La riformulazione è una tecnica di ascolto attivo che permette di rielaborare il contenuto di un messaggio.
Per la precisione si tratta di un gruppo di tecniche che consistono in interventi che non interpretano mai le parole dette dall’interlocutore.
In pratica l’ascoltatore rimanda all’interlocutore dei segnali che, come veri e propri specchi, riflettono ciò che egli ha appena detto, senza alterare la costruzione del discorso o la situazione psicologica in cui esso avviene.
Cosa esprime la riformulazione:
la capacità di ascolto e accoglienza;
la capacità di focalizzarsi sull’interlocutore;
il rispetto completo per il suo vissuto;
la capacità di facilitare la sua libera comunicazione.
Le tecniche di rispecchiamento sono strumenti di rinforzo del sé dell’altro. Hanno infatti il potere di creare un clima socio-affettivo caloroso e rassicurante. Tale clima consente alla persona che sta parlando di ricevere continui feedback che lo inducono a riflettere su di sé, sulle affermazioni ed i pensieri espressi. L’interlocutore si sente realmente ascoltato ed accettato. [1]
MECCANISMI DI ASCOLTO ATTIVO PER ACCERTARSI CHE LA COMPRENSIONE SIA CORRETTA
1.Riformulazione: riformulo quanto ho capito e lascio che l’interlocutore mi corregga su quello che diverge
2.Sintesi e recap: Ricapitolo quanto ho capito in sintesi e chiedo se è corretto.
3.Riverbero o eco: una riformulazione più ampia che prende intere categorie, tra queste:
Riverbero dei dati: fare la somma di tutti i dati sentiti,
Riverbero emotivo: fare la somma di tutte le emozioni percepite e a cosa sono associate
Riverbero della mappa di credenze: fare la somma di tutte le credenze percepite, che restituisce il “modo di vedere le cose” della persona.[2]
Coerenza tra pensiero ed azione per trovare l’equilibrio interiore
Ogni pensiero, azione e comportamento dell’individuo deve trovare una coerenza con ogni altro pensiero, intenzione, comportamento, valore. Quando questo non succede l’individuo subisce forme di crisi, piccole o grandi, legate ad un senso di instabilità psicologica interna.
Va da sè che con questa instabilità interna latente, l’individuo non possa fare molta strada, e tantomeno confrontarsi con sfide che lo vorrebbero al meglio delle proprie capacità.
La prima ed assoluta capacità mentale da coltivare nel percorso verso il potenziale umano è la ricerca e riduzione delle dissonanze interne e delle incongruenze interiori che minano la stabilità psicologica della persona.
Questo aspetto è un tratto che si collega sia alla salute e benessere psichico delle persone comuni, che – in misura ancora più forte – in chi pretende di arrivare alle vette di una disciplina o di una professione, o compiere azioni di alte performance.
La congruenza cognitiva misura il grado con cui la persona percepisce sicurezza e coerenza tra ciò che pensa e ciò che fa, tra le proprie strutture di valori, atteggiamenti e comportamenti, e quindi quanto sia in condizione di grounding (buon radicamento psicologico), o invece in stato di confusione mentale. Quando manca il grounding, subentrano dissonanza e confusione interna che minano le energie personali.
Se un individuo crede nella salute, in teoria non dovrebbe fumare. Se crede nel perdono, in teoria non dovrebbe arrabbiarsi per più di pochi secondi. La teoria non equivale alla realtà in quanto subiamo costantemente condizioni di incongruenza. Non agiamo sempre in base alle idee che dichiariamo e ai valori che professiamo.
La realtà è complessa e fatta di persone che fumano o mangiano male o bevono eccessivamente, sapendo coscientemente quanto sia dannoso, e consigliando agli altri con convinzione di non fare ciò che loro fanno. Ed ancora, persone che professano amore e pace e praticano il rancore sistematico e l’aggressività, pacifisti armati, soldati poeti, santi peccatori, medici malati, professori che non sanno insegnare, e via così. Se ci guardiamo dentro sinceramente scopriremo di avere dissonanze in più campi. Tutti noi, nessuno escluso.
L’incoerenza sembra l’essenza stessa dell’essere umano, e nessuno può escludersi o tirarsene fuori. A parte il lato divertente delle incoerenze, e lungi da qualsiasi tentativo di ottenere un essere perfetto (e forse persino noioso), vogliamo affrontare invece il problema delle incoerenze pericolose e delle dissonanze che drenano e danneggiano le energie mentali.
Le dissonanze cognitive – sia consapevoli che inconsapevoli – assorbono energie. Quando qualcosa non va negli equilibri interiori, si attivano energie mentali di riparazione, o per “silenziare” queste voci, per ricacciarle nel tombino, o – nel tentativo di superarle – per fare qualcosa.
Le energie mentali di riparazione sono destinate a chiudere falle nel proprio sistema di credenze, valori, atteggiamenti e comportamenti, mentre le energie mentali di progressione sono quelle destinate a costruire il nuovo. È evidente che quanto la mente è assorbita nelle prime vi sia meno spazio per le ultime.
Allo tesso tempo, avviare importanti opere di costruzione con strutture sottostanti deboli o bacate, non è nemmeno produttivo, anzi pericoloso.
La consapevolezza che per superare una dissonanza bisogna rinunciare, lasciare qualcosa e cambiare, produce fatica, alimenta la resistenza al cambiamento che caratterizza ogni essere umano.
Principio 17 – Riduzione delle dissonanze cognitive
Le energie mentali diminuiscono o si esauriscono quando:
l’individuo vive dissonanze cognitive interne consapevoli ma non riesce a trovare vie di risoluzione;
l’individuo vive dissonanze cognitive interne inconsapevoli, sconosciute a se stesso, non ancora emerse allo stato di coscienza;
la coerenza e fluidità dell’azione (quotidiana e strategica) è minata dalle dissonanze stesse;
l’individuo esperisce stati di disorganizzazione e difficoltà a fissare nette priorità, riorganizzare le priorità, seguirle coerentemente;
Le energie mentali aumentano quando:
vengono trovate vie di soluzione o riduzione per le dissonanze consapevoli;
vengono localizzate le dissonanze cognitive inconsapevoli (emersione);
la riduzione delle dissonanze produce maggiore fluidità mentale e comportamentale nel vissuto sia quotidiano che nelle performance;
Le azioni di riduzione delle dissonanze sulla gestione dei tempi, desideri, ambizioni, riguardano le divergenze tra stato attuale e ideale, e in particolare:
diminuisce la distanza tra come si è come si vorrebbe essere;
diminuisce lo scostamento tra azioni e valori;
migliora la capacità di gestione dei propri tempi rispetto all’ideale;
vengono risolti conflitti tra desideri prima incompatibili;
aumenta il senso di vicinanza al vissuto ideale, nelle varie scale temporali (giorno, settimana, mese, anno): la vita vissuta si avvicina maggiormente al vissuto ideale di quel segmento temporale, o viene percepita una progressione in tal senso.
Le dissonanze di vissuto in particolare sembrano essere uno dei temi meno esplorati del potenziale umano e delle performance.
Si pensa che una persona possa magicamente trovare equilibrio mentale o forza interiore, ma questo diventa difficile quando le sue giornate sono estremamente diverse da come egli le vorrebbe vivere, le pressioni sono molteplici e numerose, e non si sa più a chi dare ragione, dove “sbattere la testa”, a cosa dare priorità, cosa meriti più attenzione.
Le dissonanze esistenziali possono riguardare vari livelli:
la dissonanza tra come siamo e come vorremmo essere (in cosa sei diverso da come vorresti essere?)
la dissonanza tra come ci si sente e come ci si vorrebbe sentire (come ti senti ora, o in questo periodo, rispetto a come vorresti sentirti?)
dissonanza tra come agiamo e i nostri valori (Quali sono le tue azioni quotidiane? In quali non ti ritrovi? Cosa non fai e invece vorresti fare?)
dissonanze nei tempi: impossibilità di essere onnipresenti, assorbimenti da retropensieri negativi, sensazione “mentre siamo qui non stiamo facendo altre attività importanti”, senza riuscire a risolvere il senso di colpa;
dissonanze di valori e desideri: i conflitti di desiderio e tra valori;
dissonanze di vissuto, a vari livelli di scala temporale, es.: differenze tra la giornata ideale e la giornata reale, il weekend ideale e quello reale, tra il periodo di vita attuale e quello ideale
Ragionare sulla giornata ideale, su cosa vi succede, sulla settimana lavorativa ideale, o sul weekend ideale, o sul periodo ideale, o sulla struttura ideale dei tempi di una performance, è un motore di riflessione e ispirazione molto potente. Aiuta a fare luce su ciò che si vuole, aiuta a individuare una strada. Sapere dove si vuole andare è importante.
È difficile che una settimana lavorativa sia equilibrata e positiva se non si è riflettuto seriamente su come deve essere la propria “settimana lavorativa ideale”. Le scuse per non farlo sono migliaia (dal “tanto programmare non serve perché poi gli altri ti scompigliano tutto” al “non ho voglia”, al “non dipende da me”) e ci aggrappiamo ad esse con forza, pur di evitare di uscire dal guscio e riprendere in mano la vita con maggiore assertività. Spesso chi ci impedisce di vivere come vorremmo è la persona che ci guarda allo specchio, noi stessi, e riconoscerlo è duro.
Il ritrovamento di un equilibrio cognitivo tra i tempi reali e ideali, i propri valori, atteggiamenti, azioni e priorità, e la fissazione di nuovi e diversi goal, è un obiettivo di sviluppo personale e di coaching di grande interesse.
Anche solo muoversi verso questa realtà, provarci, fare piccolissimi passi, porta l’individuo a sperimentare maggiore coerenza interiore tra i diversi pensieri che lo animano, migliore congruenza tra i pensieri e le azioni, maggiore correlazione tra le azioni e comportamenti che attua ogni giorno e le sue ambizioni.
Il ri-bilanciamento cognitivo non significa coerenza cieca o ortodossia. Si può essere coerenti con un principio, praticarlo in modo ortodosso e fondamentalista, per tutta la vita, ma non credervi fino in fondo, o desiderare persino di cambiare vita per non essere più obbligati a credervi.
Il ri-bilanciamento cognitivo reale è possibile solo in seguito all’esame ed emersione delle dissonanze, facilitato soprattutto da una terapia Rogersiana centrata sulla persona, e da una analisi conversazionale attenta.
Queste pratiche devono essere abbinate ad una condizione/setting che favorisca l’emersione delle dissonanze, quindi un setting neutrale e facilitante, un atteggiamento empatico (Rogersiano), e l’accettazione personale (prima di tutto) del fatto stesso di avere dissonanze come qualcosa di assolutamente normale per l’essere umano, ma affrontabile e migliorabile.
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Essere consapevoli dei propri strumenti operativi (tools funzionali) e dei propri strumenti analitici e conoscitivi di base (meta-strumenti)
Se credo di poterlo fare,
acquisirò sicuramente la capacità di farlo,
anche se all’inizio non dovessi averla
Mahatma Gandhi
L’autoefficacia è un concetto che fa riferimento al “senso delle proprie possibilità”. La coscienza di ciò che è veramente nella sfera delle nostre possibilità e quello che non lo è in un certo momento, ci permette di fare letture corrette della situazione e dei compiti che ci attendono, senza cadere vittima di demoralizzazione precoce o inutile.
Bandura[1], sviluppatore del concetto sul piano scientifico, considera che l’autoefficacia percepita sia un insieme di credenze che le persone possiedono rispetto alle loro capacità di produrre livelli designati di performance specifiche (non generali), esercitare influenza sugli eventi e sulle proprie vite.
Include, inoltre, l’atteggiamento positivo verso la capacità di raccogliere sfide o porsi nuove sfide.
Nel nostro metodo, riteniamo che l’autoefficacia dipenda largamente dall’autostima ma anche dalla consapevolezza corretta, non distorta, dei repertori di esperienze e competenze possedute e di ciò che con quei repertori possiamo fare. Spesso queste possibilità sono enormi e inesplorate.
L’autoefficacia produce il fatto di non abbandonare di fronte a punti d’arresto, perseverare (resilienza), lavorando per ottimizzare i propri progetti, consapevoli della forza intrinseca che essi possono avere.
Come evidenziato in un articolo del Wall Street Journal, in un brano dal titolo illuminante: “Se all’inizio non hai successo, sei in una azienda eccellente”, i veri successi sono spesso preceduti da dinieghi o porte chiuse[2].
Tra i casi citati: il libro di J. K. Rowling rifiutato da 12 editori prima che una piccola casa editrice londinese lo pubblicasse come “Harry Potter e la Pietra Filosofale”, un successo mondiale. La Decca Records che, in uno dei primi provini dei Beatles, disse “non ci piace il loro suono”. Walt Disney fu licenziato da un editor di un giornale, dicendo che egli “mancava di immaginazione.” Michael Jordan (il più grande giocatore di basket della storia) non venne considerato da ragazzino all’altezza del team di basket della sua scuola superiore.
Senza una sana dose di autoefficacia e di resilienza, queste persone avrebbero abbandonato la propria strada.
L’autoefficacia richiede la consapevolezza dei propri strumenti operativi (tools funzionali) e dei propri strumenti analitici e conoscitivi di base (meta-strumenti). Sapere di poter imparare vale più della conoscenza in sé.
Se diminuisce la percezione di disporre di tali strumenti, prevalgono atteggiamenti di rinuncia, la continua richiesta di aiuto anche su ciò che è invece nel nostro campo di fattibilità, l’immagine di “non essere ancora pronto per…”, o il sentimento negativo “non fa per me, e non ci posso nemmeno provare, o prepararmi per…”.
L’autoefficacia richiede un certo grado di accettazione ragionata del rischio e la consapevolezza che – per molti task – non è indispensabile la perfezione prima di poter passare all’azione. Spesso è sufficiente una dose di comprensione (attuale o potenziale) della materia, un buon spirito di adattamento e una buona capacità generale di problem solving, per poter affrontare larga parte dei problemi o sfide manageriali, sportive, o personali.
La consapevolezza delle proprie meta-competenze è un punto basilare.
Non è necessario avere già fatto qualcosa per sentire di poterlo fare, ma è indispensabile avere coscienza della propria capacità di generare soluzioni, di analizzare problemi, di comprendere dinamiche, e sapere di poter apprendere. Questi meta-fattori aiutano ad accettare anche sfide e compiti sui quali non esiste ancora esperienza specifica diretta o consolidata.
L’autoefficacia non deve diventare sensazione di onnipotenza o delirio, va dovutamente bilanciata con la saggezza e senso pratico, ma questi ancoraggi al realismo non devono impedire di perseguire un sogno difficile che abbia qualche probabilità di successo. La paura di fallire o incontrare difficoltà non deve fermare aspirazioni giuste e sogni sfidanti.
Il caso di un docente cui viene chiesto di fare una lezione su temi non esattamente pertinenti alla propria formazione, ma vicini, è un esempio concreto. La flessibilità mentale è un fattore vincente.
Un docente che insegna statistica ed ha basso livello di autoefficacia non accetterà di insegnare una materia come la Qualità Totale (trovandovi molte differenze rispetto alla propria), mentre al contrario sarebbe assolutamente fattibile. Tale materia è ampiamente basata su metodi statistici. Aumentando l’autoefficacia, la stessa persona potrà lanciarsi verso l’insegnamento di Qualità Totale, ma anche altro, es.: Metodi di Ricerca, sapendo di avere sia una buona base e soprattutto le capacità di apprendimento che servono per poter acquisire ciò che manca.
In sostanza, quel docente conosce già almeno il 90% di un possibile programma, e sa che potrà apprendere il rimanente 10% con poco sforzo. Un individuo con bassa autoefficacia si concentrerà sul 10% da apprendere e sul come apprenderlo, un individuo con bassa autoefficacia lo vedrà come “quel 10% che manca, per cui non si può fare”. Una differenza notevole!
Lo stesso vale per un istruttore di karatè cui viene richiesto di insegnare difesa personale. Un istruttore con alto livello di autoefficacia capirà immediatamente che le sue skill di base sono ampiamente sufficienti ad insegnare a qualcuno come difendersi, e se percepisce una lacuna nel suo set di conoscenze si adopererà per colmarla. Un istruttore con basso livello di autoefficacia coglierà ogni possibile “scusa” per non farlo: “non è la mia materia”, “non so come si faccia”, “non sono preparato” etc.
Un’alta autoefficacia è basata sull’orientamento a cogliere, in ogni sfida, ciò che è fattibile, ciò che è realizzabile o quantomeno tentabile, e la ricerca autonoma di strumenti per colmare le eventuali carenze.
Una bassa autoefficacia vede la dominanza di un orientamento a cogliere la parte negativa della sfida, la concentrazione prevalente sulle proprie lacune e non sulle proprie possibilità, l’assenza di sforzi per dotarsi di strumenti ulteriori che permetterebbero di sentirsi all’altezza.
Allo stesso tempo, l’autoefficacia si correla alla consapevolezza di dove, quanto e come siamo in grado di potercela fare da soli. Questo punto (indipendenza e autonomia) non deve essere confuso con una chiusura verso l’esterno e verso l’aiuto. Autoefficacia anzi significa anche capire e volere l’aiuto che serve a compiere un progetto, ma con una consapevolezza di dove realmente si colloca il confine delle proprie capacità autonome e dove è importante ricercare aiuto. Coltivare coscienza di sé è fondamentale.
Le persone che sviluppano un alto livello di autoefficacia hanno credenze positive sulle loro capacità di raggiungere i goal, accettano sfide superiori, e provano con maggiore forza e impegno a raggiungere i loro obiettivi, dando il massimo delle loro capacità.
Chi ha una alta autoefficacia, pensa, agisce e affronta una sfida come se stia per avere successo. Chi ha bassa auto efficacia intraprende la sfida dandosi per perdente dall’inizio.
Diventa essenziale per ogni coach o counselor capire a quali modelli di autoefficacia sia stata esposta una persona, quali abbia assimilato, quali siano attivi, e soprattutto se vi siano dissonanze interiori o modeling negativi da fonte genitoriale o sociale, attivi sulla persona.
[1] Bandura, A. (1994), Self-efficacy, in V. S. Ramachaudran (Ed.), Encyclopedia of human behavior (vol. 4, pp. 71-81), Academic Press, New York (Reprinted in H. Friedman [Ed.], Encyclopedia of mental health, San Diego, Academic Press, 1998).
Bandura, A. (1986), Social foundations of thought and action: A social cognitive theory, Englewood Cliffs, NJ, Prentice-Hall.
Bandura, A. (1991a), Self-efficacy mechanism in physiological activation and health-promoting behavior, in J. Madden, IV (Ed.), Neurobiology of learning, emotion and affect (pp. 229- 270), Raven, New York.
Bandura, A. (1991b), Self-regulation of motivation through anticipatory and self-regulatory mechanisms, in R. A. Dienstbier (Ed.), Perspectives on motivation: Nebraska symposium on motivation (Vol. 38, pp. 69-164), University of Nebraska Press, Lincoln.
[2] Beck, M. (2008), If at First You Don’t Succeed, You’re in Excellent Company, The Wall Street Journal, April 29, p. D1.
Alcune domande chiave da porsi o da porre in termini di coaching:
Che desideri stai frenando per colpa di competenze che ti mancano?
In quali campi ti senti efficace e in quali meno?
Guardandoti indietro, cosa tenteresti adesso? Quali progetti, idee o ambizioni hai frenato perché non ti consideravi all’altezza?
Guardando avanti, cosa ti darebbe soddisfazione, cosa vorresti dire di aver fatto tra 10 anni?
Di cosa ti pentiresti se dovessi pensare di morire senza aver fatto qualcosa cui tieni? Cosa in particolare?
Cosa vorresti poter dire di aver fatto di buono, la prossima settimana?
Facciamo un elenco di idee o progetti anche ambiziosi che ti darebbero gratificazione, sogniamo ad occhi aperti per un pò.
Se dovessimo pensare ad una tua giornata ideale, come sarebbe?
In un anno ideale, cosa faresti?
Quanto siamo lontani adesso da (… sentirsi bene, sentirsi felici, sentirsi gratificati, aver raggiunto i tuoi scopi, etc…), e perché secondo te?
Nell’osservare i propri ragionamenti, o quelli di un cliente, ci si potrà concentrare non solo sui contenuti, ma anche sul senso generale di possibilità, di autoefficacia, di padronanza, sulle auto-percezioni, sulle credenze che trasudano, sugli archetipi di sè che emergono, sullo spirito di avventura e ricerca, o invece di rinuncia e disfattismo che permeano la persona. Su questi sarà importante lavorare seriamente, ancor più che sui contenuti.
Le energie mentali diminuiscono o si esauriscono quando:
l’individuo non è consapevole delle proprie potenzialità reali;
l’individuo non è consapevole di come le proprie meta-competenze possano trasformarsi in competenze applicative su nuovi compiti;
l’individuo coglie prevalentemente gli aspetti di difficoltà di una sfida e non quelli di fattibilità;
l’individuo non si attiva in una ricerca autonoma di strumenti per colmare i propri gaps percepiti;
l’individuo sviluppa eccessiva dipendenza sugli altri per portare a termine un compito e non sa contare sulle proprie forze interiori, o percepirle correttamente.
Le energie mentali aumentano quando:
l’individuo prende coscienza delle proprie potenzialità, sia teoriche, che per prova diretta;
l’individuo prende coscienza delle proprie meta-competenze e della possibilità di tradurle in competenze applicative in campi nuovi;
l’individuo tiene in considerazione i margini di fattibilità di una sfida e non solo quelli di difficoltà, applicandosi per aumentare le opzioni positive;
l’individuo è proattivo e si adopera attivamente in interventi che aumentano le proprie risorse o colmano gap, e in progetti di apprendimento e accrescimento;
l’individuo ha pieno accesso alla proprie forze interiori, sa individuare bene quante e quali sono le proprie energie, competenze e abilità.
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Trasformare gli stati di insoddisfazione in azioni positive per migliorare la propria Self-Image
L’immagine di sé corrisponde a ciò che noi pensiamo di noi stessi. Costituisce una forma di auto-percezione, di auto-immagine, con la quale ci misuriamo costantemente.
Risponde in pratica alla domanda “cosa penso davvero di me?”, “come mi vedo?”. La “fotografia di noi stessi” può piacerci o meno, ed in genere, quanto più e bassa tanto più diminuiscono le energie mentali. Con alcune importanti eccezioni da esaminare.
In genere le energie mentali crescono quanto meglio riusciamo a sentirci con noi stessi, accettarci, piacerci.
L’importante eccezione è la seguente: le situazioni in cui non ci sentiamo bene con noi stessi possono svolgere funzione positiva quando questa insoddisfazione si trasforma in unpiano di lavoro e azioni concrete di cambiamento. In altre parole, non piacersi e macerarsi in questo stato è distruttivo per le energie mentali, mentre non piacersi, ma trovare una strada di miglioramento e praticarla, è un modo efficace per generare energie.
Uno dei compiti essenziali del coaching, sul piano etico, è quello di determinare se il “non piacersi” sia su variabili importanti e “giuste” o su aspetti di vita pericolosamente sbagliati, o assorbiti da modelli altrui improduttivi, mode effimere, esempi esposti dai media, il cui perseguimento finirebbe per fare danni elevati alla persona.
Ad esempio, molte modelle non si piacciono e vorrebbero vedersi sempre più magre, diventando anoressiche, con casi accertati di morti per anoressia.
Un coach (LifeCoach o FitCoach, o un consulente, o un medico) che aiuti questa persona ad essere tanto magra al punto di morire non è un coach ma un perfetto idiota e un delinquente. Aiutare le persone a perseguire obiettivi distruttivi è moralmente sbagliato. L’aiuto ha sempre uno sfondo etico.
Nessun problema invece per un coaching in cui una persona non sia soddisfatta delle proprie capacità di comunicazione, di negoziazione, o di leadership, o di vendita, e voglia migliorarle, o ancora non accetti un corpo evidentemente fuori forma, flaccido, e voglia essere tonico e sano, o ancora sia in perfetta forma ma voglia trovare una condizione agonistica di picco.
Trasformare gli stati di insoddisfazione in azioni positive quindi è uno dei compiti fondamentali del coaching.
Su quali temi può lavorare un coaching profondo?
Le forme specifiche di autoimmagini possono essere numerose e provenire da diversi angoli di osservazione.
Distinguiamo alcuni piani di osservazione o analisi:
Self-image intellettuale: l’immagine di noi stessi sul fronte dell’intelligenza che ci attribuiamo, della capacità di interagire con le persone su un piano culturale, di usare la mente in modo raffinato;
Self-image dello spessore umano e morale: il nostro auto-giudizio su come applichiamo alcuni valori in cui crediamo, il nostro valore morale. Comprende il giudizio su alcune delle scelte fatte in passato, il gradimento o rifiuto che abbiamo per noi e il valore morale che ci attribuiamo. Sul piano del coaching, è essenziale che il coach riesca ad isolare i fallimenti passati e ripulirli da giudizi errati sul proprio spessore umano e morale (autoflagellazione improduttiva), per inquadrarne invece le reali condizioni, situazioni e difficoltà incontrate;
Self-image di ruolo professionale attuale: analisi limitata al piano della percezione di sé sul lavoro, come professionisti, lavoratori, o comunque nell’occupazione attuale;
Self-image dei ruoli e identità del passato personale: autovalutazione e gradimento di chi e come eravamo in diversi momenti della nostra vita passata;
Self-image bloccata nell’evento: un’immagine di sé negativa legata ad un evento critico (critical incident), es., una perdita, un fallimento, un atto spiacevole compiuto – che non viene accettata, superata, metabolizzata;
Self-image relazionale: l’immagine che abbiamo delle nostre abilità di relazione con gli altri. All’interno, ancora più in profondità, possiamo trovare altri piani sempre più analitici, alcuni dei quali citati di seguito;
Self-image della seduttività: l’immagine che abbiamo di noi come seduttori, amatori, comunicatori efficaci, sino alle relazioni sessuali;
Self-image agonistica: l’immagine di ruolo che abbiamo di noi come lottatori, sia in azioni proattive (di “attacco” a problemi e situazioni) che difensive, quando qualcuno attacca il nostro territorio fisico o psicologico. La ricerca del prototipo interiore può assumere le sfumature di guerriero fisico, di mediatore, o di soggetto abile nelle sfide verbali, di chi “non si lascia pestare i piedi”, o ancora di chi “preferisce sempre parlarne”, o di uno con cui “è meglio lasciare perdere”, o del “perdente”, e altre;
Self-image di ruolo genitoriale: l’immagine che abbiamo di noi come buoni (o cattivi) padri o madri, reali o potenziali;
Self-image di ruolo filiale: l’immagine che abbiamo di noi come buoni o cattivi figli, rispetto ai doveri sociali introiettati e attivi in noi;
Self-image corporea: l’immagine che abbiamo del nostro corpo, anch’essa connessa al gradimento o rifiuto che proviamo per essa (self-satisfaction corporea);
Self-image complessiva: la sommatoria di auto-immagini, il quadro complessivo della nostra auto-percezione.
Il quadro delle percezioni è spesso confuso e dissonante. Possiamo trovarci a nostro agio con una delle nostre auto-immagini ma non con un’altra.
Ogni autoimmagine non accettata può produrre
un calo delle energie mentali, quando emerge la rassegnazione verso lo stato negativo (da non confondere con auto-accettazione dei propri limiti), o si scatena senso di colpa e frustrazione associati a senso di impotenza, o
incremento delle energie mentali, quando la consapevolezza di un tratto negativo stimola il senso di orgoglio e la volontà di lavorarvi sopra, e viene individuato un percorso concreto nella direzione voluta. Anche piccolissimi passi possono sbloccare la situazione.
Per questo motivo, l’immagine di sé va chiarita sui diversi distretti psicologici e non solo in termini generali.
Un buon modo di partire è porsi la domanda (o porla, per i coach, formatori, terapeuti, educatori e counselor): In cosa sei diverso da come vorresti essere?… per poi entrare nello specifico.. es. Che tipo di manager vorresti essere, e in quali situazioni non si senti come vorresti? Ed ancora: Che tipo di professionista vorresti essere? Dove, in cosa, con chi non riesci ad essere come vorresti? Cosa ti piace e non ti piace fare in particolare? Con chi non ottieni i risultati che vorresti? Quando accade? Esaminiamo in dettaglio come ti muovi: cosa ti succede quando…? Dove invece ti senti funzionare al meglio? In quali situazioni? Facciamo qualche esempio…
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