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Articolo estratto con il permesso dell’autore dal testo di Daniele TrevisaniIl potenziale umano. Metodi e tecniche di coaching e training per lo sviluppo delle performance”. Franco Angeli editore, Milano.

“No pain, no gain”

Accanto alla abilità di trasformazione del vissuto del dolore, e gestione delle proprie forze, troviamo la capacità di percepire finemente il tipo di dolore o fatica in corso e distinguerne le tipologie.

Il dolore (negativo) di una articolazione infiammata è completamente diverso dal dolore di un muscolo in fase di allenamento intenso.

Continuare ad allenare un articolazione infiammata è distruttivo, avere questo tipo di dolore non è un obiettivo, è il dolore che porta alla distruzione. Il dolore muscolare positivo ha una sua riconoscibilità. L’atleta viene allenato e apprende a distinguere diversi tipi di dolore, quello che si accompagna ad un trauma, quello da fatica (es. acido lattico) e quello che fa crescere.

Lo stesso vale per la fatica mentale, la fatica che distrugge e quella che fa crescere hanno colori diversi e bisogna imparare a riconoscerle.

Esiste un dolore mentale legato al cambiamento di abitudini, e la psicoterapia porta spesso a momenti di dolore legato ad uno stacco dalle proprie abitudini consolidate.

Anche lo studio può portare fatica ma successivo appagamento.

Il dolore e la fatica possono anche riguardare l’intero corpo, e non zone specifiche, come in sport completi quali la boxe, il nuoto, il tennis e altri. Il senso generale di affaticamento pervade tutto il corpo. Vivere entro questo stato e continuare a lavorare entro lo stato è una competenza mentale.

La crescita di un bodybuilder si costruisce proprio tramite esaurimenti programmati. Avviene unicamente quando il muscolo viene portato ad esaurire le proprie energie sino (o vicino) al punto di cedimento, il punto in cui non si riesce più a muovere un certo carico allenante.

Questo sfinimento programmatico produce dolore, e il recupero successivo produce crescita.

Un celebre motto del pluricampione del mondo Arnold Schwarzenegger, in campo agonistico, recita “no pain, no gain”, cioè senza dolore non c’è crescita. Messaggio utile in alcune fasi di preparazione, ma pericoloso se applicato da incoscienti o preso come religione di vita da applicare in ogni campo e momento.

Attenzione: il fattore di crescita non è il dolore in sé. Non è il dolore a far crescere, ma il tipo di lavoro e di sforzo intenso necessario. Spesso questo sforzo si accompagna a stati dolorosi, soprattutto nella parte finale degli esercizi. Un coaching di qualità deve anche lavorare sulle training experience, le esperienze e sensazioni allenanti, e far capire il valore e il piacere che si può legare a questi momenti di fatica in cui però si genera crescita.

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il potere delle abitudiniLibro di  Charles Duhigg –  Scheda su Amazon per l’acquisto

Il potere delle abitudini

La maggior parte delle scelte che compiamo ogni giorno non sono frutto di riflessioni consapevoli bensì di abitudini. E benché, singolarmente, non abbiano grande significato, nel loro complesso le abitudini influenzano enormemente la nostra salute, il nostro lavoro, la nostra situazione economica e la nostra felicità. Da secoli gli uomini studiano le abitudini, ma è solo negli ultimi anni che la neurologia, la psicologia, la sociologia e gli esperti di marketing hanno realmente iniziato a capire in che modo funzionano. Questo libro indaga la formazione delle abitudini sia a livello individuale sia collettivo, nelle aziende e nelle istituzioni. La buona notizia è che le abitudini non sono un destino: si possono ignorare, cambiare, sostituire o… mantenere. Charles Duhigg ci spiega come! Già pubblicato con il titolo: “La dittatura delle abitudini. Come si formano, quanto ci condizionano, come cambiarle”.

Approfondimento sulle Abitudini, fonte Wikipedia

Abitudine

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L’abitudine (dal latino habitudohabitudinis, struttura fisica o morale) è la disposizione o attitudine acquisita mediante un’esperienza ripetuta. Questa disposizione è insita nel comportamento degli esseri umani e degli animali. È stata alla base della scoperta del rito dell’abitudine.

L’abitudine in fisiologia e psicologia

Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Rito dell’abitudine.

Il termine abitudine viene usato per indicare sia le attività motorie, sia le attività mentali, che dopo numerose ripetizioni vengono svolte in modo relativamente automatico o, più semplicemente, con maggior facilità e coordinazione.

L’abitudine è il processo mediante il quale un comportamento diventa abituale. I comportamenti si ripetono in un contesto coerente, vi è un aumento incrementale nel collegamento tra il contesto e l’azione. Per azione si intendono sia attività mentali che motorie che, dopo un periodo relativamente lungo in cui vengono ripetute, vengono poi svolte in maniera più sciolta o con maggiore coordinazione dei movimenti. Questo aumenta l’automaticità del comportamento in tale contesto.[1] Caratteristiche di un comportamento automatico possono essere: efficienza, mancanza di consapevolezza, la non intenzionalità, l’incontrollabilità.[2]. Una ricerca del Massachusetts Institute of Technology degli anni novanta condotta sui topi ha dimostrato che le abitudini operano in tre fasi: segnale, rituale e gratificazione[3]; Lo svolgimento di un’azione, una routine, per ottenere la ricompensa allo stimolo del segnale. È stato visto come la gratificazione alimenti il ciclo, tanto che la routine tenda a diventare un comportamento quasi automatico ogni volta che compare un segnale (anche ad insaputa dell’individuo). Questo ciclo dell’abitudine è stato chiamato Habit loop.

Cattive abitudini

Una cattiva abitudine è un modello di comportamento negativo. Alcuni esempi includono: procrastinazione, irrequietezza, onicofagia.[4]

Un fattore chiave per distinguere una cattiva abitudine da una dipendenza o da malattia mentale è l’elemento della forza di volontà. Se una persona sembra ancora avere il controllo sul suo comportamento, allora è solo un’abitudine.[5] Le buone intenzioni sono in grado di escludere l’effetto negativo delle cattive abitudini, ma il loro effetto sembra essere indipendente e le cattive abitudini restano, ma sono sottomesse invece che annullate.[6]

Secondo l’autore Bill Borcherdt, il momento migliore per correggere una cattiva abitudine è prima che l’azione diventi regolare. Ecco perché è più facile che lo sviluppo di cattive abitudini possa essere impedito maggiormente durante l’infanzia.[7]

Ci sono molte tecniche per la rimozione di cattive abitudini una volta che esse si sono stabilizzate. Uno dei metodi prevede l’identificazione e la rimozione dei fattori che innescano l’abitudine e che incoraggiano la sua persistenza a lungo termine.[8]

Solitamente in psicologia e in pedagogia, l’abitudine viene classificata come meccanismo psicologico messo in moto dalla persona per adattarsi in maniera più proficua all’ambiente che lo circonda. L’abitudine diventa quindi uno dei fattori che contribuiscono in maniera maggiore alla formazione del carattere sin dalla prima infanzia.

Buone abitudini

Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Condizionamento operante.

Le buone abitudini sono quei comportamenti che ci permettono di arrivare ai nostri obiettivi primari nella vita. Ci sono molte tecniche per innescare le buone abitudini, ad esempio quello di unire più piccole modifiche comportamentali in una routine quotidiana.[9]

L’abitudine

Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Abito (filosofia).

Nella storia della filosofia, sono individuabili due diversi approcci sistematici riguardo al fenomeno dell’abitudine. Una prima tendenza riduce il fenomeno ad una semplice azione motoria ripetuta in arco relativamente lungo di tempo e in maniera relativamente regolare. Tale concezione può essere ravvista già in Cartesio e, più in generale, nelle teorie degli atomisti, e prende il nome di teoria meccanicistica.

Il secondo approccio, più naturalistico, mette in evidenza la spontaneità delle azioni che, ripetute a più riprese, favoriscono la stabilità delle stesse e una loro regolarizzazione in arco di tempo relativamente lungo. Questa tendenza si rifà alle concezioni aristoteliche riprese poi da Maine de BiranÉmile BoutrouxGottfried LeibnizFelix Ravaisson-Mollien ed Henri Bergson e prende il nome di teoria vitalistica in cui il concetto di abitudine assume connotazione positiva e l’abitudine stessa diventa il mezzo per il divenire morale.

Di contro, Jean-Jacques Rousseau e Immanuel Kant classificarono l’abitudine in maniera negativa, ossia come ostacolo alla spontaneità dello spirito e alla naturalezza della libera iniziativa.

Il peccato d’abitudine

Nella religione cattolica, l’abitudine diviene peccato quando un’azione si ripete continuamente per difetto di volontà, sia per la prevalenza della passione, ossia per una consuetudine negativa. Il grado di gravità del peccato d’abitudine varia a seconda della posizione reale del peccatore.

Modi di dire

  • Prendere (o perdere) un’abitudine: assumere un modo di agire costante e quasi meccanico
  • Essere legato alle proprie abitudini
  • Per abitudine: senza riflettere e seguendo una consuetudine acquisita col tempo
  • Cattive abitudini: contrarie alle regole della morale o dell’educazione

Note

  1. ^ Wood W, Neal DT (2007). “A new look at habits and the habit-goal interface.” Psychological Review114: 843–863
  2. ^ Bargh JA (1994). “The four horsemen of automaticity: Awareness, intention, efficiency, and control in social cognition.” In Wyer RS, Srull TK (eds.), Handbook of social cognition: Vol. 1 Basic processes, pp. 1–40. Hove: Lawrence Erlbaun Associates Publishers
  3. ^ Ricerca del MIT sull’habit loop Archiviato il 3 febbraio 2013 in Internet Archive.
  4. ^ Suzanne LeVert, Gary R. McClain, The Complete Idiot’s Guide to Breaking Bad Habits, Alpha Books, 2001, ISBN 0-02-863986-3.
  5. ^ Mariana Valverde, Disease or Habit? Alcoholism and the Exercise of Freedom, in Diseases of the Will: Alcohol and the Dilemmas of Freedom, 1998, ISBN 0-521-64469-0.
  6. ^ Bas Verplanken, Suzanne Faes, Good intentions, bad habits, and effects of forming implementation intentions on healthy eating, in European Journal of Social Psychology, vol. 29, 5–6, 21 giugno 1999, pp. 591–604, DOI:10.1002/(SICI)1099-0992(199908/09)29:5/6<591::AID-EJSP948>3.0.CO;2-HURL consultato il 3 agosto 2011 (archiviato dall’url originale il 5 gennaio 2013).
  7. ^ Bill Borcherdt, Making Families Work and What to Do When They Don’t, Haworth Press, 1996, p. 172, ISBN 0-7890-0073-3.
  8. ^ Herbert Fensterheim, Jean Baer, Don’t Say Yes When You Want to Say No, Dell, 1975, ISBN 0-440-15413-8.
  9. ^ S.J.Scott, Un’abitudine sopra l’altra: 97 modi per cambiare vita in cinque minuti o meno, Babelcube, 2014.

Voci correlate