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Direzione Vendite e Leadership

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Copyright. Articolo estratto dal libro “Direzione Vendite e Leadership. Coordinare e formare i propri venditori per creare un team efficace” di Daniele Trevisani, Franco Angeli editore, Milano. Pubblicato con il permesso dell’autore.

Tipi di delega e modi di delegare

Una delle grandi attività pratiche dei leader consiste nel “delegare”, una fase fondamentale della comunicazione operativa consiste nel creare momenti di comunicazione apposita in cui la delega venga trattata come un compito critico, cruciale, determinante, da trattare con sacralità e attenzioni speciali.

Errori nella delega, a monte, producono a valle del­l’organizzazione frane e disastri.

Delegare in base ai compiti

È il metodo più noto e utilizzato. A un dipendente vengono affidati compiti specifici e compiti secondari, per esempio la bozza di un nuovo dépliant per un prodotto o un servizio, l’elaborazione o correzione di un rapporto o la preparazione di un progetto; si tratta quindi di un compito ben definito ma con pochi o nulli margini di libertà. È adatto soprattutto per membri junior o di livello organizzativo basso.

Delegare in base all’obiettivo

La delega in base all’obiettivo significa assegnare ad altra persona uno “scopo” o End-State (stato da raggiungere) lasciando grandi margini di autonomia sul come raggiungerlo.

Non viene richiesto il “come”, per raggiungere un determinato obiettivo, ma il solo fatto del raggiungimento. L’obiettivo viene in pratica delegato completamente, e questo richiede forte autonomia e maturità del collaboratore e dell’area cui si delegano interi obiettivi.

Che si tratti di incrementare il fatturato del 12% in un anno, di aprire nuove aree di mercato, di aumentare la produttività o contenere i costi nei processi aziendali, il farlo precede il come. Raggiungere simili obiettivi richiede collaboratori molto senior e con grande livello di fiducia.

Una riflessione. La fame che aiuta

Chiarezza di mente significa anche chiarezza di passione; per questo una mente grande e chiara ama ardentemente e vede distintamente ciò che ama.

(Blaise Pascal)

I membri dei team vincenti devono avere “fame”. Fame di risultato, fame di affermazione, fame di vittoria, fame di rivincita o riscatto, fame di avvicinarsi ai propri sogni o ideali. O, per un team intellettuale: fame di scoperta, fame di esplorazione, fame di stimoli, fame di conoscenza.

Una riflessione. La fame che aiuta

Un team di vendita deve avere fame di clienti, di progetti, passione per l’avviare relazioni e concludere relazioni, così come per il singolo venditore l’amore per il proprio lavoro è qualcosa che nessun ordine può sostituire.

Non importa quale sia il motore della fame, o dell’amore, l’importante è che vi sia fame, o amore. Un team di soggetti annoiati, iper-appagati, viziati, sempre e solo riveriti e coccolati, o rammolliti e demotivati, senza passioni per niente, non può essere vincente. E nemmeno lo può essere un leader arrogante che usa sempre il bastone e la frusta.

La fame può essere, lo ripetiamo, sia agonistica sia intellettuale, fame di scoperta, di conoscenza, di esperienze.

L’importante è che sia viva e abbondante, e che nessun pasto la possa ridurre, e non perché il pasto non sia abbondante, quanto per la continua esigenza di voler ricercare, esplorare, confrontarsi, dare contributo.

La fame può essere anche del tutto auto-realizzativa, scoprire e raggiungere i propri limiti, o anche solo di auto-immagine (Self-Image), non essere “uno dei tanti”, un individuo-massa, e voler far parte di qualche cosa di speciale.

La fame può essere anche combinata, come nel mix di agonismo e voglia di riscatto che deriva dal prendere in mano obiettivi sfidanti e farli propri, per sé stessi e per gli altri.

Può essere inoltre presente una fame stupenda, la fame di sensazioni, il gusto del provare emozioni o sensazioni emotive e fisiche in ciò che si fa.

In ultimo, i team vincenti offrono un pasto estremamente appetitoso, rispondendo alla fame di libertà, portando le persone lontano da una vita grigia e stereotipata, da ruoli morti e tempi decisi da altri, vite già finite ancora prima di iniziare.

I team vincenti sono linfa nella vita di chi vi partecipa. Ancora prima che nei risultati che producono, questo è un dato sufficiente a dare loro valore, spessore e motivazione.


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Saper inquadrare l’Obiettivo Operativo

Il goal-setting richiede la chiarificazione di cosa vogliamo ottenere, non in termini generici, ma di Obiettivi Operativi, obiettivi che siano concreti, pratici, realizzabili, comprensibili e raggiungibili.

Nel campo delle campagne di comunicazione aziendale, notiamo come molte di esse sfuggano al criterio di base di qualità del goal. 

Molte campagne che vorrebbero incidere sui comportamenti (nella comunicazione sociale, per esempio per la riduzione del fumo, o nella vendita per la conquista di nuovi clienti) non riescono nei propri obiettivi, poiché i goal non esistono o sono fumosi (deliberatamente o per incapacità).

Per facilitare il compito dei realizzatori, occorre predisporre goal chiari e ben comunicabili, abbinati ad apposite schede di rilevazione e checklist che permettono di svolgere una verifica adeguata.

Non possiamo, infatti, creare la situazione in qualcuno, al termine di un briefing, si trovi a dire: “molto bello, però adesso cosa devo fare?” 

Parlare chiaro al punto che le persone, ogni persona, sappia cosa deve fare e perché, è un fondamento della leadership.

I funzionari o professionisti che sanno tradurre un goal in una sequenza precisa di azioni da intraprendere sono abbastanza rari. Per questo motivo, le checklist consentono di avviare molto più rapidamente le operazioni.

La definizione dei goal nella direzione del team

Nel metodo ALM abbiamo individuato e predisposto diversi tipi di supporto per il goal-setting nelle campagne di comunicazione e marketing B2B :

  • Check-list riepilogative di campagna (CRC): predispongono i compiti (task) da assegnare ai diversi membri del team; riassumono i risultati di campagna.
  • Check-list riepilogative individuali per il team-member (CRI): predispongono e riassumono operazioni svolte da singoli membri del team.
  • Check-list riepilogative di analisi sul singolo prospect (CRP): predispongono azioni comunicative e riepilogano sotto forma di questionario la situazione rilevata nel singolo cliente attuale o potenziale (o altro destinatario di campagna).

Le “campagne d’azione” necessitano di goal specifici, differenziati dagli obiettivi generici. Per un punto vendita, aumentare il comfort del cliente non è un goal ma un obiettivo, mentre lo specifico goal può essere formulato come “ridurre i tempi medi di attesa del cliente da 10 a 2 minuti”.

Allo stesso modo, l’obiettivo “farsi conoscere dal pubblico” è certamente un risultato auspicabile per ogni azienda, ma per divenire obiettivo operativo deve essere tradotto in goal misurabili, come “portare a conoscenza i potenziali clienti della Regione X dell’apertura dei nostri punti vendita, generando un grado di conoscenza (awareness) di almeno il 70 % delle famiglie nella città A e il 40 % nella città B entro 6 mesi dall’apertura”.

Ogni goal deve essere delimitato nel tempo, nello spazio fisico-geografico, nel settore merceologico, nell’attività, nella tipologia di soggetti su cui agire, sino a identificare con estrema precisione i target.

La struttura aziendale, di fronte a input chiari, risponde solitamente con maggiore efficienza ed efficacia, e passa rapidamente allo sviluppo di soluzioni operative. 

Obiettivi confusi e poco traducibili in pratica creano invece demotivazione e portano a uno stato di generale frustrazione e malcontento nelle risorse umane.

Pertanto, la creazione di goal e la buona strutturazione della comunicazione rappresentano un importante momento che il management deve utilizzare per lanciare un messaggio chiaro alle risorse umane: “sappiamo cosa vogliamo”.

Principio– Precisione e qualità dei goal

La “qualità della vita” nei gruppi di lavoro e la performance dei gruppi stessi sono correlate al grado in cui i goal sono:

  • specifici, precisi nella definizione e chiari nelle attese;
  • misurabili in termini di risultato;
  • raggiungibili, sfidanti ma dotati di un fattore di sfida gestibile in base alle risorse del soggetto;
  • rilevanti rispetto alla missione aziendale e dotati di rilevanza individuale;
  • forniti con la tempistica adeguata
  • trasformati in Obiettivi Operativi e non solo generici.

Il leader svolge la funzione di fissazione dei goal, monitoraggio in itinere, feedback e rinforzo (positivo o negativo) rispetto all’agire del detentore del goal.

La possibilità di autodeterminazione progressiva dei goal da parte dei membri del team

La definizione dei goal nella direzione del team

Non possiamo omettere, e dovremo farlo molto spesso, di ricordare l’importanza di una buona formazione vendite, con almeno una sessione all’anno di due o tre giorni in full-immersion, più un coaching dedicato, per poter dire di fare qualcosa di serio sul proprio team. Ogni team preparato è in grado di cogliere occasioni che gli altri nemmeno vedono.

“L’occasione arriva solo a colui che è ben preparato.”

Baruch Spinoza

Idealmente, a mano a mano che il gruppo si forma, cresce e matura, i membri del gruppo divengono sempre più partecipi nella fissazione stessa del goal.

Il leader deve decidere e sperimentare progressivi allargamenti della partecipazione del team nella definizione stessa degli obiettivi, in relazione al grado di maturità di ciascun singolo individuo (attenzione individuale alla possibilità di autodeterminare i goal).

In ogni azienda e organizzazione possiamo avere diverse condizioni:

  • La situazione A (anarchia organizzativa) si produce in seguito alla mancata definizione di goal.
  • La situazione B vede il team-member in una situazione di estrema dipendenza dal leader in termini di tipologia di goal (cosa fare) e di modalità esecutiva (come farlo).
  • La situazione C permette di condividere, di costruire assieme, un goal tra leader e team-member. È una condizione di elevata maturità del gruppo, e di prevalenza di un SIM (Sistema Motivazionale) di forte cooperazione. Richiede inoltre una forte comprensione, nel team-member, della sequenza piramidale, e quindi una potente interiorizzazione della mission aziendale.
  • La situazione D rappresenta lo stato evolutivo avanzato nel quale il team-member riesca a fissare egli stesso i propri goal.

Un ciclo di vita della leadership dovrebbe partire dalla condizione B per poi passare progressivamente (con molta cautela) alla C e alla D.

La condizione D è per molti leader carismatici un punto di arrivo: la possibilità che il team-member stesso viva il gruppo con un grado di maturità, partecipazione (empowerment), senso del ruolo e competenze tecniche tali da metterlo in grado di assegnarsi le proprie priorità e goal in modo autonomo.

Altri leader vedono in tale autodeterminazione una minaccia, una possibile perdita di potere e controllo.

In questo vi è una certa dose di contraddizione, poiché la definizione dei goal avviene sempre e comunque entro un frame– quadro generale – deciso dal leader, e non può mettere in discussione la linea strategica (nel qual caso si determinerebbe una pericolosa invasione dei territori psicologici).

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La qualità comunicativa

La qualità comunicazionale nei gruppi orientati agli obiettivi parte dalla qualità nella definizione stessa degli obiettivi e dei goal. Obiettivi e goal imprecisi producono demotivazione e scarsa stima verso chi li formula, e favoriscono la nascita di climi comunicativi dispersivi.

Una fonte di grandi malintesi e climi organizzativi disastrosi è la permanenza di attese latenti e non esplicitate (nel leader), le quali emergano solo a posteriori. Uno dei principi essenziali della qualità dei climi comunicativi è la trasparenza della comunicazione, delle intenzioni e delle attese.

Per quanto concerne gli obiettivi, la loro caratteristica più rilevante è quella di essere ancorati a un percorso che il soggetto possa comprendere.

Secondo una sequenza classica di management, i goal individuali devono correlarsi a quelli del gruppo di lavoro, e a risalire a quelli del dipartimento o settore aziendale, ma anche ai valori, alla visione e alla missione dell’azienda.

Relazioni tra qualità del goal e qualità della comunicazione nel gruppo

Se un gruppo agisce su variabili confuse, poco chiare, produrrà risultati confusi. Analizziamo alcuni punti essenziali della qualità dei goal in relazione ai climi comunicativi.

Per quanto concerne i goal, le caratteristiche più importanti vengono spesso definite dall’acronimo SMART. Secondo la procedura SMART (iniziali delle seguenti caratteristiche), un goal deve essere:

•      Specific, specifico.

•      Measurable, misurabile.

•      Achievable, raggiungibile.

•      Relevant, alta rilevanza percepita.

•      Timely, assegnato per tempo, al momento giusto.

Fattore Specific, specifico

La specificità del goal consiste nell’applicare la “cultura dei confini” alla definizione del goal stesso. “Aumentare le vendite” non è un goal veramente chiaro, poiché non è chiaro dove debbano essere aumentate, su quali prodotti (tutti, alcuni, uno solo), in quali tempi (domani, entro un biennio, entro un trimestre), e se vi sia qualche indicazione o meno sul come (realizzando sconti, aumentando la pubblicità, formando meglio il personale di vendita, cambiando target di clienti, cambiando prodotti?).

Un punto di arrivo per qualsiasi team leader è avere persone che mettano la propria motivazione e intelligenza su come raggiungere un goal senza che debbano essere “programmati” come automi. Questo a patto che:

  • il team leader stesso chiarisca che si attende questo da loro (comunicazione esplicita di aspettative e regole di vita del team);
  • il leader applichi concretamente i dovuti gradi di libertà nel team, permettendo alle persone di sprigionare idee anziché soffocarle.

Fattore Measurable, misurabile

Un goal deve essere chiaro nella sua “portata”, in caso contrario ha poche probabilità di agire come motivatore attorno al quale far ruotare azioni pratiche. “Aumentare le vendite” può significare sia farle crescere dello 0,2 % in un anno, che raddoppiarle o triplicarle entro sei mesi.

La misurabilità si applica anche ai goal immateriali, inerenti agli obiettivi meno tangibili, quali “far crescere le capacità e abilità del gruppo”.

“Dovete diventare più bravi” è un goal poco misurabile, mentre “Paolo deve passare da intermediate ad advanced nella certificazione sul programma SPSS per le ricerche di mercato” è un goal più misurabile.

Allo stesso modo “Voglio un sito web più tecnologico” sottende tutto e nulla, mentre il goal può essere riformulato per dare più misurabilità e concretezza: “Vorrei avere nel nostro sito alcune possibilità in più di vedere come lavoriamo, l’ho già visto in un sito della concorrenza. Sandra deve riuscire a produrre almeno un filmato visionabile sul sito web, in cui si veda il processo produttivo (nel primo semestre), e almeno un modello navigabile in realtà virtuale di un nostro prodotto (nel secondo semestre)”.

Notare che anche nel secondo passaggio è presente un potenziale “seme di dis-ecologia o entropia comunicativa”, poiché il manager potrebbe avere in mente un preciso prodotto (per esempio: un giunto meccanico) mentre Sandra potrebbe capire, in base al goal, che è libera di scegliere su quale prodotto applicarsi.

Fattore Achievable, raggiungibile

“Imparate a memoria questo libro entro domani” è un ottimo esempio di goal irraggiungibile. I goal irraggiungibili hanno la proprietà di spronare verso il risultato solo persone dotate di poco senso di realtà.

Il migliore suggerimento che si può fornire a un livello estremamente basilare di management è che un goal deve possedere elementi sfidanti ma raggiungibili. E la parte irraggiungibile, deve diventare raggiungibile solo a patto che siano dati gli strumenti di formazione e promozione adeguati.

Fattore Relevant, alta rilevanza percepita

I goal, per essere tali, devono essere rilevanti, importanti, qualcosa per cui vale la pena darsi da fare.

Un goal che viene percepito come inutile all’organizzazione rischia di venire vissuto come un semplice adempimento formale, senza che si capisca per cosa si sta lavorando e verso quale direzione.

La comunicazione interviene in questo punto sotto il profilo della creazione di una connessione forte tra vision e goal.

Un goal che non ha rilevanza sullo sviluppo dei propri interessi ha una probabilità minore di ottenere commitment (impegno personale) rispetto a un goal nel quale il soggetto individua un’occasione di crescita.

Sotto il profilo manageriale è invece importante, per il leader, saper costruire un mix adeguato di goal.

Nel management, non è possibile creare goal semplicemente per soddisfare le ambizioni dei singoli: azioni che puntano esclusivamente al piacere del collaboratore, possono esserci ma devono essere considerate tempi di “ricarica”.

Aziende che ascoltano solo i bisogni dei collaboratori e non dei clienti non hanno molta possibilità di rimanere in piedi a lungo.

Le paure da eliminare sono le “minacce di oppressione” che la leadership comporta: il leader deve apprendere anche a fare i conti con decisioni impopolari, assegnare goal e task che non corrispondono ai desideri del collaboratore, forzare la linea di azione verso la direttrice che ritiene più opportuna alla luce delle sue esperienze.

Fatto ogni sforzo di condivisione, rimane il dovere di assumersi la responsabilità dell’autorità e dell’imposizione dall’alto quando la condivisione non sia possibile. 

Fattore Timely, assegnato al momento giusto

La variabile “tempo” è essenziale, per due grandi motivi:

  • un goal assegnato con troppo anticipo non produce interesse e attivazione. I sistemi mentali del soggetto sono impegnati su altri fronti e si rischia la “caduta nel dimenticatoio” dove finiscono tanti progetti aziendali e personali;
  • un goal assegnato con troppo poco tempo a disposizione per organizzarsi è segnale di disorganizzazione del leader, e genera overload (sovraccarico) sul collaboratore, contribuendo a creare un clima di malessere.

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I traguardi di vendita richiedono capacità di delega

Ogni azione di vendita professionale si prefigge traguardi o goal.

La tecnica principale per pianificare i goal consiste nel definire l’obiettivo finale (End-State, o Stato di Arrivo), e dividere in sezioni il percorso che serve per arrivare a quell’obiettivo. Tali sezioni diventano goal distinti da raggiungere, come pietre miliari in un percorso.

Un End-State è la frase che voglio poter affermare una volta finito un progetto di vendita o una campagna di vendita. Es: “3 delle dieci principali aziende nel settore mobilifici devono essere nostri clienti a fine anno”.

Da ogni End-State, derivano goal e operazioni (Operations).

I goal devono essere:

  • coerenti con le distintività aziendali, con il posizionamento, con le possibilità pratiche;
  • coerenti rispetto ai saperi, ai saper essere e ai saper fare dell’organizzazione;
  • raggiungibili;
  • assegnati con responsabilizzazione personale;
  • verificati a livello interpersonale profondo (colloqui in profondità con i venditori responsabili del raggiungimento del goal);
  • supportati dall’organizzazione;
  • monitorati da un leader.

Delegare e fissare goal sono azioni che rientrano esattamente nel tema della Leadership e ancora più specificamente nella Team Leadership, in questo caso, la direzione di un Team di Vendita Professionale.

Ogni sistema, piccolo (per esempio una famiglia), medio (per esempio un’impresa) o grande (per esempio una multinazionale oppure un ente statale), ha obiettivi da raggiungere.

Crescere i figli, consolidare la presenza sui mercati, darsi una buona organizzazione, sono esempi di obiettivi pratici.

Generalmente, gli obiettivi puntano al lungo periodo, a una visione, a uno stato positivo da raggiungere.

La sequenza obiettivi-goal-progetti-task 

Gli obiettivi si traducono in goal (risultati misurabili), progetti (sequenze di attività) e task (compiti).

Così, per una famiglia:

•      possiamo identificare l’obiettivo “far crescere i figli”;

•      possiamo avere due goal specifici:

  1. farli “crescere bene” sul piano fisico;
  2. farli “crescere bene” dal punto di vista psicologico, morale e intellettuale[1];

•      possiamo avviare diversi progetti:

  1. far sì che il ragazzo/ragazza possano svolgere un’attività fisica regolare;
    1. curare la loro alimentazione.

Sul piano psicologico:

  • evitare di dare esempi sbagliati;
    • ascoltare i figli realmente;
    • seguirli e affiancarli nella realizzazione dei compiti scolastici e nella vita, senza però violare la loro sfera di autonomia, ma anzi ampliandola più possibile e gradualmente;

I progetti si traducono in precisi compiti (task), tra cui: portare il bambino/ragazzo alla palestra il lunedì e giovedì dalle 17,30 alle 19, ritagliarsi due serate specifiche e inviolabili dedicate esclusivamente alla famiglia, prendersi una giornata al mese di “uscita a coppia” tra i due genitori, e qualsiasi altra azione sia utile.

Notiamo subito che la sequenza presenta numerosi momenti di comunicazione, sia tra i genitori che in presenza dei figli (gruppo allargato), tra cui “decidere quale sport”, “saper ascoltare”, e numerosissime altre situazioni comunicative.

La qualità di questi momenti comunicativi è direttamente correlata alla possibilità di conseguire i risultati desiderati. Questo accade anche nella Leadership dei Team di Vendita

Principio – Focalizzazione degli obiettivi e backward planning

La qualità della vita nei gruppi di lavoro e la performance dei gruppi stessi sono correlate:

•  al grado con cui le azioni quotidiane e i compiti (task) seguono progetti specifici;

•  al grado con cui i progetti sono ancorati a goal definiti e misurabili;

•  al grado con cui i goal sono ancorati a un obiettivo di lungo periodo (vision).

Il leader funge da coordinatore, comunicatore interno e motivatore, esplicitando il raccordo e coordinamento tra le diverse fasi (task, progetti, goal, obiettivi), per ogni membro del team.

Vediamo ora come la catena obiettivi-goal-progetti-task produca, anche in un’azienda, una molteplicità di attività di comunicazione interna.

  • Obiettivo: riqualificare la propria rete di vendita dal punto di vista motivazionale e delle competenze delle risorse umane.
  • Goal: ridisegnare la rete sul territorio, definire una procedura incentivante, migliorare la modalità di intervista del cliente e la capacità di comunicazione e negoziazione.
  • Progetti
    • progetto esemplificativo 1: “one area-one team” in cui viene assegnata la leadership territoriale a una precisa figura professionale, e si decide quali siano le risorse del suo team; 
    • progetto esemplificativo 2: “tecniche di negoziazione avanzata”, in cui i membri del team apprenderanno le tecniche di ascolto del cliente durante la negoziazione, e altri obiettivi di formazione necessari per concretizzare gli obiettivi.
  • Task: selezionare il responsabile per ogni area, selezionare i membri del team di ogni area, definire la scaletta di incentivazione, selezionare il formatore/consulente per la fase formativa, costruire i gruppi di persone da mettere in formazione, e altri compiti correlati.

Esponiamo di seguito un’ulteriore sequenza relativa al passaggio dagli obiettivi ai progetti, per dare ulteriore concretezza all’argomento.

Processo di focalizzazione degli obiettivi

Obiettivi generali
Migliorare la redditività aziendale

Wish-List di risultato
Obiettivo : Ottenere un + 40% di fatturato entro 3 anni

Situation Analysis
Sviluppo di un primo diagramma di Causa-Effetto (DCE) sulle determinanti dei ricavi e DCE sulle determinanti dei costi;
Esplicazione
a) dei fattori critici e risultati attesi relativamente ai ricavi (quali leve toccare);
b) dei fattori critici e risultati attesi relativi al miglioramento nella gestione dei costi.

Specifiche – Action Plan – Project Management
Per ciascun punto della Wish-List, fissare obiettivi quantitativi, tempi, modi, responsabilità (chi fa cosa, quando, come), definire i metodi di misurazione e verifica dei risultati

Ogni task, ogni progetto, ogni goal, richiede attività decisionali di gruppo.

 

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La cultura del variables-reasoning

Appurato che vi sia un fondamento organizzativo di base:

  • prodotti competitivi e vendibili
  • supporti di vendita adeguati (auto, uffici, telefoni, PC, altri supporti di vendita),

dobbiamo considerare che ampia parte del successo dipenda dalle risorse umane, comprendenti sia le segreterie organizzative che i venditori e i leader.

Il primo e più importante contributo delle discipline scientifiche è il variables reasoning, un’impostazione di fondo del ragionamento scientifico ed un insegnamento prezioso per l’impresa: trattare i problemi in termini di variabili e loro relazioni.

Un problema quale “calano le vendite negli USA” andrà quindi studiato in termini di “cosa determina il calo delle vendite” e “cosa determina un successo di vendita in quel paese”. Dovremo quindi costruire un vasto raggio di ipotesi e spiegazioni possibili.

Ad esempio:

ipotesi 1 – “le vendite calano perché il paese è in fase di recessione “;

ipotesi 2 – “le vendite calano perché sono entrati nuovi concorrenti”,

ipotesi 3 – “le vendite calano perché la nostra rete commerciale si è indebolita”, ecc… 

Queste ipotesi andranno verificate empiricamente (partendo da dati reali), sino ad identificare la causa vera o l’insieme di cause su cui agire.

Ragionare per ipotesi, sviluppare alternative e sottoporle a verifica significa adottare un metodo scientifico. Molte aziende invece operano su problemi di tale natura con azioni impulsive tipo “cambiamo il direttore commerciale”, “raddoppiamo la pubblicità” o “cambiamo fornitore” magari operando proprio sulle leve sbagliate

Essere competitivi significa quindi – innanzitutto – saper analizzare i fattori critici del successo prima di agire. Significa costruire una base di conoscenza aziendale sui rapporti di causa-effetto in cui l’impresa è coinvolta, prima solo abbozzata, poi migliorata e verificata in parte, poi sempre più completa ed esaustiva, fino a possedere il quadro esatto della situazione. Tanto più ampia la base di conoscenza aziendale, tanto meglio l’impresa saprà quali leve toccare e che risultato ne emergerà.

Il tentativo di ragionare per variabili e loro relazioni costituisce innanzi tutto uno strumento pratico. Con un effetto ulteriore: in seguito al suo utilizzo ripetuto esso si trasforma in una impostazione culturale, filosofia guida positiva di una cultura aziendale analitica e basata sul core-problem solving.

La cultura del variables-reasoning vale come linea guida per ogni analisi dei problemi aziendali, in ogni settore e reparto.

Studio del problema
Capire quali sono le variabili critiche
Impostare il problema in termini di relazioni tra variabili: sviluppo di ipotesi sui fattori generativi
Test di ipotesi
Sviluppo di modelli
Revisione dei modelli
Utilizzo dei modelli per l’azione

Il diagramma di relazioni per l’analisi dei fattori di successo nella vendita

Ragionare per variabili all’interno di una analisi del successo di vendita è possibile.

Nell’approccio variables-reasoning si applica un procedimento (prima di tutto mentale, poi eventualmente supportato da supporti scritti o software) in cui il problema o il goal viene analizzato in termini di variabili che lo possono generare, di rapporti causa-effetto e fattori generativi. Si costruisce quindi un quadro di ipotesi da cui partire, visualizzabile tramite un diagramma. Le singole ipotesi devono essere verificate e costituiscono la base per lo sviluppo di strategie.

Ad esempio, per capire come raggiungere elevati obiettivi di vendita è necessario chiedersi quali sono i fattori generativi del successo di vendita, tra cui il personale, il prodotto, la promozione, l’assistenza e le garanzie, l’analisi accurata dei destinatari. Questi costituiscono i macro-fattori del Diagramma di Causa-Effetto. Per ciascun fattore andranno quindi approfondite le principali sotto-cause. Alcuni fattori particolarmente rilevanti possono essere zoommati più in profondità realizzando quindi diagrammi di approfondimento.

Il livello di profondità dell’analisi dipende dal tempo a disposizione, dall’esperienza e dalle conoscenze del settore.

I metodi per costruire il DCE sono stati divisi nel metodo ALM in “negativi”, “positivi” e “a livelli”.

  • I DCE negativi sono applicati a problemi e utilizzano formulazioni verbali negative, es: “Demotivazione, impreparazione e obiettivi confusi determinano calo di vendita”. 
  • I DCE positivi si applicano a goal e utilizzano formulazioni positive, es: “La qualità della formazione dipende dalla capacità di realizzare un’analisi efficace dei fabbisogni formativi, predisporre moduli veramente professionalizzanti, utilizzare docenti e metodi didattici coinvolgenti”. 
  • I DCE “a livelli” presentano le relazioni in termini di variabili pure, es: “Il livello qualitativo del prodotto dipende dal livello di manutenzione dei macchinari e dal grado di purezza delle materie prime”. 

 

Applicazioni ai problemi di vendita 

E’ possibile, secondo il Metodo ALM, costruire un DCE positivo che analizza i fattori del successo di vendita, e un DCE negativo applicato ai problemi di un calo di vendita.

Un DCE positivo sostiene ad esempio che il successo di vendita sia collegato alle capacità personali (competenze, comunicazione, affidabilità, proiezione di un’immagine professionale), ad un accurato studio dei destinatari (segmentazione strategica per individuare il target, segmentazione operativa per individuare i prospects e i decisori, analisi dei bisogni dei destinatari finalizzata a capire come creare valore), alla qualità del prodotto e suo rapporto qualità/prezzo, alla qualità dell’assistenza e garanzie, e alla capacità di promozione. Ciascuno di questi fattori a sua volta dipende da altre cause. Ad esempio, la qualità della promozione dipende dalla qualità del supporto media, dalle capacità di vendita personale e dai supporti cartacei alla vendita diretta o sul punto di vendita (display, cataloghi, listini, company profile, ecc).

Ciascuno di questi elementi dipende a sua volta da altri. Ad esempio, 

  • la conoscenza del prodotto è correlata al settore di provenienza (difficilmente un meccanico potrà occuparsi di alta moda femminile) e all’impegno nello studio del prodotto (che invece chiunque può mettere in atto); 
  • la qualità formativa dipende dall’attivazione di specifici percorsi sulla tecnica di vendita, dall’utilizzo di metodi formativi efficaci quali role-playing e project-works, e dall’affiancamento con persone esperte e tutor; 
  • la motivazione ed impegno dipendono dai benefit e dalla remunerazione (materiale e immateriale: denaro e gratificazioni, possibilità di crescita), e dalla cultura aziendale che deve produrre obiettivi chiari e sistemi di controllo efficaci. 

In ultimo, i supporti logistici, la cui qualità dipende dai supporti materiali (auto, PC, agende, telefoni) e dalla organizzazione ottimale dei tempi e percorsi di visita (time management di vendita).

Come si può notare, al crescere del livello di dettaglio emergono sempre più da vicino le leve strategiche da toccare, i passi concreti e operativi che l’azienda competitiva può attivare.

In altre parole, il variables reasoning permette di arrivare alla radice di cosa determina i risultati, e costruire il cruscotto aziendale, la sala controllo dell’impresa, il quadro comandi della competitività.

Dopo aver costruito il proprio diagramma di relazioni sull’obiettivo, l’impresa saprà dove destinare le risorse, e come impostare un sistema competitivo permanente (il vero risultato ricercato dal metodo ALM).

Lo stesso procedimento, applicato allo studio di un problema (es: il calo di vendite) produce ulteriore ricchezza di analisi, evidenziando gli errori da evitare.

Prima di agire su un calo di vendita, dovremmo infatti essere ben sicuri se il calo sia da attribuire a noi (alla nostra organizzazione e capacità interna) o all’andamento del mercato (domanda globale in calo o recessione) o ad entrambi. In un caso, ricercheremo rimedi interni, nell’altro caso dovremo aprire un’altra serie di domande: il calo è momentaneo o permanente, riguarda noi o tutti, quanto durerà, quali ne sono i motivi, ci conviene rimanere in questo settore, che alternative pensare.

Agire su un problema quale un calo di vendita avendone identificato i fattori causali, produce un risultato non immediato, ma duraturo (ad esempio, agendo sulla qualificazione della rete di vendita e sulle modalità motivazionali profonde). 

Un rimedio immediato può essere raggiunto tramite interventi superficiali (es: promozioni sui prezzi), con l’effetto di non agire sulle cause profonde, e soprattutto di abituare il cliente ad un prezzo inferiore, il che rende difficile poi ritornare ai livelli di prezzo normali. Gli interventi non-causali, quindi, realizzano spesso più un danno che un risultato (al di là delle apparenze del momento).

Altri materiali su Comunicazione, Ascolto, Empatia, Potenziale Umano e Crescita Personale disponibili in questi siti e link:

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Copyright. Articolo estratto dal libro “Direzione Vendite e Leadership. Coordinare e formare i propri venditori per creare un team efficace” di Daniele Trevisani, Franco Angeli editore, Milano. Pubblicato con il permesso dell’autore.

Coordinare l’attività del venditore e del Team

Coordinare l’attività del venditore significa:

  • sul piano dei tempi, inquadrare cosa fare e quando, adottando uno stile di direzione orientato alle azioni;
  • agire sul piano della struttura di personalità e manageriale del venditore: come sei, e come lavori – stile di direzione orientato alla persona.

Ogni persona è un universo a sé stante e quindi lo stile di leadership deve essere “situazionale”, cioè un approccio generale valido per tutti più un intervento mirato su ciascuno dei membri del team, a seconda delle proprie caratteristiche.

Coordinare significa capire il motivo di essere di ciascuno, isolare la sua specifica missione all’interno della matrice territori/servizi, e mantenere una visione dall’alto sulle operazioni complessive.

Coordinare un gruppo di diversi venditori significa averne assolutamente chiara la mission individuale, il contributo distintivo che deve essere apportato, e soprattutto i confini di ruolo e i limiti operativi (geografici, merceologici) di ciascun venditore.

Il metodo HPM per inquadrare lo stato delle energie del venditore e del team

Nel metodo HPM sviluppato da Studio Trevisani, è stata posta attenzione scientifica e di ricerca sul concetto di Performance (prestazione) e di Wellness (benessere) applicati a chiunque opera professionalmente, nel lavoro o nello sport, nella vendita e nella leadership.

Porsi il problema della performance seriamente significa chiedersi quali sono le condizioni che la permettono, i fattori che la rendono possibile. Per ottenere performance di vendita è necessario che la struttura organizzativa sia ben funzionante e che il “sistema-uomo” (il venditore in questo caso) sia carico di energia, di competenze e di volontà di raggiungere risultati, e di obiettivi ben inquadrati e profilati.

Il metodo HPM “Human Performance Modeling” si prefigge di evidenziare i fattori principali che permettono al sistema-uomo di fornire prestazioni.

Le sei aree di lavoro del Metodo HPM

Approfondiamo le sei specifiche aree di lavoro di un percorso di crescita personale nel metodo HPM, come esposte le testo “Il Potenziale Umano” e in “Personal Energy”.

  1. Energie fisiche (stato bioenergetico): le energie corporee sono il substrato fondamentale per mettere in atto qualsiasi azione o volontà, anche intellettuale e di vendita. Persino il pensiero e le attività mentali sono processi che utilizzano energie biologiche; la nostra vita e persino il nostro pensiero dipendono dalla qualità del sangue, dall’ossigeno, dai nutrienti, dal respiro – tutti fattori che incidono sulla lucidità e sul benessere anche mentale. Pensare, progettare, ideare, comunicare, negoziare, richiede energie e biologia attiva, ben funzionante.
  2. Energie mentali (stato psicoenergetico): se il “poter fare” dipende in larga misura dal livello di energie fisiche, il “voler fare” richiede accesso alle energie mentali. Un venditore senza motivazione non vende nemmeno a chi vuole comprare. È indispensabile quindi esaminare il fronte psicologico della prestazione e del benessere individuale. Quali sono i fattori che generano motivazione e demotivazione? Quali interventi concreti sono possibili? Se riusciamo ad isolare variabili in grado di generare o ridurre le energie mentali avremo aperto una via determinante per capire meglio come funziona l’uomo e cosa si rompe nel funzionamento della persona e delle organizzazioni quando essi non riescono a raggiungere i propri obiettivi.
  3. Micro-competenze: le energie diventano utili e concrete quando le sappiamo tradurre in azione, e questo richiede competenze a livello micro. Ad esempio, durante una trattativa di vendita, sapere in quale esatta frazione di secondo fermare chi parla per saper introdurre delicatamente il tema di conversazione che ci interessa trattare, è un insieme di micro-competenze, inclusa la tecnica del “Repair” o mossa di riparazione (es: mi permetto di suggerire, se consente, di trattare questo tema ora, per poi tornare su X…). Senza queste micro-mosse della conversazione, il cliente si sentirebbe solo interrotto e maltrattato. Ogni azione è preceduta dal pensiero di fare quell’azione, quindi se con il Training Mentale riusciamo a cogliere il pensiero che precede l’zione, e valutare se sia opportuno, siamo ad uno stato di micro-competenze molto elevato e sottile. Si tratta di una vera e propri “caccia” ai dettagli lavorabili ed allenabili, alle cose che altrimenti sfuggono. Nuove competenze, nuove sfide.
  4. Macro-competenze: i dettagli di un singolo atto sono importanti, ma lo è anche possedere un buon ventaglio di conoscenze, una conoscenza chiamata “enciclopedica”, nel senso di “non limitata” ad uno spazio troppo stretto e angusto, solo iperspecialistico. Se vendi auto, è molto, ma molto bene, che ti intendi anche di gomme, e di energie rinnovabili, e di altre forme di propulsione come l’elettrico, l’ibrido. Devi saper interagire con il cliente non solo sul prezzo. Per capire le “connessioni tra le cose” occorre conoscere più campi del sapere, e metterli in relazione.  Se ci liberiamo dal male della presunzione, tutti noi possiamo diventare consapevoli di non sapere. Spesso gli incidenti personali di vita (critical incidents), le fasi di malessere, i test di realtà, le cadute, ci segnalano che qualcosa non va. Sia in questi casi, che nella vita quotidiana, chiediamoci cosa è bene imparare. Rimaniamo aperti. Howell[1], nell’introdurre il concetto di unknown incompetence (ciò che non sappiamo di non sapere) ha fatto un regalo ad ogni essere umano, stimolandolo ad andare a cercare i suoi punti ciechi nascosti. L’analisi del livello macro ci porta inoltre a ragionare sul tema dell’entropia delle competenze, il degrado progressivo che subisce la nostra preparazione per via dell’ambiente che cambia ed evolve, e come fronteggiarlo.
  5. Progettualità e concretizzazione: stupende idee che non trovino mai soddisfazione e applicazione, distruggono anziché costruire. Niente è più deleterio del rimanere costantemente in uno stato di tensione latente, di pulsione bloccata, un tendere a…sempre incompiuto, ogni idea forte o desiderio di attivazione incompiuto produce danni, una vita castrata, un adagiarsi nella sofferenza senza che mai si provi un avvicinamento all’oggetto o condizione desiderata, ad uno stato superiore. Concludere una trattativa in modo positivo, chiudere una vendita, fa bene allo spirito. Giorno dopo giorno soffoca chi non tenta di vivere una vita a pieno e lascia le cose sempre a metà. Occorre quindi trovare sfogo applicativo, liberazione progettuale, determinazione, sviluppare le tecniche per canalizzare le energie in goal concreti. Nessuno può pretendere che ogni sogno si concretizzi, ma nemmeno accettiamo la castrazione di ogni nostro sogno. Nessuno pretende record mondiali o progetti forzatamente fantastici, ma piccoli passi si, ricerca di significati si, ricerca di scopi praticabili si. Ogni micro-goal raggiunto ci fa pensare di poterne raggiungere un altro ancora e rinforza la nostra autostima. Ogni piccolo passo conta.
  6. Visione e ideali: il quadro dei valori in cui crediamo, il futuro che vogliamo costruire, una causa alla quale vogliamo contribuire, ciò che riteniamo sia degno, qualcosa per cui lottare.

L’aspetto della visione, dei valori e degli ideali è senza dubbio il più distante da un mondo massificato e materialistico. Il solo pensiero di aiutare e lasciare una piccola traccia verso un mondo migliore nobilita la nostra vita e la riempie di significati.

Vogliamo fare alcune riflessioni che estendono questo ragionamento alla formazione aziendale, coaching e percorsi di sviluppo:

  1. Energie e competenze sono importanti, ma senza passione, senza il motore di una causa nobile, tutto è inutile. 
  2. “A cosa serve il mio sforzo?”… è una domanda che deve trovare risposte.
  3. Tante persone sono come auto pronte al via, ma con il parabrezza talmente sporco da non consentire di vedere “verso dove”, andiamo. Auto senza un guidatore, viandanti senza una meta e senza un perché.
  4. Occorre stimolare e riscoprire gli ancoraggi profondi ai valori, e ad una causa, la sacralità di una missione, persino la sacralità dell’esistenza.
  5. Le performance, le nostre giornate, le nostre ore, sono piene di atti vuoti o sono ancorati ad un disegno superiore? Esiste una “spiritualità” delle performance o del fare, un “fuoco sacro” che alimenta energie e motivazione?
  6. Diamo un senso a quello che facciamo? Ci proviamo? Possiamo cogliere un motivo denso di significato?
  7. Credere in quello che si fa è determinante per l’auto-immagine. Se ci sentiamo inutili venditori di fumo non andremo mai da nessuna parte. Se troviamo invece il modo di essere di aiuto a qualcuno, di dare senso, o di lottare per qualcosa, diventiamo pieni di forze.
  8. Ancorare l’azione a ideali significa riconoscere il bisogno di esistere per un fine. Le performance sono destinate a svanire nell’istante, mentre invece una causa è eterna.
  9. Vi sono persone e atleti che sperimentano il contatto con una realtà superiore ogni volta che entrano nelle quattro mura di una palestra o di un Dojo, e sanno che il loro allenamento sarà una forma di preghiera e di contatto con il proprio Dio, o anche solo con le forze primordiali della natura. Lo stesso può accadere nell’impegnarsi in un progetto aziendale o personale, e in una vendita.

La visione di una causa per cui lottare o di un senso in quanto facciamo è un motore potente. Quando questo collegamento denso di valori, mistico o sacro, accade, le energie si sprigionano, i miracoli sono dietro l’angolo.

I fattori da cui dipende la performance personale e lo stato del venditore

Il metodo HPM sostiene che le performance sono ampiamente correlate ai seguenti punti:

  • alle energie fisiche (stato di carica organismico);
  • alle energie mentali (stato di carica motivazionale, forza di volontà);
  • alle macro-competenze insite nel ruolo (i saperi, i saper essere, e i saper fare che certo ruolo richiede);
  • alle micro-competenze: i dettagli e le micro-attenzioni correlate alle macro-competenze (es: sapere bene come aprire una riunione di vendita o negoziazione, come gestirne i contenuti, e come chiuderla);
  • alla fissazione di goal intesi come proposizioni di risultato quantificabili ed oggettivabili;
  • alla visione, intesa come motore ispirativo dell’orizzonte futuro cui si guarda (o al passato da cui si sfugge), alla means-end-chain (catena mezzi-fini) che costituisce la visione personale (il “perché” facciamo le cose).

I fattori da cui dipende la performance del team e lo stato del team

Ogni team si può considerare come la sommatoria ed interazione tra più sistemi di energie personali (sistemi piramidali HPM,) che interagiscono tra di loro. Ogni team ha due grandissimi nemici:

  1. le incomprensioni tra membri del team e
  2. il calo di energie di uno o più membri del team.

Il metodo HPM richiede di porre attenzione, da parte della direzione vendite, ai seguenti punti:

  • lo stato di ciascun soggetto per quanto riguarda le 6 aree identificate;
  • i rapporti di interazione tra soggetti, a livello orizzontale (rapporti tra colleghi interni al team);
  • i rapporti di comunicazione e la qualità comunicativa dal leader verso ogni singolo membro del team;
  • i rapporti di comunicazione e la qualità comunicativa posta in essere dai membri del team verso il leader (comunicazione bottom-up, flussi di ascolto dal cliente verso la direzione vendite, mediata dal venditore);
  • le comunicazioni interne al gruppo;
  • i rischi di disallineamenti nei goal tra membri del team e leader: è pericoloso avere idee diverse su ciò che sia un goal o cosa si debba fare – in pratica – sul campo;
  • i rischi di disallineamenti nella visione e nella prospettiva temporale – ad esempio gli orientamenti a lungo periodo nella costruzione di un parco clienti di qualità vs gli orientamenti di breve termine verso il raggiungimento di un budget di vendita anche con clienti di bassa qualità e progetti a basso valore;
  • i disallineamenti comunicativi: comprendersi male, fraintendimenti (misunderstanding), disaccordi (disagreement);
  • cali energetici che coinvolgono un membro del team, che se non compresi e compensati, si ripercuotono a cascata sia sul leader che sul gruppo;
  • i cali energetici del leader, che si ripercuotono su tutto il gruppo.


[1] Howell, William S. (1982). The empathic communicator. University of Minnesota: Wadsworth Publishing Company.

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Copyright. Articolo estratto dal libro “Direzione Vendite e Leadership. Coordinare e formare i propri venditori per creare un team efficace” di Daniele Trevisani, Franco Angeli editore, Milano. Pubblicato con il permesso dell’autore.

Aiutare i venditori a diventare autonomi

Passare una vita a rincorrere gli ordini dati dall’alto non è certo un piacere professionale né esistenziale. La leadership di vendita si prefigge di aiutare i venditori a diventare più autonomi possibile, il che significa, dover dare meno “ordini” possibile, per il fatto di poter contare su persone formate, moralmente e professionalmente, e quindi in grado di dirigersi da sole entro un quadro di regole del team.

È tema di patto psicologico tra direzione vendite e venditore sapere, capire, e fissare, quali gradi di autonomia si possono conferire al venditore. Esiste una componente valutativa del grado di autonomia del venditore, dalla quale la direzione vendite non può sfuggire. 

Formare i venditori significa, in larga misura, aiutarli a diventare pensatori autonomi, e comunque a rispettare le regole e i valori del team.

Devono inoltre esistere adeguati momenti di testing e verifica di autonomia che permettano di capire se il grado di autonomia sia variato e/o opportunamente e correttamente misurato.

Il patto psicologico va gestito attraverso momenti iniziali e periodici di colloquio interpersonale in profondità, applicando i principi della leadership conversazionale su una scaletta di temi. Questi sono alcuni dei principali temi conversazionali per il colloquio in profondità sull’autonomia del venditore:

  • Quanto ti senti in grado di muoverti in autonomia?
  • Su quali aree ti senti meno in grado, dove hai bisogno di più supporto?
  • Che tipo di delega vorresti avere?
  • Che tipo di garanzie pensi di potermi dare?
  • Quante volte in passato hai avuto questo grado di autonomia?
  • Quando vorresti essere affiancato, e in cosa?
  • Che tipo di formazione vorresti fare per essere al massimo possibile nella tua professione di vendita?

l venditore deve essere portato gradualmente verso la capacità di gestire autonomamente i budget di comunicazione necessari per il supporto alle campagne di vendita localizzate (avere un budget promozionale e la capacità di gestirlo con saggezza).

Questo significa produrre autonomia sia nel gestire i budget, che nel definire nuove voci o eliminare quelle improduttive per le campagne che il venditore deve curare.

Far crescere la squadra

La crescita della squadra passa attraverso alcuni momenti principali:

  • la crescita dell’individuo stesso, attraverso programmi di coaching;
  • azioni di formazione e team-building, attraverso sessioni in aula e outdoor, formazione e altre tecniche di condivisione di esperienze e creazione dello spirito di gruppo;
  • azioni correttive sui creatori di climi negativi: chi distrugge i climi aziendali e del team con i propri comportamenti, atteggiamenti e messaggi, va ripreso immediatamente, il non farlo delegittima di fatto il leader stesso;
  • azioni di rinforzopremiazione e gratificazione per i comportamenti e atteggiamenti positivi, per l’impegno e per il risultato.

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Copyright. Articolo estratto dal libro “Direzione Vendite e Leadership. Coordinare e formare i propri venditori per creare un team efficace” di Daniele Trevisani, Franco Angeli editore, Milano. Pubblicato con il permesso dell’autore.

Strumenti e tecniche per ottimizzare il tempo dei venditori

Gestire i tempi significa dettare il “Battle Rhythm”, il “ritmo di battaglia” nel quale si compete nel Colosseo della vendita.

Uno dei problemi principali della leadership è “chi gestisce il tempo di chi”. Un leader non può sfuggire dalla necessità di pianificare i tempi, almeno a livello di macro-pianificazione. 

Le pretese (del leader o dei venditori) di poter raggiungere deleghe ampie, senza dovere di controllo sui tempi altrui, trovano spazio solo quando il venditore consulenziale sia veramente autonomo e dotato di ampia professionalità. Anche in questo caso, tuttavia, il venditore dovrà muoversi, nel corso dell’anno, all’interno di un framework di lavoro e di macro-tempi definiti da una direzione.

Alcuni strumenti utili:

  • schede appuntamento: riepilogano i dati essenziali della visita che si sta per andare a svolgere. Vengono preparate o da supporti amministrativi o (il giorno prima, nel peggio dei casi), dal venditore stesso, nella fase di preparazione alla giornata successiva. Il formato delle schede può andare da fogli A4 sino a micro- dossier, sufficientemente compattati.
  • planning settimanale: il planning settimanale definisce la mappa degli appuntamenti lungo un percorso di vendita settimanale. La mappa appuntamenti deve contenere sia le visite vere e proprie, che gli slot (spazi) organizzativi (i tempi/momenti organizzativi sufficienti per ammortizzare i viaggi e i carichi amministrativi). 
  • planning trimestrale: il planning trimestrale deve contenere i principali appuntamenti del trimestre, inclusa la definizione di quale “team di vendita” sia dedicato a quale cliente, e gli appuntamenti interni e con il cliente.

La possibilità di svolgere un planning dipende dalla divisione netta tra:

  • tempi preparatori e
  • tempi di visita.

Durante una campagna, è necessario dividere nettamente i tempi di preparazione e di contatto telefonico (o altre forme di presa d’appuntamento) dai tempi di visita. Occorre assolutamente resistere alla tentazione di inseguire gli appuntamenti “alla rinfusa”, basandosi solo sulle disponibilità del cliente, dimenticando così delle proprie esigenze di ottimizzazione e logistica.

Una ipotesi di articolazione mensile puramente indicativa è la seguente:

  • settimana contatti in-house: programmazione e presa d’appuntamento, preparazione e role-playing
  • settimana sul campo: visite ai prospects
  • settimana contatti in-house: preparazione proposte e soluzioni, elaborazioni consulenziali
  • settimana sul campo: visite ai prospects, conclusione situazioni aperte.

I modelli di vendita e i modelli di chiusura

L’articolazione pratica dipende dal modello di chiusura che si decide adottare e offrire come modello di Formazione Vendite alla propria squadra di venditori:

  • chiusura in prima visita: obiettivo è chiudere subito, arrivare alla firma nel primo incontro. È possibile solo da parte di venditori estremamente esperti e preparati, quando essi incontrano condizioni di base favorevoli, o comunque non nettamente ostili. I venditori che riescono a chiudere in prima visita partendo da condizioni ostili sono decisamente rari e devono fare ricorso a tecniche di vendita ad alta pressione psicologica, che non fanno parte del repertorio medio della vendita consulenziale;
  • chiusura in seconda visita: divide l’attività di vendita in una visita preliminare di raccolta dati e ascolto, e in una visita di chiusura, basata sulla proposta di soluzioni (Solutions Selling), di alternative e chiusura;
  • chiusura in terza visita: divide l’attività di vendita in (1) visita di analisi, (2) visita di contrattazione e taratura, e (3) visita di chiusura finale.

Le varianti possibili sono numerose, ad esempio

  1. acquisizione informazioni preliminari per via telefonica,
    1. sviluppo di una ipotesi di vendita,
    1. contatto telefonico ulteriore di “sgrossatura” delle opzioni,
    1. contatto diretto per la conoscenza reciproca,
    1. sviluppo di una soluzione d’acquisto,
    1. visita finale orientata alla chiusura.

Tra i principali problemi di vendita vi sono le linee di vendita eccessivamente lunghe (quanti appuntamenti massimi sono ammissibili per poter arrivare a concludere una vendita)

È essenziale che ogni campagna di vendita fissi una soglia massima di lunghezza della linea di vendita, oltre la quale non sia possibile proseguire. In caso contrario, si arriverebbe all’assorbimento totale delle risorse da parte di pochi clienti esigentissimi e comunque dal ricavo incerto. 

Sono purtroppo comuni i casi di clienti che esigono incredibili sforzi di vendita o enormi impegni progettuali nel venditore, per poi ripensarci o non acquistare affatto. 

Dall’esperienza pratica emergono anche casi di “falsi acquisti” ove il cliente mette in opera il venditore al solo scopo di acquisirne la capacità progettuale, per poi – una volta acquisito il progetto – rivolgersi altrove con un notevole risparmio sul costo complessivo (composto da progettazione e prodotti).

Una campagna di vendita deve avere priorità e tempi, i tempi per le visite devono essere inseriti in una programmazione e non lasciati fluire in un limbo temporale.

Fissare le priorità per i venditori

Il venditore deve assolutamente sapere quali sono le priorità che gli sono richieste, scegliendo tra:

  • alto vs. basso numero di contatti – ruolo di divulgazione tecnico/scientifica o PR vs ruolo di vendita;
  • ruolo di fidelizzazione e retention vs ruolo acquisitivo;
  • ruolo di marketing relazionale vs ruolo di chiusura aggressiva;
  • numero massimo di posizioni aperte da mantenere in trattativa contemporaneamente;
  • tipologia di soggetti sui quali muoversi;
  • su quali clienti non disperdere tempo/energie;
  • priorità geografiche;
  • priorità di categoria aziendale per classi di dimensione e fatturati.

Le priorità vanno anche diversificate in termini temporali:

  • priorità annuali, collegate al business plan aziendale e al marketing plan;
  • priorità semestrali o quadrimestrali;
  • priorità mensili;
  • priorità settimanali.

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L’empatia nel metodo ALM

Una particolare dote necessaria per chi vuole applicare la Direzione Vendite nel Metodo ALM è quella di favorire nei venditori un atteggiamento empatico, e più in generale l’empatia verso il cliente.

L’approccio empatico prevede una concezione opposta al “parlare addosso al cliente”: ascoltare in profondità per capire la mappa mentale del nostro interlocutore, il suo sistema di credenze (belief system), e trovare gli spazi psicologici per l’inserimento di una proposta.

Nel metodo ALM distinguiamo alcuni tipi principali di empatia:

  • Empatia comportamentale: capire i comportamenti e le loro cause, capire il perché del comportamento e le catene di comportamenti correlati.
  • Empatia emozionale: riuscire a percepire le emozioni vissute dagli altri, capire che emozioni prova il soggetto (quale emozione è in circolo), di quale intensità, quali mix emozionali vive l’interlocutore, come le emozioni si associano a persone, oggetti, fatti, situazioni interne o esterne che l’altro vive.
  • Empatia relazionale: capire la mappa delle relazioni del soggetto e le sue valenze affettive, capire con chi il soggetto si rapporta volontariamente o per obbligo, con chi deve rapportarsi per decidere, lavorare o vivere, quale è la sua mappa degli “altri significativi”, dei  referenti, degli interlocutori, degli “altri rilevanti” e influenzatori che incidono sulle sue decisioni, con chi va d’accordo e chi no, chi incide sulla sua vita professionale (e in alcuni casi personale).
  • Empatia cognitiva (o dei prototipi cognitivi): capire i prototipi cognitivi attivi in un dato momento del tempo, le credenze, i valori, le ideologie, le strutture mentali che il soggetto possiede e a cui si ancora.

Elementi positivi e distruttivi dell’empatia

L’empatia viene distrutta o favorita da specifici comportamenti comunicativi e atteggiamenti.

Favorisce l’empatiaDistrugge l’empatia
CuriositàDisinteresse
Partecipazione reale all’ascolto, non finzioneFingere un ruolo di ascolto solo per dovere professionale
Riformulazione dei contenutiGiudizio sui contenuti, commenti
Pluralità di approcci di domanda (domande aperte, chiuse, di precisazione, di focalizzazione, di generalizzazione)Monotonia nel tipo di domande
Centratura sul vissuto emotivoCentratura esclusiva sui fatti
Segnali non verbali di attenzioneBody Language che esprime disinteresse o noia
Segnali paralinguistici di attenzione, incoraggiamento ad esprimersi, segnali “fàtici” (segnali che esprimono il fatto di essere presenti e attenti)Scarsa dimostrazione di interesse e attenzione al flusso di pensieroAssenza o scarsità di segnali “fàtici” e di contatto mentale

La comunicazione d’ascolto, e la qualità dell’ascolto, comprendono la necessità di separare nettamente le attività di comprensione (comunicazione in ingresso) dalle attività di espressione diretta (comunicazione in uscita).

Formare i venditori all’ascolto e pretendere che applichino un ascolto attivo e di qualità

Se c’è un’area prioritaria sulla quale vanno formati i venditori, questa è proprio l’ascolto del cliente.

Cosa trasmettere in una formazione vendite volta a potenziare l’ascolto? Innanzitutto, il fatto che si va ad un incontro con un cliente soprattutto per ascoltare, e che durante le fasi di ascolto è necessario:

  • non interrompere l’altro;
  • non giudicarlo prematuramente;
  • non esprimere giudizi che possano bloccare il flusso espressivo altrui;
  • non distrarsi, non pensare ad altro, non fare altre attività mentre si ascolta (tranne prendere eventuali appunti), usare il pensiero per ascoltare, non vagare;
  • non correggere l’altro mentre afferma, anche quando non si è d’accordo, rimanere in ascolto;
  • non cercare di sopraffarlo;
  • non cercare di dominarlo;
  • non cercare di insegnargli o impartire verità, trattenere la tentazione di immettersi nel flusso espressivo per correggere qualcosa che non si ritiene corretto;
  • non parlare di sé tranne che per quanto sia necessario alla trattativa o colloquio;
  • testimoniare interesse e partecipazione attraverso i segnali verbali e il linguaggio del corpo;

Di particolare interesse risultano gli atteggiamenti di:

  • interesse genuino e curiosità verso la controparte: il desiderio di conoscere ed esplorare la mente di un’altra persona, in questo caso del cliente, e della mappa dei decisori, attivare la curiosità umana e professionale;
  • silenzio interiore: creare uno stato di quiete emozionale (liberarsi da emozioni negative e pregiudizi) per ascoltare l’altro e rispettarne i ritmi.

Formare i venditori ad avere un atteggiamento empatico aiuta a sviluppare un rapporto speciale con il cliente

La Direzione Vendite trae grande vantaggio dall’avere venditori consulenziali empatici. Ma, empatia e simpatia non sono sinonimi

Empatia significa capire (es: capire perché un cliente posticipa un acquisto o vuole un prodotto di basso prezzo, o ci parla di un certo problema). 

Simpatia significa invece apprezzare, condividere, essere d’accordo. 

La vendita di tipo “Solutions Selling” richiede l’applicazione dell’empatia e non necessariamente della simpatia. L’essenziale è capire qual è il problema da risolvere nel cliente, non per forza offrirgli champagne.

L’ascolto attivo e l’empatia non vanno confuse con l’accettazione dei contenuti altrui o dei loro valori. 

Le regole di ascolto attivo non sono regole di accettazione del contenuto, ma metodi che permettono di far fluire il pensiero altrui più liberamente possibile per ricavarne apertura e informazioni utili.

La fase di giudizio interiore su quanto ascoltiamo, inevitabile durante la negoziazione, deve essere “relegata” alla nostra elaborazione interna, tenuta per fasi successive della contrattazione, e non deve interferire con la fase di ascolto. Quando il nostro scopo è ascoltare dobbiamo ascoltare.

Per farlo dovremo:

  • sospendere il giudizio,
  • dare segnali di assenso (segnali di contatto, segnali fàtici),
  • cercare di rimanere connessi al flusso del discorso,
  • fare domande ogniqualvolta un aspetto ci sembra degno di approfondimento,
  • non anticipare (es: sono certo che lei…) e non fare affermazioni,
  • limitarsi a riformulare i punti chiave di quanto detto dall’altro,
  • non interrompere inopportunamente.

È necessario riservare il nostro giudizio o fare puntualizzazioni solo dopo avere ascoltato in profondità e all’interno di un frame negoziale adeguato.

L’obiettivo delle tecniche empatiche è quello di favorire il flusso del pensiero altrui, e di raccogliere quanto più possibile le “pepite informative” che l’interlocutore può donare. L’empatia, se ben applicata, produce “flusso empatico”, un flusso di dati, informazioni fattuali, sentimentali, esperienziali, di enorme utilità per il negoziatore.

Il comportamento contrario (giudicare, correggere, affermare, bloccare) spezza il flusso empatico, e rischia di arrestare prematuramente la raccolta di informazioni preziose. 

Esiste un momento nel quale il venditore deve arrestare il flusso del discorso altrui (momento di svolta, turning point) ma in generale è bene lasciarlo fluire, finché non si sia compreso realmente con chi si ha a che fare e quali sono i veri obiettivi, e tutte le altre informazioni necessarie.

Le tecniche empatiche sono inoltre d’aiuto per frenare la tendenza prematura alla disclosure informativa di sé: il dare informazioni, il lasciar trapelare dati inopportunamente o prematuramente su di noi. 

Dare al cliente informazioni e dati che potrebbero risultare controproducenti genera un effetto boomerang. Ogni informazione deve essere fornita con estrema cautela. 

L’atteggiamento empatico è estremamente utile per concentrare le energie mentali del negoziatore sull’ascolto dell’altro e frenare le nostre disclosure inopportune.

Sviluppare una comunicazione empatica fa bene

L’empatia è il contrario della distrazione, dell’ascolto giudicante, del non ascolto. L’empatia è ascolto allo stato puro. L’empatia richiede attenzione e concentrazione sull’altro, per cui sia il corpo che la mente devono essere presenti, acuti e pronti a cogliere ogni parola e ogni significato che emerge. La distrazione rende l’empatia impossibile.

L’empatia è uno stato superiore, estremamente avanzato, di una relazione umana. Potremmo definirlo come il sapersi mettere nei panni degli altri per poter sentire e percepire quello che essi provano.

L’empatia è rara perché richiede la sottile capacità di sintonizzarsi emotivamente, e capire i livelli più nascosti, emotivi e personali, del vissuto del nostro interlocutore, più che i dati numerici o oggettuali che ci espone. Utilizza inoltre la metacomunicazione (letteralmente “comunicare sulla comunicazione stessa”) ad esempio chiede senza timori il significato di un termine che non comprende, o, nelle poche occasioni in cui l’ascoltatore parlerà, lo farà per spiegare concetti che servono al processo comunicativo stesso.

L’ascolto empatico è di una rarità impressionante. Possiamo dire di averlo incontrato l’ultima volta in cui una persona ci abbia dedicato un’ora di tempo senza raccontarci niente di lui o lei, per ascoltare solo quello che noi avevamo noi da dire, facendoci domande per capire meglio, non solo le nostre informazioni, ma le nostre emozioni. Bene, se è successo, si è trattata probabilmente di una sessione di coaching, di counseling o di terapia. Raro che succeda nella vita quotidiana. La vita quotidiana è così piena di distrazioni esterne e di “rumori interni” della mente, che l’ascolto empatico non vi trova in genere posto.

Le persone sono sempre più distratte e così facendo, non ascoltano più, né attivamente, né empaticamente. La vendita professionale richiede invece di riportare l’ascolto al centro della scena.

La componente più difficile dell’ascolto empatico è certamente la sospensione del giudizio. Se qualcuno dice “ho buttato via il pane” o “ho gettato il sacco della spazzatura dal finestrino”, è praticamente impossibile non giudicare negativamente. Ma la “sospensione” del giudizio significa appunto “sospenderlo”, non “farlo sparire”. 

Sospenderlo affinché si possa capire meglio cosa, dove, come, perché avvengono certe cose. Se non lo facessimo avremmo perso larga parte delle informazioni che invece potevano uscire.

E questo, vale anche e soprattutto nella vendita consulenziale.


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Copyright. Articolo estratto dal libro “Direzione Vendite e Leadership. Coordinare e formare i propri venditori per creare un team efficace” di Daniele Trevisani, Franco Angeli editore, Milano. Pubblicato con il permesso dell’autore.

La leadership efficace ispira e motiva le persone a lavorare con passione e soprattutto forma le persone ad utilizzare un metodo di vendita specifico, anziché lasciarle allo sbaraglio e senza direttive. I modelli di team privi di leadership sono pure utopie che nel mondo umano e aziendale non funzionano.

Il bisogno di fare formazione per il team di vendita è urgente quanto l’acqua nel deserto. Un metodo di vendita, in particolare il metodo del Solutions Selling e la vendita consulenziale, offrono una piattaforma solida su cui basare ogni vendita e ogni giornata di lavoro.

La leadership basata sul coaching

Basare la leadership sul coaching significa predisporsi ad essere “allenatore” e formatore della propria squadra di vendita, promotore di uno sviluppo personale e professionale del venditore, e protagonista di una relazione di aiuto “centrata sulla persona” (il venditore).

Il coaching punta a far crescere l’individuo lungo tre vettori primari: i saperi, il saper essere, il saper fare.

In un programma di leadership basata sul coaching, ogni venditore viene analizzato in termini di: Bilancio dei “saperi”, e relativo piano di crescita: cosa sai; bilancio del “saper essere”, degli atteggiamenti e tratti caratteriali, e relativo piano di crescita personale: come sei; bilancio del “saper fare”, delle competenze di cui dispone la persona, e relativo piano di sviluppo: cosa sai fare.

La leadership basata sull’Analisi della Conversazione (AC)

La Leadership Conversazionale rappresenta una tecnica di gestione della conversazione, intenta a riconoscere i formati conversazionali in corso, riposizionarli nella direzione voluta, riconoscere le mosse conversazionali attuate dagli altri, pianificare il proprio comportamento in una direzione più assertiva.

Esempi di formati conversazionali inerenti la relazione con il venditore:

  • la lamentela (esternalizzazione del problema);
  • il “parlare di guai”;
  • la “confessione”;
  • l’analisi scientifica;
  • le chiacchiere da bar.

Esempi di mosse conversazionali:

  • i depistaggi o decentraggi del tema (saper spostare l’argomento di conversazione via dal tema X);
  • le offerte di tema (offrire un tema come argomento di conversazione);
  • il ricentraggio conversazionale (saper riportare la conversazione sul tema che ci interessa trattare);
  • la gestione dei turni di conversazione.

Quando si tratta la leadership conversazionale, occorre essere estremamente chiari sul fatto che il successo è rappresentato dal quanto riusciamo a “far parlare il cliente” e non da quanto noi stessi parliamo.

La leadership basata sulle abilità emozionali

La Leadership Emozionale è così definibile: “la capacità di attingere con successo alle risorse emotive della persona e del gruppo per coordinare e dirigere i team e i progetti”.

Nella direzione vendite, essa riguarda due aspetti pratici: (1) il riconoscimento e gestione delle proprie emozioni, come leader, e (2) l riconoscimento delle emozioni dei membri del team di vendita.

Quali sono quindi le principali competenze emozionali per la leadership di vendita? Le elenchiamo di seguito:

  • riconoscere le emozioni che si provano personalmente (self-emotional detection), autoempatia emotiva; partire da se stessi anziché da migliaia di chilometri di distanza, è sempre una buona scelta;
  • riconoscere le emozioni che prova l’altro (other’s-emotions detection), empatia emotiva; sensibilizzarsi, sentirle, sub-odorarle, verificarle;
  • fare scudo alle emozioni negative, agli inondamenti emotivi negativi (emotional shielding) – proprie ed altrui; questo non significa non ascoltarle, significa non farsi dominare dalla negatività, concedere alle emozioni di potersi esprimere senza farsene invadere in modo permanente;
  • riconoscere i sequestri emotivi: capire quando un’emozione assorbe completamente il vissuto e se questo sia bene o male, e nel caso di emozioni distruttive aiutare il soggetto a liberarsene e allentarle;
  • riconoscere gli acquari emotivi: i climi emotivi che si creano nelle situazioni interpersonali e di gruppo;
  • metabolizzazione emotiva: aiutare se stessi e gli altri a metabolizzare le emozioni, digerirle, capirle, ascoltarle, darvi accoglienza, e andare a step successivi;
  • distinguere emozioni acute (di picco) e emozioni croniche o latenti (sfondi emotivi);
  • distinguere gli stati emotivi complessi, riconoscere le emozioni miste (mixed emotions);
  • saper riconoscere i vari strati e tipi di emozioni compresenti in un determinato momento, saper capire da dove vengono le emozioni negative, aiutare le persone a gestirle, ad alimentarsi delle emozioni positive (mixed-emotion analysis);
  • saper esprimere le emozioni, saper comunicare le emozioni (emotional expression);
  • saper usare le emozioni come motore della motivazione.

La gestione delle emozioni non significa assolutamente comprimerle, negarle, ma significa saperle usare a proprio vantaggio, saper direzionare le energie interiori che agiscono sulle emozioni e canalizzarle in azioni positive e in pensiero positivo; creare un clima di gruppo positivo nel quale sia bello lavorare (emotional management), cogliere le emozioni e saperle canalizzare in positivo.

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