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ascolto selettivo

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Dall’ascolto selettivo, attivo, empatico e simpatetico

  • Anteprima editoriale esclusiva per i lettori del blog, realizzata dall’autore del libro, articolo

    condivisibile, si prega di citare sempre la fonte.

  • © Daniele Trevisani, Volume “L’ascolto Attivo: Metodi e Strumenti per l’ascolto attivo ed empatico”. Anteprima editoriale, Franco Angeli editore Milano, 2019.
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Ascolto Selettivo

Con l’ascolto selettivo superiamo la “zona rossa” dell’ascolto ed entriamo in modalità che possono essere utili.

L’ascolto selettivo, pur non essendo empatico negli intenti, va a cercare informazioni molto precise, che possono essere sia oggettuali (cose, persone, tempi) che emozionali (stati d’animo, sentimenti), rispetto ad un certo episodio o tema in fase di esplorazione.

Chi vuole fare ascolto attivo deve conoscere l’ascolto selettivo, perché in alcuni momenti è essenziale saper “smontare un episodio” negativo, per capire cosa non fare più, e saper smontare episodi positivi, per capire i fattori di successo che siamo riusciti a creare, e come si sono succedute precisamente le catene di eventi.

Alcune tecniche di ascolto qui diventano fondamentali:

  • Reflecting: fare da specchio, riformulare quanto si è capito. Consente di poter precisare meglio e apre altro contenuto.
  • Deflecting. Riconoscere immissioni di temi che non c’entrano e riuscire a farli uscire dalla conversazione, smorzarli ed espellerli.
  • Probing. Mettere alla prova un’informazione con una domanda collegata, es chiedere “visto che mi hai detto che è arrivato tardi, quando è poi arrivato?”. Utile per approfondire.
  • Recap: ricapitolazione e rilancio. Fare delle ricapitolazioni di quanto raccolto sinora e aprire “ok siamo arrivati al punto in cui ti presenti per il colloquio, ti fanno aspettare, tu inizi ad agitarti, entri e non sai più cosa dire. Poi cos’è successo?”
  • Contatto: costanti segnali di contatto visivo, cenni del capo, espressioni gutturali e paralinguistiche (uhm, ah, oh), tutto ciò che sia segnale “Fàtico” (i segnali fàtici sono quelli che dicono, in sostanza, “ci sono”, sono qui per te).

Tutte queste tecniche saranno approfondite meglio quando parleremo di “analisi della conversazione”, tuttavia è bene già da ora sapere che esistono, e che un ascolto attivo, selettivo o empatico, usa tecniche precise, oltre alla volontà

Nell’ascolto selettivo, siamo estremamente focalizzati nel capire una cosa specifica, una questione specifica su ciò che pensa l’altra persona, o un’informazione precisa che vogliamo cogliere.

Tutto il resto non ci interessa.

La nostra presenza mentale è accesa, acuta, ma diretta come un laser verso un punto informativo, e non – come nell’ascolto empatico – accogliente verso qualsiasi cosa emerga.

Quando emerge qualcosa che non ci interessa, riportiamo con domande la conversazione sul “focus” che ci interessa.

In termini di efficienza ed efficacia dell’ascolto selettivo, le nostre domande diventano “diagnostiche” solo quando riescono a depurare il quadro da ciò che non ci interessa veramente per cui per praticarlo bene serve tecnica e studio.

Anche nella vita quotidiana accade, e non c’è da preoccuparsene. La questione può essere “a che ora tornerai a casa?” e può interessarci solo e unicamente avere un’ora, e nient’altro.

Dobbiamo preoccuparci invece se l’intenzione è di fare ascolto attivo ed empatico su un vissuto emotivo e umano, ed escono solo domande di precisazione.

Se chiediamo con ascolto selettivo “dove vorresti andare in vacanza” l’ascolto andrà ad incentrarsi solo sul “dove” trascurando però il “come”, la “natura sottile” del tipo di vacanza che l’altro vorrebbe fare.

Praticare ascolto selettivo non è in se sbagliato o giusto. Dipende dalla coerenza tra il nostro scopo sottostante e il tipo di domande che escono.

L’ascolto selettivo non è in sè quindi nè giusto nè sbagliato, possiamo valutarlo in base al fattore empatia – se il nostro scopo è creare empatia, va dosato molto attentamente. L’empatia è un processo che “accoglie” piuttosto che escludere e quindi l’ascolto selettivo è ottimo per raccogliere dati e molto scarso per far entrare veramente le emozioni.

Ascolto attivo

Un buon ascoltatore aiuta ad ascoltare noi stessi.
(Yahia Lababidi)

Quando pratichiamo ascolto attivo siamo immersi in un’attività speciale. Stiamo dando interesse, nostro tempo, nostra energia, per capire una persona, i suoi dati, i suoi contenuti, le sue intenzioni, e un brano della sua storia.

Le persone sono generalmente diffidenti nell’aprirsi e raccontare di sè stessi, del proprio intimo, persino a se stesse. L’ascolto attivo offre una “piattaforma di vita” dove le parole altrui e i pensieri altrui possano delicatamente e progressivamente poggiarsi.

Perchè ad ogni apertura, segue una maggiore apertura, sino a che il “nucleo” della persona si rivela per ciò che è, nel suo splendore, nel suo dolore, nella sua verità.

Arrivare al “nucleo” richiede tanta strada, ma si può fare. Dal nulla dell’ascolto schermato, ogni piccolo passo in avanti verso il “condividere” è sempre significativo.

“Parlate delle vostre cose il meno possibile e solo a quelli che sapranno darvi incoraggiamento e ispirazione.”

Florence Scovel Shinn

La persona si impegna nell’ascolto, di base, vuole ascoltare, lo considera un fatto importante, importante al punto di frenare il suo pensiero, il dire come la pensa, frenare il fatto di “prendere il turno della converazione” per fare un’arringa o esprimere opinioni.

L’ascolto attivo si concentra sul fatto di ascoltare. Lo fa con le parole, con le domande, e anche con il corpo, utilizza segnali corporei e paraverbali di partecipazione a quanto detto, riformulazioni e ricapitolazioni dei contenuti percepiti, e altri dispositivi linguistici e non verbali che servono per dare il segnale “quello che dici mi interessa, ti sto seguendo”.

Si può praticare ascolto attivo per due grandi classi di interessi, persino opposte una dall’altra.

Lo si può fare come atto estremo di amore, un dono che facciamo ad una persona amica, o un momento di grande umanità in cui ci interessiamo agli altri.

Oppure, può trattarsti di un ascolto estremamente strategico, un ascolto professionale nel quale le informazioni racchiuse nella mente di qualcun’altro ci servono. Ci servono per aiutare l’altro stesso, come nel coaching o nella terapia, o ci servono per dirigere un’organizzazione, o per prendere decisioni, come nella leadership.

In ogni caso, quanto abbiamo nella nostra mente si arricchisce sempre, grazie all’ascolto degli altri.

Saper ascoltare significa possedere, oltre al proprio, il cervello degli altri.
(Leonardo da Vinci)

E’ naturale che da un ascolto attivo emergano più informazioni e la persona possa anche esporre informazioni emotive, tanto più profonde quanto più l’ascoltatore s’impegnerà nel non dare giudizi, non giudicare, non interrompere, non “interpretare”.

L’ascolto attivo richiede energia, impegno, un corpo riposato, una mente attenta e vigile. Quando siamo in questa modalità, anche un solo cenno di sopracciglio non colto, può farsi perdere informazioni preziose.

“Uno non può distrarsi un momento che rimane fregato per tutta la vita!”

Micaela Ramazzotti – Anita

Ascolto empatico

Ascoltare senza pregiudizi o distrazioni è il più grande dono che puoi fare a un’altra persona.
(Denis Waitley)

L’empatia è uno stato superiore, estremamente avanzato, di una relazione umana. Potremmo definirlo un apprendere a mettersi nei panni degli altri per poter sentire quello che essi provano.

L’empatia in sè non è nè buona nè cattiva, e infatti si può utilizzare l’empatia strategica anche per capire come ragiona un ricercato, e quale sarà la sua prossima mossa (empatia strategica).

In generale, nei rapporti umani quotidiani e professionali, l’empatia è positiva ed è anche merce rara.

La coscienza empatica si fonda sulla consapevolezza che gli altri, come noi, sono esseri unici e mortali. Se empatizziamo con un altro è perché riconosciamo la sua natura fragile e finita, la sua vulnerabilità e la sua sola e unica vita; proviamo la sua solitudine esistenziale, la sua sofferenza personale e la sua lotta per esistere e svilupparsi come se fossero le nostre.

Il nostro abbraccio empatico è il nostro modo di solidarizzare con l’altro e celebrare la sua vita.

(Jeremy Rifkin)

L’empatia è rara perché richiede la sottile capacità di sintonizzarsi emotivamente, e capire i livelli più nascosti, emotivi e personali, del vissuto del nostro interlocutore, più che i dati numerici o oggettuali che ci espone.

Utilizza inoltre la metacomunicazione (letteralmente “comunicare sulla comunicazione stessa”) ad esempio chiede senza timori il significato di un termine che non comprende, o, nelle poche occasioni in cui l’ascoltatore parlerò, lo farà per spiegare concetti che servono al processo comunicativo stesso.

L’ascolto empatico è di una rarità impressionante. Possiamo dire di averlo incontrato l’ultima volta in cui una pesona ci abbia dedicato un’ora di tempo senza raccontarci niente di lui o lei, e ascoltando solo quello che noi avevamo da dire, e facendoci domande per capire meglio, non solo le nostre informazioni, ma le nostre emozioni. Bene, se è successo, si è trattata probabilmente di una sessione di coaching, di counseling o di terapia.

Periodi più brevi ma dotati della stessa intensità di ascolto si incontrano a volte nella vita, nelle amicizie vere, o tra veri compagni sul lavoro, ma non è detto che l’attenzione sia sempre tutta e solo spostata su uno dei soggetti, come invece avviene nell’empatia.

E del resto, se servono corsi specifici per imparare l’empatia, è perchè la scuola, la formazione, i libri, sono sempre molto spostati sul parlare bene, sul comunicare dicendo noi cosa pensiamo, piuttosto che sull’ascoltare.

Come c’è un’arte di raccontare, solidamente codificata attraverso mille prove ed errori, così c’è pure un’arte dell’ascoltare, altrettanto antica e nobile, a cui tuttavia, che io sappia, non è stata mai data norma.
(Primo Levi)

La componente più difficile dell’ascolto empatico è certamente la sospensione del giudizio.

Se qualcuno dice “ho picchiato mio figlio” o “ho gettato il sacco della spazzatura dal finestrino”, è praticamente impossibile non giudicare negativamente.

Ma la “sospensione” del giudizio significa appunto “sospenderlo”, non farlo sparire. Sospenderlo affinchè possiamo meglio capire cosa, dove, come, perchè avvengono certe cose. Se non lo facessimo avremmo perso larga parte delle informazioni che invece potevano uscire.

Il giudizio è la parte meno interessante dell’ascolto.

(Anonimo)

Ascolto simpatetico

A volte, ci sono delle simpatie così forti che, incontrandosi per la prima volta, sembra di ritrovarsi.

 (Alfred de Musset)

L’ascolto simpatetico ha il fine non solo di ascoltare ma anche di dimostrare affettività e simpatia verso l’altro. È un ascolto non necessariamente migliore di quello empatico, ma solo diverso.

Nell’ascolto simpatetico, la priorità è dare all’altro la sensazione di piacevolezza e vicinanza.

È essenziale far capire che ci interessa quanto sta dicendo, non solo per i dati, ma per la persona che li esprime. Ascoltare in questo caso diventa parte di un gioco che ha una componente seduttiva, quello che ci interessa non è solo una fredda analisi di dati e parole, ma vi è un forte stato di ammirazione o apprezzamento.

Dimostra quindi calore umano, piacere della relazione, gradimento dell’altro, sia con le parole che con il sistema non verbale.

Consideriamo un fattore molto pratico. L’ascolto simpatetico è un ascolto che “avvicina”, e avvicinare relazionalmente la persona che vogliamo ingaggiare può essere un’ottima strategia psicologica per aprire poi varchi verso un ascolto più profondo.

“Noi siamo soliti considerare come buoni ascoltatori solo quelli che condividono le nostre opinioni.”

François de La Rochefoucauld

L’ascolto simpatetico può essere facilmente giudicato come un ascolto “ruffiano”, ma chiediamoci se viviamo in una società avara di complimenti o prodiga di giudizio e accusa quando facciamo qualcosa di male, mentre quando facciamo qualcosa di buono, il silenzio predomina.

Allora, un ascolto simpatetico, quando ci sta, quando c’è l’occasione, non è mai un regalo di poco conto.

Se quando ascoltiamo qualcuno, qualcosa di positivo riverbera in noi, lasciamo che sia, e non vergognamoci a farlo trasparire come apprezzamento.

“Il canto del mare termina sulla riva o nei cuori di chi l’ascolta?”

Khalil Gibran

Concludiamo con una breve riflessione.

Nel corso del libro incontreremo tante tecniche, modalità, strategie, per praticare un ascolto attivo e in profondità. Per entrare nella mente e nei cuori, o per estrarre informazioni, o per lavorare assieme meglio.

Ma qualsiasi sia il nostro intento e il bagablio di tecniche, ve ne è una, che davvero non posso insegnare ma solo suggerire: la volontà di ascolto.

La chiave per un buon ascolto non è la tecnica, è il desiderio.

Fino a quando non vogliamo davvero capire l’altra persona,

non potremo mai ascoltare bene.
(Steve Goodier)

 

  • Anteprima editoriale esclusiva per i lettori del blog, realizzata dall’autore del libro, articolo condivisibile, si prega di citare sempre la fonte.
  • © Daniele Trevisani, Volume “L’ascolto Attivo: Metodi e Strumenti per l’ascolto attivo ed empatico”. Anteprima editoriale, Franco Angeli editore Milano, 2019.
  • Per ricevere altri articoli appena escono, iscriversi al blog https://studiotrevisani.it sulla destra in alto, inserire la mail e fare clic su “segui il blog”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(c) Copyright, Dal volume Personal Energy, di Daniele Trevisani

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Ascolta le tue voci migliori. Lascia perdere il resto.

Se è vero che siamo in viaggio, sorge una domanda. Cosa vorresti dire di aver fatto al termine di questo viaggio?

In altre parole, quando arriverà un giorno in cui ti guarderai indietro, cosa vorresti vedere? Cosa ti farà sentire pieno di onore? E non parlo dell’”avere” materiale, ma di quanto hai tentato di fare.

La maggior parte delle persone vive al buio. Il buio di una mancanza di orientamento, il buio di un senso della vita labile, smarrito, confuso.

Il buio della non conoscenza di chi potresti essere se solo riuscissimo a spezzare le catene. Quali catene? Ce ne sono tante. Tutti ne abbiamo.

Ne cito solo alcune: la catena della cultura di appartenenza che ti dice cosa mangiare e cosa non mangiare, come vestirti e come non vestirti, cosa è bene pensare e cosa non è bene pensare.

Nasci in una cultura che ti offre preconfezionata una religione, un gruppo etnico nel quale identificarti, e persino dei “cattivi” da odiare. Poi ci pensi bene, e ti accorgi che molti cattivi non lo sono (basta guardare ai primi film sugli Indiani d’America contro i Cowboy, in cui gli indiani erano dipinti come i cattivi e i Cowboy come gli eroi, grande bugia storica).

Piano piano scopri che molti, tra i buoni, sono dall’altra parte del pianeta e non li conosci nemmeno. E scopri anche che la “bontà” non si concretizza necessariamente in persone fisiche, ma in modi di pensare, e a volte te ne accorgi troppo tardi.

La catena dell’auto-castrazione fa il resto: pensare di non avere “il fisico” o “la testa” per fare certe cose, o ascoltare le persone che ti demoralizzano o non credono in te, impedisce persino di iniziare a darsi delle possibilità.

Ascolta le tue voci migliori. Lascia perdere il resto.

Serve uno scatto di orgoglio. Iniziare a pensare che lo puoi fare. Puoi lavorarci sopra. Puoi allenare il corpo e la mente. Puoi guadagnarti le capacità e competenze per potenziare il fisico e fare tanto per allenare la mente.

Essere deboli non è utile a nessuno. Anni di diseducazione hanno confuso la pace con la debolezza, la cortesia con l’accettazione dei soprusi.

Grande falsità.

La forza, se direzionata verso fini e cause importanti come la difesa dei deboli, la formazione e l’educazione, è un valore.

Finché abbiamo il tempo, finché abbiamo questo dono, finché la natura ce lo permette, usiamo questo privilegio raro.

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Testo Copyright by Dr. Daniele Trevisani, Formatore e Coach per lo Sviluppo Personale e dei Team. Anteprima editoriale dal volume di Daniele Trevisani “Personal Energy”.