…

(Shenandoah Onondaga)

Ognuno di noi ha ricevuto un’eredità mentale e genetica da chi lo ha preceduto, un patrimonio di risorse, per alcuni ricco e pieno di frutti, per altri disastrato e pieno di debiti non pagati, con la quale fare i conti. Di questo non abbiamo né colpe né meriti, è il nostro punto di partenza.

Da questo punto in avanti, tuttavia, si avvia la responsabilità della persona nel compiere suoi progressi, tentativi anche piccoli, una responsabilità potente e individuale del volere realizzare se stessi, provare a farlo, o progredire per quanto sia possibile, senza accettare la stasi o la passività (passività da non confondere invece con capacità di rilassamento, un tratto invece positivo).

E quando parliamo di potenziale umano o espressività, non esiste punto di arrivo o traguardo finale. Si tratta di un atteggiamento costante di amore per la vita e per la ricerca.

La scienza è un’amica importante, perché dimostra che esistono possibilità enormi di emancipazione umana e crescita del potenziale personale.

Una grande quantità di studi provano che è possibile mettere mano attivamente alla propria espressività e alle abilità, sia generali che specifiche. Ma per farlo occorre volontà e lavoro allenante.

Lo studio autonomo o di gruppo, la crescita voluta, le esperienze, ma anche il lavoro allenante, formativo, di coaching, di counseling, di training, sono forme per alimentare le nostre ali per volare. Amplificare il potenziale umano significa dare ali a chi non le ha, e aiutare le persone che già volano a volare ancora più in alto.

Con le tecniche giuste, anche persone con handicap hanno potuto amplificare la propria espressività, nel caso specifico l’espressività comunicativa, grazie al ricorso a training particolari basati su tecniche efficaci.

Ad esempio, se parliamo di comunicazione verbale, il prosodic modeling – tecnica che allena la persona a gestire meglio il parlato, il ritmo e intonazione, la buona scansione delle sillabe – migliora la capacità di esprimersi bene, di generare frasi compiute e comprensibili, e ha prodotto effetti scientificamente dimostrati. Il miglioramento è un fatto concreto e possibile.

Ed ancora, è scientificamente dimostrato che le tecniche teatrali nelle loro varie forme (incluso il role-playing, lo psicodramma, le simulazioni) possono essere usate con successo nella formazione in azienda, e anche per aumentare l’espressività di ragazzi con problemi, con risultati tangibili, reali, forti.

Gli studi dimostrano efficacia su variabili determinanti dell’espressività, quali listening skills (capacità di ascolto), eye contact (gestione del contatto visivo), body awareness (consapevolezza corporea), coordinamento fisico, espressività facciale e verbale, focalizzazione e concentrazione, flessibilità mentale e problem solving skills, capacità di interazione sociale, ma anche tratti psicologici quali la self esteem (autostima).

Sono ambiti localizzati, dettagli di un puzzle di crescita, ma sono avanzamenti possibili e mostrano una via, una possibilità reale.

Questo per noi significa tanto: le persone possono andare oltre la posizione di partenza ereditata e oltre lo stato in cui si trovano, qualsiasi esso sia: (1) problematico o patologico, (2) normale o mediano, (3) eccellente o agonistico.

Sicuramente chi si impegna in programmi di sviluppo, su qualsiasi stadio di partenza, sta facendo uno sforzo intenzionale per andare oltre l’eredità ricevuta, e ha un merito. Lo ha anche chi li supporta, i coach, trainer o terapeuti che vi si impegnano. Lo hanno anche i leader se e quando nelle imprese fanno crescere le persone. I leader sono coloro che sviluppano le persone e non solo risultati.

Espressività è liberazione di sé, energia, possibilità di emancipazione, dare aiuto e contributi agli altri e ai loro sogni, così come ai nostri.

Le performance e l’apprendimento sono atti di espressività che non arrivano ad un punto per poi fermarsi, sono piuttosto momenti di azione, seguiti da altri di riflessione, ricarica, e poi ancora ricerca di altre zone di espressività e altre crescite, altri progetti positivi, e ancora riposo, contributi, espressione, in un susseguirsi di “respiro vitale”, un battito di vita profondo e potente.

Ci si può esprimere in una poesia, in una corsa, in un progetto aziendale. Ci si può esprimere aiutando il prossimo, nel volontariato, o in una ricerca spirituale.

Ci si può esprimere nel raccontare con vividezza un racconto o una favola ad un bambino. Non è necessario far soldi o vincere le olimpiadi per esprimersi. Ci si può esprimere nelle professioni, nel lavoro, nell’impresa, ma diventare ricchi non è sempre sintomo di successo vero, anzi, persone che hanno raggiunto obiettivi spirituali, come Gesù, San Francesco, i monaci buddisti, e altri illuminati, hanno deciso che il loro metro di misura fosse altro.

È questa la vera emancipazione: decidere quale sia il nostro metro di misura senza ingoiarlo a forza da altri, non assorbirlo passivamente e impregnarsi da quanto certa società vorrebbe a forza, il consumismo, l’esaspe­razione, il comportamento “produci-consuma-muori”.

Ma, quello che conta ai fini formativi, è che – qualsiasi sia il target o l’obiettivo – l’espressività sia percepita come fattore altamente “lavorabile”, così come lo è, più in generale, ogni ambito della crescita e del potenziale umano.


Onondaga, Audrey Shenandoah (1995), Nascere uomo, in Il Grande Spirito parla al nostro cuore, Red Edizioni, Milano.

Young, Arlene R.  et al. (1996), Effects of Prosodic Modeling and Repeated Reading on Poor Readers’ Fluency and Comprehension, Applied Psycholinguistics, v. 17, n. 1, pp. 59-84, Mar.

Bailey, S.D. (1993), Wings To Fly: Bringing Theatre Arts to Students with Special Needs, Woodbine House, Rockville.

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Copyright, dal Volume:

“Il Potenziale Umano”

Metodi e tecniche di coaching e training per lo sviluppo delle performance